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VELLUTO NERO (1976) di Brunello Rondi – Prima parte

Un confuso apologo, trasgressivo ed estremo sulla deriva iconoclasta di una società pre-globalizzata

Velluto neroè l’ultimo film da regista di Brunello Rondi – penultimo se si considera lo sceneggiato televisivo La Vocediretto a distanza di tre anni tra il 1981 e il 1982. Considerato dai più come un “suicidio d’autore”, Velluto nero, apparentemente, sembra inserirsi nel filone tutto italiano di Emanuelle Nerainiziato da Adalberto Albertini (con il film omonimo nel 1975 firmato come Albert Thomas) e proseguito sotto la regia di Aristide Massaccesi (alias Joe D’Amato), attraverso la costruzione di una serie di film finalizzati alla serializzazione delle avventure di questa disinibita eroina da fumetto. Come racconta Davide Pulici c’è un forte legame produttivo tra Velluto neroe il ciclo in questione: “All’indomani del grande successo di Emanuelle Neradi Bitto Albertini, due produzioni distinte, la Kristal di Franco Gaudenzi e la Rekord di Alfredo Bini, mettono in macchina contemporaneamente due film: Emanuelle Nera-Orient Reportage(che in un primo tempo dovrebbe intitolarsi Velluto nero) e Velluto nero(che nasce come Il gruppo), in entrambi i quali Laura Gemser interpreta un personaggio di nome Emanuelle[Al tropico del sesso-Nocturno Dossier n.35].

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 6: L’imitazione di Cristo e la Via Crucis dolorosa e straziante

Eccessi e misticismo in un’elegia dissacrante tra i Vangeli, Robert Bresson e George Bataille

Si coniugano, dunque, da un lato l’ “imitazione di Cristo”  – secondo i dettami evangelici in cui si dice che chi vuole comprendere pienamente e vivere le parole di Cristo deve fare in modo che tutta la sua vita sia modellata su quella di Cristo – e, dall’altro, la profanazione messa in scena in Bad Lieutenant, con particolare riferimento allo stupro blasfemo della suora e alla deturpazione della Chiesa. Scelta che rimanda alla “Storia dell’occhio” di George Bataille in cui l’episodio dello stupro e della profanazione del corpo di Don Aminado (nel finale) assumono sia i crismi di una messa nera quanto quelli di un estasi mistica legata alla sessualità. Come questi due punti di partenza opposti possano trovare coesione e coerenza, attraverso la messa in scena dell’erotismo, nel film di Abel Ferrara, è spiegato dalle parole di Alberto Moravia poste a prefazione dell’edizione italiana del racconto di Bataille:

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Prima

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

In una villa solitaria, posta in un parco a qualche chilometro di distanza dall’abitato, vivono la signora Vera (Lisa Gastoni), suo marito (Mel Ferrer) da tempo immobilizzato su di una sedia a rotelle e la dodicenne Simona (Karin Trentephol). Mentre la madre cerca evasioni con gli uomini dei dintorni e in casa passa il tempo a bisticciare con il marito, la ragazzina trascorre molte ore nel parco o nascosta in casa a spiare i genitori. Un giorno Simona si imbatte in Federico (Howard Ross [Renato Rossini]), un giovane ferito e inseguito perché ha ucciso una bambina dopo averla violentata. La piccola nasconde il fuggitivo, ma ben presto la madre si accorge della presenza dell’uomo e intreccia con lui una relazione. Vera, avendo capito di chi si tratta, ha la ben precisa intenzione di servirsi di Federico per eliminare il marito. Simona, maturata in fretta, desidera un figlio da Federico. La situazione precipita, anche perché i sospetti della polizia e dei “vigilanti” si stanno accentrando sulla villa.Una volta raccontata la disillusione generazionale (Càlamo) e la destrutturazione dello Stato (Italia: ultimo: atto?), le attenzioni di Massimo Pirri si rivolgono al nucleo fondante della società: la famiglia. L’Immoralità è un’onda anomala di immagini desacralizzanti, che travolge e annienta i protagonisti del film, con un furore e una poesia senza precedenti. Avulso da ogni modello, imperniato sull’ossimoro come idea di sceneggiatura e diretto sul limite della follia, L’Immoralità è un gioco al massacro senza regole e senza via di fuga, né per i personaggi né per lo sguardo dello spettatore. Pirri dirige un Kammerspiel fiabesco che si svolge (quasi) tutto in una villa e nel parco adiacente, descrivendo un universo concentrazionario di cinismo, perversione e pietismo. Guardando il film si palpa materialmente la furia nichilista che anima il regista e si rimane sbalorditi dalla coerenza e dalla sincerità con cui questo autore, non allineato, centrifuga valori e disvalori, moralità e moralismo, orribile e meraviglioso. Sempre in bilico sul crinale dell’ambiguità – e giostrato con un ritmo lento e avvolgente che dilata a dismisura i tempi del montaggio – il film descrive una spirale di odio/amore destinata a chiudersi in un cul de sac caustico e irriverente.

