Un misconosciuto decamerotico. Uno zibaldone, problematico ed estremo, sintesi dell’opera del regista. Un esperimento in precario equilibrio tra Fellini, Pasolini e Bunuel

Un film goliardico, curioso, e invisibile (l’unica copia visionabile è quella della Cineteca Nazionale di 103 min, mentre esiste una vhs spagnola di 85 min.) squarciato da improvvisi e inaspettati lampi di violenza, teso ad integrare anche il registro comico in quell’universo angoscioso e perturbante che permea la filmografia (da regista) di Brunello Rondi. Un film d’autore che utilizza il genere, lo plasma – prima ne segue i codici, poi, improvvisamente, li violenta – spiazzando lo spettatore e inserendo nel discorso filmico un crinale ambiguo sospeso tra Pier Paolo Pasolini (il Decameron) e Federico Fellini. Racconti proibiti…di niente vestiti (titolo detestato dallo stesso Rondi ma imposto dal produttore Oscar Brazzi), ha un andamento discontinuo; al suo interno alterna notevoli pagine di cinema a paurose cadute di tono non riuscendo mai a trovare una strada univoca da percorrere nel vano tentativo di far coesistere comicità e dramma all’interno di una struttura che è in tutto e per tutto ascrivibile al genere decamerotico. Un genere che racchiude dentro di sé una serie di pellicole (circa una cinquantina) uscite prevalentemente tra il 1972 e il 1973 e derivate dal successo de Il Decameron di Pier Paolo Pasolini – oltre che da tutta la Trilogia della Vita ad opera del poeta-regista – connotato dalla particolarità di essere un fenomeno tutto italiano, poi esportato nel resto del mondo (persino in America); non ha originato epigoni in altri paesi: Un filone caratterizzato da una comicità gretta e volgare, afflitto da una recitazione (spesso) dilettantesca, corroborato da un gineceo di nudità femminili senza eguali e tipicizzato da un inconsueto uso del dialetto. A suo modo un genere federalista ante litteram ma (ma sessualmente “centralista”) che utlizza il dialetto in funzione espressiva, valorizzando la vulgata regionale dando vita ad una frantumazione linguistica lontana dall’omologazione odierna; capace di racchiudere armoniosamente e goliardicamente l’unità nazionale sotto la (discutibile) bandiera duplice della virilità maschile e della disponibilità femminile.

Racconti proibiti…di niente vestiti (che il regista avrebbe voluto intitolare Maestro d’amore) si presenta con una confezione lussuosa, nettamente superiore alla media del genere, impreziosita da una raffinatezza formale e da una messa in scena curata e puntigliosa, frutto di un’eterogea compagine realizzativa (i fratelli Brazzi: Oscar produttore e Rossano attore) e di una sceneggiatura arguta e ammiccante curata da Brunello Rondi, Gianfranco Bucceri e Roberto Leoni (a quest’ultimo si devono le parti meno riuscite del film). Brunello Rondi avrebbe voluto farne un film alla Tom Jones (1963) di Tony Richardson (come testimonia l’episodio della maga Dirce), distaccandosi dal decamerotico, come egli stesso ricorda: “Nel film esisteva un godimento rinascimentale della vita che non aveva nulla a che fare con gli squallidi, orrendi decameroni di quel periodo, che magari fossero stati all’altezza di quello di Pasolini! Fu questo un altro mio film sfortunato in Italia, che mi suscitò contro inorridite critiche”. La delusione critica venne compensata (in parte) dal successo di pubblico visto che il film incassò, all’epoca, cinquecento milioni di lire (come il precedente Valeria dentro e fuori) attestandosi come uno dei maggiori successi per l’intero genere secondo solo al capostipite pasoliniano. Il filo conduttore del film è politico: imperniato sulle dinamiche del potere che regolano il rapporto tra aristocrazia e papato da una parte e popolani e bifolchi dall’altra: ecco che si susseguono lo jus primae noctis, la concessione di Papa Borgia, la violenza del più forte che salva la vita al più debole; il tutto virato su un registro comico-sarcastico che non rinuncia alla critica e alla denuncia. Pasolini e Fellini, sono evidentemente i due mentori: dal primno proviene la libertà descrittiva e cinematografiche del mostrare e la riflessione (amara) sul maschio, mentre dal secondo la visionarietà nel descrivere l’assoluto della bellezza vista come miraggio (Uccio la “vede” attraverso il cannocchiale), mentre il finale con la morte è quanto di più rondiano ci possa essere ed è testimoniarnza dell’ importanza dello sceneggiatore-regista nel opera del maestro riminese.

