La pulsione di morte anima il ‘68

In Cálamo Massimo Pirri riprende lo spazio in ottica antonioniana – non come semplice rappresentazione architettonico-paesaggistica – come luogo che amplifica e determina tanto il carattere dei personaggi, quanto il contenuto delle situazioni che si sviluppano in esso. Riccardo nella villa – come negli altri ambienti chiusi – è sfasato rispetto allo spazio in cui si muove ed è perennemente in dissidio con quanto gli accade attorno; negli spazi aperti è spaesato, perduto, persino passivo – come dimostra la sequenza iniziale in cui è “un uomo che guarda” il sesso della donna, e in cui è totale la mancanza di contatto: la realtà si consuma attorno a lui.

Nel finale, la sua condizione di voyeur di fronte alla violenza subita da Marina si interrompe bruscamente quando scatta in lui la consapevolezza di dover agire, esporsi, rischiare (anche la vita) per poter realmente provare a cambiare le cose. Non a caso, infatti, mentre guarda è chiuso nello spazio claustrofobico dell’abitacolo della Land Rover da cui esce – come liberandosi da una gabbia – nel momento in cui interviene per fermare lo stupro. Solo nel luogo/spazio etereo dell’astrazione Riccardo trova e conosce (finalmente) se stesso – come dimostra la sequenza onirica in cui al biancore si associa un silenzio immanente e irreale, e in cui la dimensione è quella del desiderio (per Riccardo, infatti, è “la prima volta”). Ma il contesto qui non è tangibile, perché è quello del sogno, quello di un amore/sesso senza parole le quali entrano in scena solo al termine dell’amplesso e con l’offerta da parte della donna della mela del peccato.

Paradossalmente negli spazi aperti (la spiaggia, la riva del mare…) il film si avvita su stesso diventando agorafobico, e l’ambiente schiaccia il personaggio fino a condurlo alla morte (sulla spiaggia) e limita – tanto a lui quanto al gruppo – la conoscenza di sé, annullando ogni individuo e impedendogli di (ri)nascere: al punto che il tema che, prepotentemente, emerge dal sottotesto è quello dell’inadeguatezza, della non-possibilità di adattamento alla vita – di un assenza di futuro e di una paura del passato (legate entrambi allo sgretolamento dei valori tradizionali) – tanto che Riccardo “sceglie” di morire, mentre il gruppo di rientrare conformisticamente nella società che dileggia.

Cálamo è quindi uno squarcio sul reale: un viaggio interiore che contrappone l’individuo e la società e al contempo è un’esperienza visiva – filtrata dal surrealismo – che stimola la riflessione e non lascia indifferenti. Non è un semplice esercizio di stile manicheo per mettere in scena la contrapposizione tra Bene e Male, bensì il tentativo (riuscito) di raccontare le contraddizioni esistenziali e sociali (non politiche) di un’epoca, anticipandone profeticamente le delusioni e le tragedie. Nella vicenda di Riccardo si può intravedere il travaglio di un paese (l’Italia) non più innocente, alla disperata ricerca di un’identità, mentre la sua società (rappresentata da “il gruppo”), ambisce a desideri irrealizzabili e annega le proprie speranze in un’ipocrisia perbenista e moralista. “Mettete i fiori nei vostri cannoni” si cantava all’epoca, ma se i fiori sono carnivori e “finti” come Cálamo (da qui l’identificazione titolo-attrice), sono le armi che riprendono a tuonare. Il regista sa leggere, in prospettiva, le conseguenze dell’irrefrenabile e sfuggente (perché ingestibile) pulsione di morte che ha animato il ’68’ mettendo a fuoco come l’innocenza inscenata dal “rito” sulla spiaggia abbia come suo esatto contraltare il capovolgimento carnevalesco e il relativo rientro nei ranghi borghesi che il gruppo mette in atto nel finale.

Si può quindi dire che Massimo Pirri intraveda come la festa del movimento – con la creatività del 1977 – sia destinata ad essere soffocata, prima ancora che nel sangue della repressione di Stato dalla necessità di conformismo borghese che anima questi giovani viziati, velleitari e inconcludenti. Massimo Pirri lo aveva già capito: l’innocenza perduta e la voglia di cambiamento affogheranno, di lì a poco, nel sangue innocente delle vittime dell’escalation terroristica. Suona quindi profetico e inquietante il titolo originale (mai utilizzato) pensato per Cálamo: Favola del XX° Secolo, una fiaba nera dove la violenza ha vinto sull’amore, dove il lupo ha divorato l’agnello e dove la speranza spirituale ha lasciato posto al finto spettacolo del “culto dell’apparenza”.

Parlo di me perché dovrei raccontare di decine di persone, donne e uomini, spesso ragazzi e ragazze e le nostre storie sono tutte simili e diverse. Parlo di me perché ne ho la possibilità, ma per amore per quella generazione, che tengo cara nel mio cuore e che mi permette di guardare con affetto ai ragazzi e alle ragazze ribelli di oggi; per quei mesi, quei pochi anni che abitammo assieme, cercando, frugando nel presente e nel passato; cercando nei corpi, nei libri, nell’arte, nella violenza, nell’ironia, nelle droghe, nel vino, cercando infine la Grazia, come spesso ci ricordano Roberto Barbanti e Alberto Masala, la Grazia del mondo. Che sempre è meno. La cordialità.[1]

di Fabrizio Fogliato ©

[1] Franco Berardi (Bifo) e Veronica Bridi (a cura di), 1977, L’anno in cui il futuro incominciò, Fandango libri, Roma, 2002, pag.86

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