IL CORPO (1974) di Luigi Scattini

L’erotico-esotico più anomalo e sorprendente. Un film destinato a perdersi nelle onde di quello stesso oceano ripreso in modo mai così minaccioso e pericoloso

Film che chiude la trilogia con Zeudi Araya, ma anche film profondamente sentito, frutto di un’elaborazione molto personale all’interno di una dimensione onirica e di desiderio. Luigi Scattini chiude il cerchio e confeziona un’opera non convenzionale (per il genere), profondamente irrisolta e proprio per questo ancor più affascinante. Un film d’atmosfera mortifera in cui non c’è spazio né per il sole né per l’amore. Un film destinato (inevitabilmente – dati i presupposti) a perdersi nelle onde di quello stesso oceano ripreso in modo mai così minaccioso e pericoloso. Ne Il corpo, la storia raccontata è secondaria – e a poco o nulla serve ricondurla all’opera di James Cain “Il postino suona sempre due volte”, perché in questo caso si tratta di un puro e semplice pretesto necessario ad imbastire il film e a tenerlo assieme alla bene e meglio per evitare che sfugga dalle mani. Il corpo è un film che doveva essere altro ma che, incredibilmente delle intenzioni iniziali – disattese e mai portate a compimento – conserva, sotto traccia, tutta la forza dirompente della tragedia esistenziale anche se virata sulle corde del fumetto erotico.

La sceneggiatura definisce il personaggio di Antoine con tratti hemingwayani e distilla nei dialoghi citazioni – più o meno occulte – di Conrad, dello stesso Hemingway e James Cain. Dell’idea iniziale rimangono l’isolotto di fronte a Trinidad (“luogo ideale e irreale”) e tre personaggi che altro non sono che tre corpi alla deriva aggrappati con le unghie e con i denti, a quel che rimane del sogno caraibico. Personaggi monocordi le cui psicologie sono appena abbozzate così come lo sono le loro origini, nonché gli oscuri motivi che li hanno spinti a ritrovarsi su quei pochi metri di terra, roccia e mangrovie in mezzo all’oceano. Due uomini (Antoine e Alain) e una donna (Princess), più un’altra, Madeleine – moglie di Antoine – che vive sulla terra ferma (a Port-of-Spain) rabbiosi e imbelli, stretti nella morsa del loro egoismo, della loro solitudine e di un caldo soffocante che fa sudare i corpi e annebbia la mente. Giornate trascorse in attesa del nulla, in un inverno caraibico che schiaccia come una cappa opprimente e che toglie il respiro sotto un cielo plumbeo mai così basso e caliginoso. Nessun personaggio positivo, nessuno slancio di generosità, nessuna vocazione alla solidarietà e all’altruismo, nessun contatto né amicale né amoroso – bensì solo sesso fintamente esotico e sodomitico, litri di rhum gelato da ingollare a perdifiato e relazioni oscene perché prive di qualsivoglia afflato gioioso e spontaneo.

