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Il demonio

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IL DEMONIO (1963) di Brunello Rondi – Capitolo 6

Il rogo “sacro” dell’immoralità: il male antropologico di una comunità spaventata

Quello che appare nel film come la componente orrorifico-fantastica (legature notturne, graffi su braccia e gambe, la camminata a ragno in chiesa e la xenoglassia) nell’ottica di Rondi è solo la riproduzione “in soggettiva” della visione della comunità: Purificazione e il suo martirio sono (sin dal nome e dalla condizione psichica) il lavacro necessario per mondare una comunità corrotta e terrorizzata da un Male che lei stessa nutre e alimenta; motivo per cui Purif appare come il detonatore in grado di far saltare gli antichi e precari equilibri su cui si regge tale comunità.

IL DEMONIO (1963) di Brunello Rondi – Capitolo 5

Eros & Thanatos: Il paradigma ermeneutico di una società arcaica

Purif è incarnazione pura e primordiale di Eros[1] – dimensione che la condanna ad essere vilipesa, martirizzata, sepolta viva e uccisa dall’uomo che ama: azione inevitabile, quella di Antonio, perché ormai incapace di opporre resistenza alla donna che diventa minaccia alla sua rispettabilità e al suo equilibrio. Purif, dalla comunità, è stigmatizzata come una strega voluttuosa di cui gli uomini possono servirsi a loro piacimento per sfogare la loro eccitazione attraverso la violenza e lo stupro.[2]

IL DEMONIO (1963) di Brunello Rondi – Capitolo 4

Fenomenologia di una nevrosi

Il carrello iniziale su cui si apre il film – dopo una breve panoramica in esterno giorno – è modulato con un veloce movimento in avanti (simulazione di un’intrusione, di una penetrazione e di una profanazione) che si chiude sullo sguardo in macchina (in primo piano) di Purif (Daliah Lavi) la quale, nel suo voltarsi repentinamente, sembra sentire il peso e la valenza oscena di uno sguardo altro.

IL DEMONIO (1963) di Brunello Rondi – Capitolo 3

Feroce violenza e fascinazione nello sguardo dell’antimiracolo

Lavorando – con taglio documentario – su esplosivi e violentissimi close-up espressionisti dei volti dei peronaggi, Brunello Rondi ottiene l’effetto di creare, somaticamente, degli archetipi antropologici che si muovono in un paesaggio ombroso e minaccioso (dove il vento e perenne e il sole abbaglia al punto di ottundere la percezione). Negli interni – case o caverne che siano – il Male si manifesta nelle forme più bieche e familiari con vessazioni e pedagogia nera.

IL DEMONIO (1963) di Brunello Rondi – Capitolo 2

Discorso universale sul Male antropologico

Il demonio, dal punto di vista produttivo[1], coniuga cultura e profitto mettendo assieme il finanziamento all’opera da parte di Federico Magnaghi[2] e il contributo etnologico di Ernesto De Martino[3] docente dell’Univesrità di Cagliari nonché massimo esponente italiano in merito all’etnologia e all’antropologia del Sud Italia. Di quanto Il demonio sia opera inusuale nel panorama cinematografico italiano (all’epoca e anche ora), lo testimonia il rifiuto di Lea Massari ad interpretare il ruolo di protagonista: motivato dalle modalità eccessive ed esasperate (anche dal punto di vista erotico) con cui viene rappresentata questa ragazza lucana. Al suo posto viene scelta l’attrce israeliana Daliah Lavi, bellezza magnetica e conturbante capace di incarnare al meglio un ruolo sospeso tra realtà e magia, tra passione e orrore. Un volto e un corpo perfetti per dare forma a quella dimensione antropoorrorifica che attraversa tutto il film e che ha rappresentato – nelle sue analogie con La maschera del demonio (1960) di Mario Bava – il vero elemento disturbante e respingente per il pubblico e la critica dell’epoca.[4]

