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Luis Bunuel

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MS. 45 (L’angelo della vendetta, 1981) di Abel Ferrara – Capitolo 3

Zoë Tamerlis Lund: biografia metacinematografica

Ferrara, non si limita solo a rivisitare Buñuel, uno dei suoi autori preferiti, ma – oltre a chiudere il film con un animale simbolico (il cagnolino Philly che ritorna (in Ms.45) e la cavalla Lozana che si rialza (in Susana)) per evidenziare la non completa malvagità delle protagoniste – ricalca l’espediente linguistico del maestro spagnolo, in cui Susana vuol dire “castità”, mentre Thana rimanda a “Thanatos” (con l’aggiunta qui che l’attrice si chiama Zoë cioè vita). Luis Buñuel, mette in bocca a Feliza la frase che al meglio descrive Susana (e per rimando anche Thana): “Quella non è decente neppure con indosso una veste da suora”.

MS. 45 (L’angelo della vendetta, 1981) di Abel Ferrara – Capitolo 2

Il fallo armato e le corrispondenze buñueliane

Nicodemo Oliverio scrive la sceneggiatura per episodi, in funzione del fatto che la protagonista principale è muta e che, soprattutto, gli altri personaggi servono solo da contorno – visto che sono (volutamente) poco più che macchiette che non hanno nulla da dire. Ferrara, utilizza, in parte, la stessa tecnica del film precedente – sia nel concentrare in una scena di accumulo gran parte degli omicidi di Thana, sia nel riprendere le scene tra la folla della 5a Avenue (in cui passeggiano Thana e il fotografo) attraverso l’utilizzo della hidden camera. Nonostante le continue negazioni da parte di Abel Ferrara, non si può prescindere dal notare come il film sia influenzato dalle teorie femministe, secondo cui lo stupro è solo l’espressione più diretta dell’aggressività del maschio all’interno di ogni relazione eterosessuale, e secondo cui, quindi, tutti gli uomini sono colpevoli e punibili con la morte: non a caso Thana rivolge le sue attenzioni omicide anche verso innocenti la cui unica colpa sembra essere quella di appartenere al genere maschile – così come il primo stupro si conclude con la frase, intimata all’orecchio dal violentatore: “Devo fare presto, ma tornerò perché ti piace, ti aspetterò io…e ti piacerà ancora, ti piacerà..”.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 6

La pulsione di morte anima il ‘68

In Cálamo Massimo Pirri riprende lo spazio in ottica antonioniana – non come semplice rappresentazione architettonico-paesaggistica – come luogo che amplifica e determina tanto il carattere dei personaggi, quanto il contenuto delle situazioni che si sviluppano in esso. Riccardo nella villa – come negli altri ambienti chiusi – è sfasato rispetto allo spazio in cui si muove ed è perennemente in dissidio con quanto gli accade attorno; negli spazi aperti è spaesato, perduto, persino passivo – come dimostra la sequenza iniziale in cui è “un uomo che guarda” il sesso della donna, e in cui è totale la mancanza di contatto: la realtà si consuma attorno a lui.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 5

Il saprofita nel càlamo

Riccardo quindi è una figura cristologica dimezzata (perché incompiuta), realmente incapace di vivere in maniera piena da solo ma sempre a rimorchio di qualcuno: la sorellastra, il gruppo, la vocazione. Una vocazione che se in un primo momento appare forzata e di comodo – per sfuggire alla famiglia e alle sue imposizioni e ipocrisie – in un secondo istante, dopo aver preso consapevolezza della scelta a seguito dell’amplesso con Marina/Càlamo, assume i toni dell’anticonformismo maturo, sincero, sacrificale. La figura del prete, in quanto “servo del Signore”, assume in Riccardo i crismi dell’unica scelta possibile per opporsi strenuamente alla “vanità” che lo circonda.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 4

Favola del XX° secolo

Riccardo intraprende un viaggio – via crucis che a tappe forzate (e a ritroso) lo porta a confrontarsi con il passato e il presente di un’Italia fatta di cimiteri di automobili, case dismesse e cascine semi-abbandonate. Luoghi e volti – quelli che incontra il giovane – retaggio di un progresso che produce solo rifiuti, di un lavoro che non c’è, e di una cultura contadina in progressivo decadimento e abbandono. Il “viaggio” di Riccardo è dunque finalizzato a porre una riflessione – cinica e spietata – sul contesto sociale in cui maturano le istanze rivoluzionarie e in cui crescono e diventano adulti questi giovani che sono sì colpevoli ma, inevitabilmente, anche vittime. In quest’ottica entra il concetto di possesso non inteso come accumulo di beni materiali bensì come contratto delle coscienze e dei piaceri.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 3