Il film ribalta ogni convenzione di genere soprattutto per quanto riguarda il rapporto sessuale con l’indigena – normalmente liberatorio, gioioso e all’interno di una dimensione positiva – trasformandolo in un sodalizio (perfino una penetrazione spirituale) con le forze oscure. Con Il corpo Luigi Scattini altera la percezione dello spettatore-medio (che affolla le sale ingolosito dalle nudità della Araya) e ne annulla ogni spasimo erotico trasformando l’icona del sesso libero e naturale nell’incarnazione seducente, ammiccante e serpentina del Male. Un corpo, statuario, levigato, perfetto e dalla pelle vellutata, al servizio del cervello della donna, la quale – con sorprendente e allarmante consapevolezza – è capace di usarlo per ogni sua esigenza: prima fra tutti quella di andarsene dall’isola per trovare non l’amore (come il film sembra presagire) bensì la ricchezza. L’agire di Princess è finalizzato ad acquisire uno status sociale che la allontani da quello della “negra” e “miserabile” – è lei stessa a confessarlo ad Alain quando questi le chiede di fuggire con lui. C’è ne Il corpo una breve sequenza di raccordo in cui la donna, di fronte allo specchio, indossa gli orecchini si prova il vestito giallo, si ammira ammiccante, sorride, per poi strappare tutto con rabbia e gettarlo via consapevole che per ora la chance di fuga non è ancora a porta di mano. Non a caso, subito dopo, rivolgendosi ad Antoine – che si dirige in città per fare compere – le chiede di comprarle un paio di scarpe; l’uomo interdetto, prima le osserva i piedi in silenzio e poi le chiede “Ma da quando tu porti le scarpe?”.

Princess, è l’antitesi di Simon, la donna libera, ingenua, spontanea, semplice e dalla naturale nudità de La ragazza dalla pelle di luna, in quanto donna manipolatrice che usa il suo corpo per secondi fini, che si spoglia con calcolo e premeditazione e che si offre fingendo di donare amore ma in realtà succhiando la vita. Di fronte a Princess, lo spettatore dell’epoca è disarmato perché privato di ogni giustificazione e, improvvisamente, chiamato ad essere responsabile dei suoi pensieri. Se in genere, l’erotico-esotico ha nella sua ontologia la de-responsabilizzazione di chi guarda verso le nudità mostrate in quanto frutto di una distanza sia culturale che spaziale (le nere sono creature “inferiori” e vivono in Africa, luogo che è possibile solo sognare), con Il corpo si trova di fronte ad una donna, sì dalla pelle nera, ma dalla mentalità occidentale, che usa la sua intelligenza per trasformare in “corpi” coloro che ha di fronte e pertanto decisamente inquietante nel suo spogliarsi malizioso. Quest’aspetto è mostrato da Scattini in tutta la prima parte del film – quella in cui Princess non proferisce parola – chiudendo il suo volto in strettissimi e fulminanti primissimi piani e fasciando il suo corpo in un abito rosso fuoco il cui fulgore (a contrasto col nero della pelle) acceca la vista. Quando la donna comincia a parlare – passando dallo status di corpo-oggetto (che subisce le angherie sessuali di Antoine) a quello di essere pensante, gli abiti diventano infantili e rosa confetto non per ingenuità bensì per strategia. È presentandosi come “bambina” infelice, sofferente e piegata dalle vessazioni del rude compagno che riesce a catturare le attenzioni di Alain.