Sospeso tra documentario e melodramma nero Il demonio presenta un sostrato culturale di ignoranza e arretratezza sociale destinato a concretizzarsi in un Male atavico che stigmatizza, espelle, uccide. Gli ancestrali, aspri e pietrosi scenari lucani fanno da sfondo ad un racconto etnografico – messo in scena con taglio verista, attori non-professionisti e autoctoni – che ha l’ambizione di rappresentare fatti realmente accaduti.[5] La formula, da un lato aggiorna e trasfigura il neorealismo (nell’accezione zavattiniana) permettendo a Brunello Rondi ampi margini di manovra dal punto di vista creativo, dall’altro la chiosa della didascalia ha l’ambizione di universalizzare il discorso sul Male antropologico. Con questa formula ecumenica Brunello Rondi riesce a rappresentare l’inspiegabile, a dare forma all’implicito, e a mostrare l’assoluto che lega il connubio (non così contraddittorio) tra fede e magia, religione e superstizione. Il suo sguardo visionario gli consente di costruire – in un’atmosfera eterea pregna di violenza primitiva e ignoranza popolare coagulandola in sequenze che coniugano poesia figurativa, orrori ancestrali, religiosità catto-pagana.[6]

di Fabrizio Fogliato ©

[1]Ho conosciuto Brunello Rondi attraverso Ugo Guerra all’epoca in cui Magnaghi, che era diventato il principale azionista della Vox Film, decise di finanziare il progetto che sarebbe poi diventato Il demonio. Oltre ad occuparmi della sceneggiatura, come facevo ormai abitualmente da alcuni anni, ebbi la possibilità di svolgere per la prima volta compiti inerente la produzione, arrivando ad introdurre personalmente il progetto alla Titanus. […] Forti di questo grande entusiasmo abbiamo cominciato la stesura della sceneggiatura a casa di Brunello: lui aveva un grande quaderno a quadretti che riempiva di aggettivi sublimi, in una calligrafia molto originale…aveva un modo di scrivere piuttosto curioso. [Testimonianza di Luciano Martino – produttore e co-sceneggiatore del film, in Stefania Parigi, Alberto Pezzotta (a cura di) Il lungo respiro di Brunello Rondi, Sabinae edizioni, Cantalupo in Sabinia (RI), 2010, pag. 254]

[2] Ricco industriale milanese, cultore dell’occulto e appassionato di scienze metapsichiche.

[3] Va detto che non fu pienamente soddisfatto del risultato finale a causa – a suo dire – del “tradimento” di Rondi in merito al trattamento e alla rappresentazione di pratiche di bassa magia cerimoniale lucana inserita in un contesto di fiction.

[4] Tale aspetto è evidenziato da Alberto Pezzotta nella rigorosa disanima delle prima sequenza del film. Proviamo a pensare a uno spettatore del 1963. All’inizio è aggredito da un’infrazione al patto del racconto cinematografico che vieta interpellazioni e sguardi in macchina, se non si tratta di musical o film comici. Siamo negli anni della Nouvelle Vague, non a caso. Poi è testimone di un atto di automutilazione descritto, come tutto quel che segue, in tempo reale, con sguardo documentaristico, anzi etnografico. […] Daliah Lavi che si trafigge la carne (anzi la fonte della vita) e ne fa uscire sangue (anziché latte) è l’immagine inaugurale di una madonna-strega. È molto di più. È il centro simbolico di un percorso che la porta da soggetto (ci guarda) a oggetto (è spiata da noi in una posa quasi oscena, ma non ha più forze di reagire). Vi è inscritto il destino di un personaggio destinato alla morte, vittima di un’intera società retriva e maschilista, e alla fine pugnalata come, due anni prima, Annie Girardot in Rocco e i suoi fratelli. [Alberto Pezzotta, La cosa in sé. Un percorso nei primi e negli ultimi film, in Stefania Parigi, Alberto Pezzotta, op. cit. pagg.42 e 43.