Ser Lorenzo del Cambio (Rossano Brazzi), pittore e poeta, lasciato il convento dov’è autorizzato da papa Borgia, suo grande amico, a fornicare con le suore, viene incaricato da ser Uguccione di iniziargli il figlio Uccio all’amore carnale. acconsente. Cammin facendo svolge alcuni racconti: uno “jus primae noctis” esercitato, questa volta, tra una duchessa e un giovane sposo; il “miracolo” della fecondità operato da fra Bernardone Mario Carotenuto) con una sposina esposta alla devozione litaniante dei fedeli; un imbroglioncello reso impotente dalle arti magiche della ragazza abbandonata; la sodomizzazione di cui muore un creditore petulante a opera del debitore. Lorenzo e Uccio giungono al castello di madonna Lucrezia (Barbara Bouchet), ossessionata da devozioni religioso-sadico-masochistiche. Lorenzo ne approfitta e intanto Uccio gli ruba il decreto pontificio, col quale si installa nel convento femminile di cui sopra…

La cornice del viaggio serve per includere i racconti di Lorenzaccio al giovane Uccio: un maestro che cerca di educare l’allievo al libertinaggio e alla dissolutezza. Ad episodi interessenti come quello pasoliniano dello jus primae noctis (riuscito e profondo), quello di donna Lucrezia (liminale e complesso) fino a quello (irrisolto) di Fra Bernardone, seguono quello della maga Dirce (irritante e noioso) e quello di Sarnacchione e Bastianazzo (poco più di una barzelletta greve ma divertente) prima del finale bunueliano e catartico con protagonista la bellezza luciferina e nuda della morte. Curioso è constatare che la storia di Sarnacchione ricalca e si chiude con l’esito similare a quella di un episodio del film Decameron 2…Le altre novelle del Boccaccio (1972) di Mino Guerrini: nel più pasoliniano dei decamerotici, il perugino Pietro di Vinciolo, torna a casa improvvisamente e scopre l’amplesso tra la moglie ed un giovane amante ma, anziche bastonare (o stuprare come fa Bastianazzo nel film di Rondi)il giovane, il marito lo accoglie in casa sua rivelando alla moglie, sconvolta, la sua omosessualità (mentre nel film di Rondi il tema e l’esito sono appena accennati). L’episodio dello jus primae noctis è altresì significativo. Percorso da una tensione conturbante che lega attesa e nudità e, all’improvviso – nella scena del bagno di Maddalena officiato dalle ancelle del duca – la violenza irrompe sotto forma di schizzi d’acqua che sembrano penetrare, ferire, lacerare il corpo della giovane donna. E’ appena un istante – giocato su tre inquadrature in dettaglio sul seno di Maddalena – ma è il preambolo (angoscioso) alla cerimonia dello jus primae noctis (al contrario), che qui avviene in una stanzone lugubre sul cui fondo è posizionato un letto ricoperto di drappi neri: più che un’ iniziazione, un funerale. Mentre la moglie del duca si appresta a godere delle grazie del giovane Morando il marito osserva la scena e declama: “Ecco un uomo innanzi a te come un giovane Dio, e tanto amabilmente tu gli sorridi ch’io… più verde dell’erba divento e vivo e rido… e godo”. Implicitamente, l’uomo dichiara la sua omosessualità, e si trova a ricoprire, suo malgrado, il ruolo di colui che guarda, impotente e inane sia sessualmente che caratterialmente.