Una volta preso al laccio il giovane imbelle lo manipola a suo piacimento spingendolo a fare tutto ciò che lei vuole. Princess – dietro la dolcezza apparente e dietro i modi affettati – è sottilmente crudele e profondamente infida: come dimostra l’improvviso ricatto sessuale con cui mette spalle al muro l’inconsistente Alain. Ne esce così, un ritratto ambiguo e luciferino della donna, accentuato ancor più dal sorriso estatico e dallo sguardo enigmatico perfettamente integrato con l’ambiente caraibico-invernale in cui il caldo è persistente, la pioggia incessante, l’umidità soffocante e le zanzare non danno tregua. Sin dai titoli di testa, infatti, il regista mostra un oceano bizzoso, grigio e putrescente da cui emergono relitti arrugginiti e resti di navi cannibalizzate. Port-of-Spain è una città caotica fatta di baracche le cui strade sono cosparse di detriti e dove – dietro ad ogni angolo – può esplodere la rabbia e si può essere assaliti dalla violenza per un conto non soldato o per un debito pendente (come puntualmente accade ad Antoine). Ma la capitale di Trinidad è anche una città-approdo in cui vegeta uno come Alain – un uomo troppo stupido per essere vero – che solo grazie alla sua fisicità (il corpo, appunto) riesce a colpire l’attenzione di Antoine salvandolo dal pestaggio di cui è vittima. Alain è un inetto e un ingenuo, un giovane tanto ambizioso (“Io ottengo sempre ciò che voglio” – dice ad Antoine) a parole, quanto vigliacco e incapace nei fatti. In fondo, Alain è proprio un “nessuno” (come viene apostrofato da Antoine durante l’indianata), un corpo e basta: necessario – con i muscoli per fare il lavoro del suo capo mentre lui si crogiola sull’amaca ingollando litri di rhum – e con le mani sia per dare piacere a Princess e sia per farsi armare da lei per uccidere Antoine (senza riuscirci, ovviamente).

In città vive Madeleine, la moglie di Antoine, una donna sola e disperata ma perfettamente lucida nel leggere tra le righe del triangolo che sull’isolotto si agita tra Eros e Thanatos: “Io non mi fido di uno che non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare” dice ad Alain poco prima di rivelargli che lei sa che Antoine è morto; “Quella bastarda è capace di tutto” afferma più volte riferendosi a Princess, persino anticipando la possibile fine sua e del marito destinati a rimanere su quell’isola ma come cadaveri.

Questo microcosmo dedito ad un gioco al massacro più per noia che per reali necessità è tratteggiato da Luigi Scattini attraverso nervose riprese con la macchina a mano alternate a lunghi carrelli e panoramiche descrittive. Gli stacchi improvvisi sui primissimi piani dei personaggi trasformano i loro volti in maschere grottesche e diaboliche – così come fa la recitazione: sovraeccitata e teatrale di Enrico Maria Salerno, quella dimessa e monocorde di Leonard Mann [Leonardo Manzella], quella scolastica ed elementare di Carrol Baker e quella per sottrazione – che esalta sguardi ed espressioni – di Zeudi Araya. Ne consegue che ne Il corpo la ripresa in stile documentario – marchio di fabbrica del regista – Luigi Scattini la relega in secondo piano – anche perché in quest’esotismo non c’è nulla di accattivante – isolandola in un’unica sequenza – il Sanctuary dove gli Scarlet Ibis nidificano tra le mangrovie dal fascino magnetico e dallo scenario meraviglioso. Tutto il film ha un impianto fortemente cinematografico – e non caso visto che si tratta di un racconto equivoco – in cui non si capisce dove finisce la realtà e inizia il sogno – dai tratti fortemente allegorici. Il montaggio più volte, elimina il parlato per lasciare spazio alla musica di Piero Umiliani a commento delle immagini, mentre – altre volte – elimina la colonna sonora per lasciare spazio allo sciabordio delle onde. Scelte che rendono Il corpo un film di difficile classificazione: banale, inconcludente e persino ripetitivo se lo si guarda in maniera superficiale, criptico, ondivago e affascinate se si guarda in profondità e se si entra nell’atmosfera appiccicosa e urticante in cui è avvolta la vicenda.