[5] La didascalia che apre il film, recita: Il film si ispira ad un fatto di cronaca tragicamente recente. Tutto il complesso dei riti, delle formule magiche e anche delle crisi demoniache è scientificamente esatto e corrisponde alla realtà italiana. Equivalente a quella di altre parti del mondo.

[6] A questa dimensione visionaria grande contributo è dato dal paesaggio lucano (Matera, Valsinni, Montescaglioso), ripreso con campi lunghi che tendono ad isolare i personaggi in lande desolate e lunari; lunghi carrelli laterali che mostrano la presenza immanente di Purif su Antonio (la donna è sempre più in alto dell’uomo e solo nel tragico finale i due giacciono sullo stesso piano);

IL DEMONIO (1963) di Brunello Rondi – Capitolo 1

Prologo: la terza via (mancata) del cinema italiano

La matrice letteraria è da sempre intrinseca alla costruzione di molti film prodotti nel nostro paese. Prima ancora del cinema è stata la pagina scritta a dipingere in negativo il quadro dell’antimiracolo. Per mostrare al pubblico la realtà etnografica il documentario è lo strumento che ha sia la credibilità che la serietà per risultare efficace ma, allo stesso tempo, è un’arma spuntata perché in grado di raggiungere solo quella parte di pubblico di addetti ai lavori: già interessati all’etnografia e all’antropologia culturale. Per interessare a tali argomenti il resto del pubblico è necessario compiere un’operazione tanto rischiosa quanto passibile di fraintendimento: ibridare il documentario con la fiction.

RACCONTI PROIBITI… DI NIENTE VESTITI (1972) di Brunello Rondi

Un misconosciuto decamerotico. Uno zibaldone, problematico ed estremo, sintesi dell’opera del regista. Un esperimento in precario equilibrio tra Fellini, Pasolini e Bunuel

Un film goliardico, curioso, e invisibile (l’unica copia visionabile è quella della Cineteca Nazionale di 103 min, mentre esiste una vhs spagnola di 85 min.) squarciato da improvvisi e inaspettati lampi di violenza, teso ad integrare anche il registro comico in quell’universo angoscioso e perturbante che permea la filmografia (da regista) di Brunello Rondi. Un film d’autore che utilizza il genere, lo plasma – prima ne segue i codici, poi, improvvisamente, li violenta – spiazzando lo spettatore e inserendo nel discorso filmico un crinale ambiguo sospeso tra Pier Paolo Pasolini (il Decameron) e Federico Fellini. Racconti proibiti…di niente vestiti (titolo detestato dallo stesso Rondi ma imposto dal produttore Oscar Brazzi), ha un andamento discontinuo; al suo interno alterna notevoli pagine di cinema a paurose cadute di tono non riuscendo mai a trovare una strada univoca da percorrere nel vano tentativo di far coesistere comicità e dramma all’interno di una struttura che è in tutto e per tutto ascrivibile al genere decamerotico. Un genere che racchiude dentro di sé una serie di pellicole (circa una cinquantina) uscite prevalentemente tra il 1972 e il 1973 e derivate dal successo de Il Decameron di Pier Paolo Pasolini – oltre che da tutta la Trilogia della Vita ad opera del poeta-regista – connotato dalla particolarità di essere un fenomeno tutto italiano, poi esportato nel resto del mondo (persino in America); non ha originato epigoni in altri paesi: Un filone caratterizzato da una comicità gretta e volgare, afflitto da una recitazione (spesso) dilettantesca, corroborato da un gineceo di nudità femminili senza eguali e tipicizzato da un inconsueto uso del dialetto. A suo modo un genere federalista ante litteram ma (ma sessualmente “centralista”) che utlizza il dialetto in funzione espressiva, valorizzando la vulgata regionale dando vita ad una frantumazione linguistica lontana dall’omologazione odierna; capace di racchiudere armoniosamente e goliardicamente l’unità nazionale sotto la (discutibile) bandiera duplice della virilità maschile e della disponibilità femminile.