Montaggio erotico per un madrigale surrealista

Il percorso cinematografico di Massimo Pirri negli anni ‘70 dimostra come le quattro tappe dei quattro film realizzati scandiscono l’involuzione dei sessantottini fino alla nemesi e autodistruzione che scorre nelle siringhe di eroina del film omonimo. Si può quindi dire che la sua filmografia traduca in immagini i concetti espressi (a parole) in Càlamo. Attraverso il monologo di Marina sulla spiaggia, Pirri non si limita a denunciare l’ipocrisia borghese e a smascherare l’inconsistenza di velleità reazionarie di una intera generazione (quella del ’68) ma anticipa le tragiche conseguenze della disillusione e il successivo sfociare nel terrorismo politico: “Il mondo deve cambiare, in tutto, se no, meglio crepare che vivere così. Bisogna andare oltre, credimi. Cominciare da dentro: cuore nuovo, vita nuova. E se non ci riuscissi, allora meglio assassina, puttana o dinamitarda”. Ambiguità e ipocrisia sono strutturate da Massimo Pirri – lungo tutta la pellicola – attraverso l’uso insistito del montaggio alternato secondo le dinamiche tentazione/redenzione. Il regista mostra, contemporaneamente, il desiderio che anima il peccato e l’abbandono del corpo ai piaceri della carne sottolineando, continuamente, cause e conseguenze e mescolando, arbitrariamente, libertà e oppressione – il tutto al fine di restituire una visione vertiginosa del libero arbitrio.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 2

Lo stigma di una generazione…

In realtà i dialoghi talvolta logorroici, talvolta “presuntuosi” di Càlamo, sono invece parte di una scelta autorale consapevole – forzatamente ricercata – finalizzata a mettere in scena il falso come stile di vita e persino come stigma di una generazione. Il film si avvolge attorno alla condanna del gruppo che – come rabbiosamente comprende Riccardo nel finale – alla rivoluzione “non ci ha mai creduto” ma l’ha utilizzata, strumentalmente per nascondere pavidità e velleitarismo. Le parole, dunque, nella sceneggiatura del film diventano puro elemento retorico che denuncia l’ipocrisia dei sessantottini, i quali altro non hanno fatto che approfittare delle circostanze per vivere una stagione simbolicamente libertaria, prima di rientrare nei ranghi del conformismo borghese e rassicurante: non a caso, nel finale una volta indossati gli abiti di circostanza le parole del gruppo si fanno rarefatte e concrete.

Voi cari “sessantottini”, avevate tutto, ricchezza e cultura. […] Voi “sessantottini”, avevate dalla vostra la comprensione e l’ammiccamento complice dei vostri genitori e dei grandi giornali borghesi. “Sun Zueni”, sono giovani dicevano di voi, guardandovi con l’occhio compiaciuto con cui il padre guarda il figlio “tanto vivace”, i vostri genitori borghesi e benestanti…[1]

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 1

Il sesso della rivoluzione…

Tratto da un soggetto dello stesso regista e sceneggiato in collaborazione con Piergiovanni Anchisi, Cálamo è l’opera prima di Massimo Pirri ed è anche il film in cui i riferimenti a Luis Bunuel (per le immagini surreali) e a Michelangelo Antonioni (per il modo di inquadrare lo spazio e il paesaggio) emergono meglio, grazie anche ad una scrittura filmica coerente e meticolosa. Il titolo – che fa riferimento all’immagine di un fiore carnivoro equiparato al sesso femminile depilato – identifica nell’attrice il film stesso: sui titoli di testa infatti, compare l’inconsueta dicitura Cálamo è Paola Montenero. Cálamo è dunque un simbolo, quello della ricerca, meditata e assoluta, della trasgressività, sia a livello di forma sia a livello di contenuti. Cálamo è una pianta carnivora che dona al contempo amore e morte, ed è quindi solo la rappresentazione di un concetto, quello di amore/peccato che tutto travolge e tutto annulla flirtando con una trasgressione fittizia e posticcia che niente ha di reale. Una trasgressione falsa perché agita da rivoluzionari in giacca e cravatta che, nella parole aleatorie e nella proiezione del sesso libero, credono di violare la costrizione (della religione) e di trovare la libertà (intesa come assenza di regole).