Negli ultimi venti minuti di pellicola – quelli in cui il regista sembra ammiccare al Roman Polanski degli esordi – il film letteralmente si sfalda dal punto di vista narrativo per lasciare spazio all’immagine e alla sua forza simbolica. Sono i minuti in cui – a livello narrativo – il destino, la casualità e le coincidenze fortuite sembrano alimentare le possibilità di fuga di Alain e Princess, e sono quelli che – a livello figurativo – rivelano la trappola rappresentata dall’esotismo. Tra i fumi neri di un falò sulla spiaggia che si perdono in un cielo altrettanto nero che minaccia tempesta, lei, lui e l’altro inscenano il simulacro di un rito tribale (con danze e fuga in mare a bordo di una barca fatiscente) ad alto tasso alcoolemico destinato a concludersi con il casuale e tragico – quanto ricercato e fortemente voluto – annegamento di Antoine, l’ultimo ostacolo sulla via della fuga, della salvezza e dell’approdo sicuro. Paradossalmente, però, è proprio in quello stesso momento che la fuga diventa negata, perché un altro nemico – invisibile e ben più subdolo – si insinua sotto la pelle dei due giovani pronti a salpare verso l’Europa: la paura. Paura di essere scoperti e quindi bloccati in prigione, ma anche e soprattutto – ed questo che realmente interessa a Scattini – paura di non essere adatti, di essere inadeguati alla vita occidentale. A dimostrazione di ciò ci sono sia il pianto reale di Princess chiusa in camera con il volto – stretto in un primo piano rivelatore della sincerità – appoggiato alle imposte nel momento in cui Alain le rivela che Madeleine sa tutto, sia il modo in cui i due si presentano al check-in della compagnia aerea BOAC (British Overseas Airways Corporation – attiva dal 1939 al 1974) in cui si avverte che persino i vestiti indossati stridono con le reali pretese di libertà dei due. Vestiti che li rendono appariscenti – e pertanto riconoscibili – da Madeline che senza apparente motivo deambula per l’aeroporto chiedendo misteriose informazioni (di cui non si sente il sonoro) a poliziotti e steward.

Luigi Scattini realizza le riprese di questa sequenza sempre mettendo nell’inquadratura, i due giovani in primo piano e – con effetto flou – Madeleine i profondità di campo per mostrare allo spettatore come l’agire della donna influenzi i comportamenti della coppia. E’, quindi, inevitabile che la tragedia si compia, la paura prenda il sopravvento e coincida con una pallottola sparata da un anonimo funzionario che penetra la carne di Alain in fuga sulla pista per far uscire un rivolo di colore rosso che non ha nulla del romantico dei tramonti caraibici bensì il sapore acre e pungente della sconfitta e della disillusione. Alla vista della morte di Alain, Princess compie l’inutile sacrificio di immolare il suo giovane corpo “divino e perfetto” contro il carburatore di una jeep in transito sulla pista dell’aeroporto: la sua morte, è stato l’unico gesto realmente spontaneo della sua breve esistenza, un gesto d’amore estremo e inutile ma che, cinematograficamente, la riconsegna all’immaginario dello spettatore: le strappa di dosso la pelle diabolica del Male per rivestirla del candore dell’innocenza perduta dell’esotismo.

di Fabrizio Fogliato

 

IL CORPO
Regia/Director: Luigi Scattini
Soggetto/Subject: Massimo Felisatti, Fabio Pittorru
Sceneggiatura/Screenplay: Massimo Felisatti, Fabio Pittorru, Luigi Scattini
Interpreti/Actors: Enrico Maria Salerno (Antonio), Zeudi Araya (Princess), Leonard Mann [Leonardo Manzella] (Alain Breton), Carroll Baker (Madeleine), Luigi Antonio Guerra, Mario Garriba
Fotografia/Photography: Anton Giulio Borghesi
Musica/Music: Piero Umiliani
Costumi/Costume Design: Cristina Lorenzi
Scene/Scene Design: Gastone Carsetti
Montaggio/Editing: Graziella Zita
Suono/Sound: Fiorenzo Magli
Produzione/Production: Filmarpa, P.A.C. – Produzioni Atlas Consorziate
Distribuzione/Distribution: P.A.C.
Censura: 64150 del 06-03-1974

BERG-EJVIND OCH HANS HUSTRU (I PROSCRITTI, 1918) di Victor Sjöström

“E’ senza dubbio il film più bello del mondo”. (Luis Delluc)

