Il saprofita nel càlamo

Riccardo quindi è una figura cristologica dimezzata (perché incompiuta), realmente incapace di vivere in maniera piena da solo ma sempre a rimorchio di qualcuno: la sorellastra, il gruppo, la vocazione. Una vocazione che se in un primo momento appare forzata e di comodo – per sfuggire alla famiglia e alle sue imposizioni e ipocrisie – in un secondo istante, dopo aver preso consapevolezza della scelta a seguito dell’amplesso con Marina/Càlamo, assume i toni dell’anticonformismo maturo, sincero, sacrificale. La figura del prete, in quanto “servo del Signore”, assume in Riccardo i crismi dell’unica scelta possibile per opporsi strenuamente alla “vanità” che lo circonda.

Nel suo percorso ambiguo e asimmetrico – equamente diviso tra peccato e grazia, tra dannazione e redenzione – il giovane seminarista incarna al meglio il dubbio che sta alla base della Fede. La religione quindi con il suo atto di credenza assoluta (e intangibile) entra, come un cuneo, nella famiglia borghese la quale – già nel pieno della corruzione – si dissolve per manifesta inconsistenza. Non a caso tra Il Saprofita (1974) di Sergio Nasca e Càlamo ci sono – oltre a molte divergenze – altrettante connessioni sia sul piano della decadenza borghese che dell’ambiguità della figura del prete/seminarista. Non si può quindi prescindere, in entrambi i film, dal fatto che il prete non sia ancora tale così come non può saltare all’occhio il fatto che tanto il film di Nasca che quello di Pirri facciano riferimento ad un vegetale divoratore, parassita.

Se, opportunamente, il regista di Campagnano Romano nei titoli di testa dice che “Càlamo é Paola Montenero”, allo stesso modo si può dire, per il film di Nasca, che “Il Saprofita é Pier Luigi Conti” (Al Cliver). Ercole, infatti, non interpreta, bensì incarna, l’organismo vegetale che si nutre di sostanze organiche in decomposizione, dove queste sono rappresentate dalla famiglia borghese mentre la forza mitologica del vegetale é persino connaturata al nome del personaggio.

Il Saprofita di Sergio Nasca, a differenza del film di Pirri, sceglie il pericoloso e scivoloso registro grottesco per raccontare le nefandezze borghesi senza così riuscire a evitare le trappole dell’autoreferenzialità, del conformismo schierato e del ridicolo involontario. Tuttavia nell’irresolutezza dell’opera, non si può non avvertire l’urgenza urticante dei temi trattati come non ci si può esimere dal sottolineare la riuscita di certi passaggi come: i flashback del seminario, il ritratto greve ma puntuale del devozionismo e dell’opportunismo, spietato e irriverente dei poveri e il pellegrinaggio a Lourdes ripreso in bilico tra realismo crudo e sarcasmo di maniera. I

l Saprofita, presenta dunque un prete – cacciato dal seminario perché muto – che trova conforto e arricchimento nelle vesti di “Saprofita” appunto in una famiglia borghese disgregata e mostruosa. Colpisce come nel film di Nasca, tutti i personaggi – anche “l’angelica” Teresa (Janet Agren) del finale – presentino o malformazioni fisiche o tare psicologiche. Il degrado é dunque visibile, ma questa é solo la superficie perché il vero marciume – quello di una società/famiglia cadavere – si annida all’interno pronto ad essere divorato dal saprofita. Ercole quindi é l’esatto opposto di Riccardo. Mentre il primo si intrufola da parassita nella società e si arricchisce alle spalle del prossimo sfruttato, il secondo cerca un suo spazio e una sua dimensione all’interno di un mondo a cui ritiene di non appartenere. Se Ercole agisce in funzione di un Male endemico – quasi una tara ereditaria come dimostra il comportamento dei suoi familiari – che egli abilmente maschera dietro la malattia e il pietismo bonario che questo suscita negli altri, Riccardo agisce in funzione di un Bene che, con fatica e difficoltà, riesce a catturare – quasi fuori tempo massimo – senza mai fingere con gli altri ben consapevole che il suo comportamento lo rende goffo e impacciato agli occhi del prossimo.

Quella tra i due (quasi) preti é dunque una differenza esiziale, come ben dimostrano i relativi finali dei due film. Ne Il Saprofita il comportamento immorale e omicida di Ercole lo porta a ricevere – sarcasticamente perché da quel momento in poi non può più fingere – il “miracolo” della parola. In Càlamo la bontà di Riccardo e il suo offrirsi disinteressatamente agli altri gli riservano solo un’anonima morte sulla spiaggia deserta.

di Fabrizio Fogliato ©

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