Racconti proibiti….di niente vestiti, si apre con la scena della cena a casa di donna Prudenza; momento che funge da preambolo alla scommesa a sfondo sessuale tra il monsignore e Lorenzaccio. Se il libertino dichiara tutta la sua forza e la sua virilità dirompente attravero aneddoti e comportamenti, è altresì vero che egli rappresenta (nell’idea del regista) la chiave per scardinare l’ipocrisia delle convenzioni. Lorenzaccio, si siede a tavola ed esordisce: “Mi prendo licenza di proporre che ognuno si sieda dove più gli aggrada…e non secondo usanze”, dando vita ad un baccanale in cui cibo e sesso si mescolano mentre, sullo sfondo, (in ogni inquadratura) campeggia un grande crocifisso bizantino; poi prosegue nel dialogo con donna Prudenza tutto giocato su doppi sensi sessuali/religiosi: “E’ vero ser Lorenzo che avevate perso la strada e vi siete rifugiato al romitorio delle penitenti?”, e donna Prudenza incalza: “Quando io sono arrivata stava favcendo gli …ersercizi spirituali…”; per nulla imbarazzato, il libertino risponde convinto: “Certo, ad esser sinceri non facevo altro che seguire il consiglio del mio amico Papa Borgia…Si via est obscura, refugiat in clausura”, e aggiunge: “…per fornicar senza misura”. La scelta di Brunello Rondi è dunque programmatica: utilizzare il decamerotico per affrontare la diatriba tra religiosità e devozionismo enucleando progressivamente le contraddizioni di una chiesa coercitiva ed opprimente (ma incline ad una sessualità smisurata) come solo un cattolico vero è in grado di fare.

Daltro canto, la religiosità, le sue contraddizioni e le sue ambiguità popolari costitiscono uno dei temi centrali del film come dimostra l’episodio di donna Lucrezia, duchessa degli Uberti, nel quale il regista estremizza e trasfigura (e ridicolizza) la patologia traumatica di Valeria Recchi del film precedente, affidando il personaggio alla stessa attrice (Barbara Bouchet) e, dirigendo l’episodio sul filo sottile e pericoloso che divide la sacralità dalla blasfemia. Donna Lucrezia ama ripercorrere alcune tappe della passione di Cristo attraverso la sessualità. Ella cerca la mortificazione della carne, in un delirio di estasi e sofferenza; ama frustare e farsi frustare – come dimostra la scena di apertura che la vede intenta a lavare i piedi di un giovane seduto a braccia aperte (come a simulare la crocefissione) mentre Lucrezia lo invita: “Prepara il tuo corpo alla flagellazione… e al cammino del dolore”; poi, subito dopo, sul prato, di fronte alla debolezza del giovane nell’eseguire il compito da lei richiesto afferma: “Ti prego, perdonalo perchè non sa quello che sta facendo”. La sequenza, ha dell’incredibile, per il tipo di film in cui è inserita; Brunello Rondi gioca con abilità e malizia su un connubio di violenza (mostrando le piaghe e il sangue della fustigazione) e goliardia, svoltando bruscamente verso un finale in cui Lorenzaccio, convince Lucrezia ad abbandonarsi all’ “abisso del dolore” (intendendo, maliziosamente, la consumazione dell’amplesso), facendo leva sul desiderio di sofferenza estrema della donna la quale afferma: “Il lubrico fornicare dei corpi in calore. Traggo tutta la mia gioia dalla mortificazione e dalla rinuncia”. Il binomio, al limite del blasfemo, tra estasi e dolore, trova compimento nella scena in cui Lucrezia (con in testa una corona di spine) e Lorenzaccio percorrono in ginocchio la scalinata: sullo sfondo, si intravede (in alto a destra) una croce, e la sovrapposizione tra il golgota spirituale e quello terreno è dunque compiuta.

In Racconti proibiti…di niente vestiti, in seconda istanza, Brunello Rondi, ribalta due cardini del decamerotico; la virilità maschile è messa alla berlina da un susseguirsi ininterrotto di amplessi mai consumati per i motivi più svariati: Corvaccio viene richiamato all’ordine mentre approfitta delle grazie di una contadina; Romeo viene interrotto da un incantesimo di Dirce; Sarnacchione di Castelproia viene continuamente interrotto (e punito) dal marito di donna Felicita; lo jus primae noctis non viene consumato dal Duca che si limita a guardare la moglie. Insomma nel film di Rondi l’uomo è incapace, inetto, impotente e, tendenzialmente, omosessuale. Anche la disponibilità femminile viene ribaltata di senso alterando l’equilibrio tra i sessi e facendo assumere alla donna il ruolo di padrona del maschio: così è per la moglie del duca che usufruisce della bellezza di Morando; per Giulietta che dileggia Romeo a causa della sua impotenza; per donna Lucrezia che – tra estasi/sofferenza – umilia e rende consapevole della sua bassezza l’incallito amatore Lorenzaccio, cui non rimane che concedersi, anche, alla morte.