In Svezia nel 1912 si producono alcuni film particolarmente innovativi per quanto riguarda l’utilizzo del linguaggio cinematografico. Tre registi, Georg af Kiercker, Victor Sjöström e Mauritz Stiller, con le loro opere sfondano le barriere del kammerspiel di matrice tedesca e trasportano il dramma nei grandi spazi paesaggistici della scandinavia, in cui bellezza e vertigine si coniugano all’interno di una tensione narrativa senza precedenti. La tendenza e quella di una dimensione panteistica del dramma, in cui si coniugano l’espressione lirica delle vicende con una dimensione assoluta degli uomini e del loro destino. Una visione cosmica dello spazio e dell’individuo che si muove in esso, finalizzata alla rappresentazione di episodi archetipici trattati come vere e proprie parabole morali. L’asciuttezza e il rigore con cui vengono trattati i drammi individuali fanno prevalere l’aspetto psicologico (manifesto e latente) dei conflitti interpersonali. Le asperità, il gelo e la durezza del paesaggio nordico diventano sintesi metaforica e metonimica di un personaggio “terzo” in grado di determinare impreviste e sorprendenti svolte narrative. Questa visione, non-convenzionale, del cinema rende i film scandinavi del primo decennio del secolo XX° come la principale alternativa allo strapotere artistico, commerciale e linguistico del cinema hollywoodiano. Le sirene americane suonano ben presto anche per Stiller e Sjöström, ma i risultati che i due registi raggiungono sul suolo americano sono nettamente inferiori a quelli autoctoni. Spogliata dei suoi pilastri, “aggredita” dalle cinematografie emergenti delle vicine Danimarca e Germania, “l’età d’oro del cinema svedese” si esaurisce in poco meno di un decennio, e già nel 1921 la produzione crolla rovinosamente e i suoi autori sono consapevoli dell’impossibilità di una rinascita a breve termine.

RACCONTI PROIBITI… DI NIENTE VESTITI (1972) di Brunello Rondi

Un misconosciuto decamerotico. Uno zibaldone, problematico ed estremo, sintesi dell’opera del regista. Un esperimento in precario equilibrio tra Fellini, Pasolini e Bunuel

Un film goliardico, curioso, e invisibile (l’unica copia visionabile è quella della Cineteca Nazionale di 103 min, mentre esiste una vhs spagnola di 85 min.) squarciato da improvvisi e inaspettati lampi di violenza, teso ad integrare anche il registro comico in quell’universo angoscioso e perturbante che permea la filmografia (da regista) di Brunello Rondi. Un film d’autore che utilizza il genere, lo plasma – prima ne segue i codici, poi, improvvisamente, li violenta – spiazzando lo spettatore e inserendo nel discorso filmico un crinale ambiguo sospeso tra Pier Paolo Pasolini (il Decameron) e Federico Fellini. Racconti proibiti…di niente vestiti (titolo detestato dallo stesso Rondi ma imposto dal produttore Oscar Brazzi), ha un andamento discontinuo; al suo interno alterna notevoli pagine di cinema a paurose cadute di tono non riuscendo mai a trovare una strada univoca da percorrere nel vano tentativo di far coesistere comicità e dramma all’interno di una struttura che è in tutto e per tutto ascrivibile al genere decamerotico. Un genere che racchiude dentro di sé una serie di pellicole (circa una cinquantina) uscite prevalentemente tra il 1972 e il 1973 e derivate dal successo de Il Decameron di Pier Paolo Pasolini – oltre che da tutta la Trilogia della Vita ad opera del poeta-regista – connotato dalla particolarità di essere un fenomeno tutto italiano, poi esportato nel resto del mondo (persino in America); non ha originato epigoni in altri paesi: Un filone caratterizzato da una comicità gretta e volgare, afflitto da una recitazione (spesso) dilettantesca, corroborato da un gineceo di nudità femminili senza eguali e tipicizzato da un inconsueto uso del dialetto. A suo modo un genere federalista ante litteram ma (ma sessualmente “centralista”) che utlizza il dialetto in funzione espressiva, valorizzando la vulgata regionale dando vita ad una frantumazione linguistica lontana dall’omologazione odierna; capace di racchiudere armoniosamente e goliardicamente l’unità nazionale sotto la (discutibile) bandiera duplice della virilità maschile e della disponibilità femminile.

WILLIAM FRIEDKIN’S TO LIVE AND DIE IN L.A.(VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES, 1985 )

Un film in cui il fotogramma si trasforma in tela da dipingere con luci, colori, nero e sangue.