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 4: La prova generale

I grandi maestri: William Friedkin, Luis Buñuel, John Cassavetes, James Toback – ispirazioni sublimi su un cattivo tenente

Il poliziotto è nudo pertanto (e Ferrara opportunamente mostra un full-frontal mantegnano di Harvey Keitel in una delle prime scene del film), stretto in una città in cui la violenza dilaga e contagia ogni essere umano come una vera e propria epidemia o malattia. Non è casuale che Bad Lieutenantsia oltremodo accomunabile con uno dei film più controversi degli anni ’80, Cruising (id., 1980) di Williamn Friedkin e che la parabola di Lt ricalchi sul versante spirituale quella materiale di Steve Burns (Al Pacino). In Cruising, il poliziotto Steve Burns (Al Pacino) si addentra come infiltrato nella New York omosessuale alla ricerca di un serial killer che uccide e mutila i gay; la sua indagine però lo porterà a mettere in discussione la sua identità sessuale e a confrontarsi con il lato oscuro della sua anima. Anche qui, come in Bad Lieutenanttroviamo un’indagine poliziesca a fare da sfondo ad un tema ben più ampio e profondo: la conoscenza di se stessi fino alle estreme conseguenze. Come in Bad Lieutenant anche nel film di Friedkin, è fondamentale il contributo del sonoro: nel film di Ferrara i rumori nascondo i dialoghi, in Cruising il rumore del cuoio e della pelle e il battere dei tacchi e degli stivali delimitano luoghi e spazi e sono rivelatori di una minaccia costante. Steve Burns come Lt è spettatore passivo dei rapporti sessuali: se in Bad Lieutenanterano performance recitate, in Cruisingsono gli accoppiamenti e le orge dei locali sado-maso del Greenwich Village a sconvolgere ed affascinare la mente del protagonista, progressivamente compresso in spazi sempre più asfittici: azzeramento dello spazio quindi, cioè il vuoto.

RACCONTI PROIBITI… DI NIENTE VESTITI (1972) di Brunello Rondi

Un misconosciuto decamerotico. Uno zibaldone, problematico ed estremo, sintesi dell’opera del regista. Un esperimento in precario equilibrio tra Fellini, Pasolini e Bunuel

Un film goliardico, curioso, e invisibile (l’unica copia visionabile è quella della Cineteca Nazionale di 103 min, mentre esiste una vhs spagnola di 85 min.) squarciato da improvvisi e inaspettati lampi di violenza, teso ad integrare anche il registro comico in quell’universo angoscioso e perturbante che permea la filmografia (da regista) di Brunello Rondi. Un film d’autore che utilizza il genere, lo plasma – prima ne segue i codici, poi, improvvisamente, li violenta – spiazzando lo spettatore e inserendo nel discorso filmico un crinale ambiguo sospeso tra Pier Paolo Pasolini (il Decameron) e Federico Fellini. Racconti proibiti…di niente vestiti (titolo detestato dallo stesso Rondi ma imposto dal produttore Oscar Brazzi), ha un andamento discontinuo; al suo interno alterna notevoli pagine di cinema a paurose cadute di tono non riuscendo mai a trovare una strada univoca da percorrere nel vano tentativo di far coesistere comicità e dramma all’interno di una struttura che è in tutto e per tutto ascrivibile al genere decamerotico. Un genere che racchiude dentro di sé una serie di pellicole (circa una cinquantina) uscite prevalentemente tra il 1972 e il 1973 e derivate dal successo de Il Decameron di Pier Paolo Pasolini – oltre che da tutta la Trilogia della Vita ad opera del poeta-regista – connotato dalla particolarità di essere un fenomeno tutto italiano, poi esportato nel resto del mondo (persino in America); non ha originato epigoni in altri paesi: Un filone caratterizzato da una comicità gretta e volgare, afflitto da una recitazione (spesso) dilettantesca, corroborato da un gineceo di nudità femminili senza eguali e tipicizzato da un inconsueto uso del dialetto. A suo modo un genere federalista ante litteram ma (ma sessualmente “centralista”) che utlizza il dialetto in funzione espressiva, valorizzando la vulgata regionale dando vita ad una frantumazione linguistica lontana dall’omologazione odierna; capace di racchiudere armoniosamente e goliardicamente l’unità nazionale sotto la (discutibile) bandiera duplice della virilità maschile e della disponibilità femminile.