Il discorso nel film di Rondi è (come sempre) politico, teso a svelare l’ipocrisia più profonda e a riflettere sui cambiamenti (sono gli anni della rivoluzione sessuale) e sui loro lati oscuri. Per fare ciò il regista rielabora alcune figure dei suoi film precedenti proponendole sotto la maschera del grottesco per accentuare i toni della sua critica. Morando non è altri che una versione elegante ed ingenua di Tommaso (Una vita violenta), mentre lo Zì Giuseppe de Il Demonio, in Racconti proibiti…di niente vestiti, prende le sembianze di Fra Bernardone il quale, come il suo precursore, approfitta del devozionismo e dell’ignoranza dei fedeli per godere delle grazie di mogli meno ingenue di quanto possa sembrare. I fedeli lo invocano con litanie in rima: “Fra Bernardone, frate santo, commovetevi al nostro pianto. Fra Bernardone nostro costrutto miracolateci un altro frutto”, chiedendogli la fertilità di mogli (apparentemente) frigide, mentre, egli, con due sole domande, ne svela l’ipocrisia: “Che cosa cercate da me?” , “la Fede” risponde il polpolo; “Che cosa volete da me?”, “Il miracolo!” gli risponde la gente. A Rondi bastano due battute per denunciare l’inconsistenza di una religiosità basata sul miracolo come atto necessario per credere ma mascherata da una opportunistica ricerca della Fede. Non a caso, nel finale dell’episodio, egli mette in relazione l’orgasmo femminile e la grazia, cortocircuitando il senso del peccato e costruendo un’ambigua messa in scena del libero arbitrio.

La morte, compare nel finale del film, in cui Lorenzaccio attraversa la valle nebbiosa dove ode le voci delle sue amanti chiamarlo ripetutamente. Egli sinterroga: “Ma dove sono andato a finire?…sembra l’inferno…ma che dico?”. Subito dopo – in una scena a metà strada tra Fellini e Bunuel – la Morte appare sotto le sembianze di una visione celestiale (incarnata dalla bellezza statuaria di Monica Stroebel). Lorenzaccio sembra fuggire spaventato, per poi concedersi alla nudità eterea della donna, prendendola per mano e urlando a squarciagola: “Andiamo… e chi se ne frega!”. Brunello Rondi, anche in un film minore come Racconti proibiti… di niente vestiti non rinuncia al suo tocco perturbante con l’intento di rappresentare una sessualità dissimulata, gioiosamente esibita (ma su cui incombe minacciosa la morte) attraverso l’idea di un pensiero “modernamente antico” intriso di passionalità e spiritualità, frutto di una poetica della carne vitale e ontologica, finalizzata a scandalizzare per evidenziare la fragilità e la debolezza dell’essere umano.

di Fabrizio Fogliato

RACCONTI PROIBITI… DI NIENTE VESTITI

Regia/Director: Brunello Rondi
Soggetto/Subject: Roberto Leoni, Gianfranco Bucceri
Sceneggiatura/Screenplay: Roberto Leoni, Gianfranco Bucceri, Brunello Rondi
Interpreti/Actors: Janet Agren (Maddalena), Tina Aumont (Dircve, la maga), Norberto Botti (Morando), Barbara Bouchet (Lucrezia degli Uberti), Rossano Brazzi (Lorenzo), Enzo Cerusico (Romeo), Ben Ekland (Uccio), Antonio Falsi (Sarnacchione di Casteltroia), Michael Forest (Bastianazzo), Silvia Monti (Felicita), Magalì Noël(donna Prudenza), Karin Schubert (contadina bionda), Monica Strebel (“morte”), Leopoldo Trieste (sposo sterile), Venantino Venantini (soldato siciliano), Didi Perego (Giulietta, ricca mugnaia), Renato Malavasi(vecchio dalla maga), Edda Ferronao (duchessa de’ Falcocchioni), Lidia Brazzi (sora Amalia), Paola Canzi, Andrea Scotti, Arrigo Mori, Maria Salinelli, Marisa Traversi, Mario Fantini, Bruno Boschetti, Adriano Biotti
Fotografia/Photography: Luciano Trasatti
Musica/Music: Stelvio Cipriani
Costumi/Costume Design: Monica Salinelli
Scene/Scene Design: Gian Francesco Ramacci
Montaggio/Editing: Marcello Malvestito
Produzione/Production: Chiara Films Internazionali
Distribuzione/Distribution: Panta Cinematografica
Censura: 60924 del 20-09-1972

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