Non sembra, ma è film indipendente, perchè dopo gli esiti disastrosi di Sorcerer e Cruising, la fiducia degli studios hollywoodiani in William Friedkin è al grado zero: un rapporto, quello tra il regista di Chicago e le Majors destinato alla non riconciliazione. Inoltre, gli anni ’80, hanno imposto al genere action-poliziesco, l’estetica del videoclip, la fotografia patinata: da un lato la deriva comica dei film di Eddie Murphy (Beverly Hills Cop) e dall’altro la solarità vacanziera delle serie tv ambientate sulle coste della Florida (Miami Vice). Friedkin, dopo la notte metropolitana e terrifica di Cruising – non trovando finanziamenti per altri progetti – si dedica a produzioni televisive, fino a quando, nel 1985, non “inciampa” nel romanzo di Gerald Petievich To Live and die in L.A..

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In poche settimane Friedkin scrive una sceneggiatura secca e brutale in cui emergono i toni oscuri e minacciosi di una metropoli livida in cui il sole sembra essersi spento definitivamente. Film in controtendenza – almeno rispetto alla moda del momento – e film indipendente; solo distribuito dalla MGM e dalla United Artists (che non credono nel progetto) ma finanziato con un budget ridottissimo proveniente da una società privata: la SLM (Schulman, Levin e Marquetti).

BLIND HUSBANDS (Mariti ciechi/La legge della montagna, 1919) di Erich Von Stroheim

Erotismo latente, ambienti psicologici, rapporti crudeli, personaggi immorali, seduttori sordidi e luciferini nel primo film di Erich Von Stroheim

 

La biografia di alcuni registi spesso sfocia nella leggenda. Soprattutto durante il periodo della Silent Era in cui il personaggio pubblico diventa predominante su quello privato e – particolarmente durante gli anni ’10, in cui la figura di alcuni registi diventa sinonimo di clamore e successo – si registrano biografie prevalentemente immaginarie in grado di rappresentare al meglio personaggi dai contorni ben definiti senza creare distinzione tra dentro e fuori lo schermo. È il caso questo di Erich Von Stroheim il quale è prima attore, poi aiuto regista per David W. Griffith (Intollerance, 1915 e Hearts of the world, 1918) e, infine, regista dei suoi film.

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Nato vicino a Vienna nel 1885, emigra negli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Sin da subito arricchisce il suo passato biografico di particolari inventati: il prefisso “Von” che richiama ad una discendenza nobile (mentre i genitori sono mercanti), il grado di ufficiale di cavalleria dell’impero austro-ungarico, (mentre a vent’anni diserta l’esercito) e una vocazione alla magniloquenza che se da un lato si manifesta nel suo cinema titanico, dall’altro diventa la zavorra che appesantisce ogni sua produzione – solo il primo dei suoi film può considerarsi veramente suo. L’intento di Stroheim è soprattutto quello di incarnare fuori e dentro lo schermo il suo personaggio feticcio, quello del militare prussiano, arrogante, perfido e meschino che indossa la divisa come una seconda pelle e che si atteggia con comportamento marziale e impeccabile salvo poi di svelare un animo dissoluto e immorale.

IL CONFORMISTA (1970) di Bernardo Bertolucci

Tra Alberto Moravia e Bernardo Bertolucci: anamnesi dell’inconscio, il telaio del mistero della caverna, architettura del mondo borghese e tradimento della messa in scena.

Il Conformista (1970), film di Bernardo Bertolucci, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Aberto Moravia, è opera autonoma con una sua espressività ed un suo linguaggio (cinematografico) specifico. L’intento del regista parmense, coadiuvato dal montatore Franco “Kim” Arcalli, è quello di infondere nello spettatore, lo spirito (e non la realtà) e l’atmosfera di un’epoca. Il Conformista evoca un “impressione di realtà” e, attraverso ogni aspetto filmico e narrativo, non tradisce mai questa idea di partenza. È dunque evidente che si tratta di un’operazione di stravolgimento (del romanzo, ma non solo) tesa a visualizzare l’immagine di un simulacro (il fascismo), che ha nel concetto di “normalità” l’adesione silenziosa e totalizzante a un sistema di regole anti-democratiche. Il protagonista, Marcello Clerici, convinto della sua “anormalità”, rivelata (apparentemente) da un episodio della sua infanzia, si inserisce volutamente in un sistema omogeneo e massificato in cui ogni diversità non solo non è contemplata, ma è perfino condannata.

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Per tutta la durata del film, la sua indole poggia in equilibrio instabile sull’ambiguità: egli è al contempo assimilato al pensiero unico e straziato dal dubbio: “Insomma, se il fascismo fa fiasco, se tutte le canaglie, gli incompetenti e gli imbecilli che stanno a Roma portano la nazione italiana alla rovina, allora io non sono che un misero assassino”. (Alberto Moravia, Il Conformista, Bompiani, Milano, 2005, pag. 244). Amara conclusione cui egli giunge dopo la caduta del fascismo la notte del 25 Luglio 1943, dopo aver intuito che, forse, il suo crimine di infanzia è vissuto solo nella sua testa, e che forse, la strenua corsa alla ricerca di una “normalità” omologata, è stata la negazione del concetto stesso di vita. Il suo rientrare nella “normalità” coincide con l’adesione alla polizia segreta fascista denominata OVRA. Scelta emblematica, visto che qui gli agenti non si sporcano mai le mani, non uccidono, ma si limitano a segnalare, e a fornire informazioni, in modo che altri portino a termine l’eliminazione del soggetto indicato.

IL PREFETTO DI FERRO (1977) di Pasquale Squitieri

Una guerra combattuta in prima persona in rappresentanza dello stato di diritto: un western duro, freddo e dal taglio futurista.

Girato con taglio americano, impregnato di umori nostrani, Il Prefetto di ferro, diretto da Pasquale Squitieri nel 1977 è un rarissimo esempio di film italiano con protagonista un eroe positivo. Cesare Mori, è un italiano tutto d’un pezzo, un uomo saggio e tenace pervaso da una profonda etica e da un senso morale legato all’essere un dipendente dello Stato. In sintesi, un uomo di Stato capace di interpretare e divulgare al meglio il rispetto della legge. Il Prefetto di ferro è un film in grado di colpire l’immaginario collettivo, allora come oggi, proprio grazie ad una messa in scena asciutta e raffinata costruita per lasciare ampio spazio alle gesta e al pensiero di Cesare Mori. Un film “americano”, che piace agli americani, al punto da essere invitato per una proiezione privata alla Casa Bianca, come racconta lo stesso Pasquale Squitieri:

Il film sbarca negli Stati Uniti per la Settimana del cinema italiano a New York. Tornato in albergo Claudia, Giuliano ed io, troviamo due funzionari della C.I.A. che ci dicono che il film Iron Prefect (Il Prefetto di ferro) è stato invitato dal Presidente Carter per una proiezione alla Casa Bianca (…) Noi rimaniamo sbalorditi da questa cosa, ma tutto va come previsto dai due funzionari e io mi porto dietro una cinepresa perchè dico: “Chi ci        crederà mai?”. Ci portano nella stanza del caminetto, dove ci mettiamo seduti, abbastanza           intimiditi, Claudia, Giuliano ed io e dopo un po’ arrivano Elizabeth Taylor, Gregory Peck, …insomma mezza Hollywood. Arriva il Presidente Jimmy Carter, me lo presentano, andiamo in proiezione. Proiettano il film, applausi e poi la cena. Poi andai a parlare col Presidente con quel poco di inglese che mastico, e ringraziandolo gli chiesi perchè mi aveva       invitato. Lui mi rispose che per la prima volta ha visto un italiano tutto d’un pezzo, un italiano di profonda onestà (…). inutile dire che di questo evento, che non si è mai più ripetuto, uscirono tre righe sul Corriere della Sera…” [Silvia D’Amico Benedicò, Gioia Magrini, Roberto Meddi, A proposito di …, Intervista a Pasquale Squitieri in Extra DVD Il Prefetto di ferro, Medusa, Milano, 2009]
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