Erich Von Stroheim: l’incompiutezza della grandiosità, il realismo “estremo”, il sadismo nei rapporti umani… quello che poteva essere e che non è stato….

 

Merry-Go-Round (Donne viennesi, 1923), ovvero “carosello”, lo stesso che Erich Von Stroheim è stato costretto a fare per tutta la sua carriera da regista, sulla “giostra” di Hollywood tra produttori presuntuosi e arroganti, tra manie di grandezza spropositate per un’azienda commerciale (come è il cinema), set abbandonati (o da cui è stato cacciato) e rulli di pellicola bruciati (per recuperare un poco d’argento) e espunti dalle versioni montate dei suoi film, quelle stesse che Von Stroheim ha disconosciuto cancellando il suo nome dai credits. L’esempio più fulgido del deturpamento artistico della sua opera, irreversibilmente manipolata dagli studios, è proprio Merry-Go-Round, film girato da Von Stroheim per tre quarti, prima di essere cacciato dal set da un giovanissimo Irving Thalberg, con l’accusa (infondata) di aver sperperato oltre $ 500.000 per i costumi. Oggi il film, sui titoli di testa della versione uscita nel 1925, porta la firma di Rupert Julian, un onesto mestierante chiamato dalla Universal per terminare il film. La coppia Carl Laemmle e Irving Thalberg, al comando della major si illude che, al nuovo regista, basti seguire la sceneggiatura dello stesso Von Stroheim per portare a termine il film nel migliore dei modi, mentre il montaggio, che nei credits porta la firma dello stesso Julian, viene in realtà portato a termine da Irving Thalberg, il quale è anche l’artefice del ridicolo e pessimo finale del film, che scardina completamente il senso dell’opera di Von Stroheim, ne mortifica le intenzioni artistiche e snatura la poetica e la drammaturgia dei primi cinquanta minuti di film (quelli diretti dal regista viennese), sostituendo con un sentimentalismo d’accatto e con un happy ending ridicolo e forzatissimo, il finale originale, girato (ma incompiuto) da Von Stroheim e mai montato in nessuna edizione del film.

Nel numero 2-3 del 1959, volume biografico curato da Giulio Cesare Castello per la rivista “Bianco e Nero” , Denise Vernac, compagna e collaboratrice del regista racconta il finale originale: “L’eroe ritornava dalla guerra amputato di un braccio e vendeva cartoline, stringhe da scarpe nei viali del Prater, disertati dal complesso dei saltimbanchi (La Grande Ruota era immobile). Una delle aristocratiche sue amiche di un tempo batteva palesemente il marciapiede (esisteva un’inquadratura dove la si vedeva camminare su e giù davanti al portone di un albergo). La giostra tendeva i suoi teli sopra i cavalli di legno per mancanza di clienti, quella sera, e si rimaneva con l’impressione che l’eroe e l’eroina si fossero perduti per sempre sebbene soltanto una tenda li separasse. In realtà passavano l’uno vicinissimo all’altra senza vedersi”.

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Già all’inizio delle riprese di Merry-Go-Round i rapporti tra Erich Von Stroheim e la Univesrsal sono deteriorati e prossimi alla rottura, sia a causa degli “eccessi” del regista (la cui conflittualità si trascina dal precedente Foolish Wiwes (Femmine folli, 1921)), sia perché la produzione ha imposto, per il ruolo principale del film, il mediocre Norman Kerry nella parte che avrebbe dovuto interpretare lo stesso regista austriaco. A poche settimane dalla fine delle riprese e ad oltre tre quarti di film girato, Thalberg licenzia Von Stroheim e affida la regia a Rupert Julian. Questi, australiano classe 1889, emigrato negli Stati Uniti in cerca di fortuna, lavora prima come attrezzista su svariati set, per poi cominciare a recitare in ruoli di secondo piano e a scrivere sceneggiature sotto contratto con la Universal. Quando viene chiamato da Thalberg non ha ancora diretto neanche un film, e solo nel 1925 il suo nome si farà notare con il riuscito The Phantom of the Opera (Il fantasma dell’opera, 1925) interpretato da Lon Chaney, prima di ripiombare nell’anonimato più totale, dirigere un paio di film mediocri come The Yankee Clipper (id., 1927) e Walking Back (id., 1928), ed essere costretto ad abbandonare il cinema per dissidi con i produttori (stranamente lo stesso destino in comune con Erich Von Stroheim). Nonostante la travagliata produzione, il disconoscimento dell’opera da parte del regista austriaco, le manipolazioni di Thalberg, Merry-Go-Round, seppur in una formula da ciò che poteva essere e che invece non è stato, mantiene tutt’ora il fascino dell’opera stroheimiana,  presenta spunti di fiammeggiante lirismo, una struttura drammaturgica di forte impatto emotivo e un taglio tecnico-artistico essenziale ma decisamente in anticipo sui tempi: segni incontrovertibili sia dell’anticonformismo e del rigore di Von Stroheim, sia del suo essere totalmente (e meritoriamente) fuori sincrono con il periodo in cui ha costruito (nel bene e nel male) la sua parabola artistica.

Vienna 1914. Il Conte Franz Maximillian Von Hohenegg (Norman Kerry) si risveglia nel suo letto e si prepara ad uscire, indossando l’alta uniforme imperiale. Contemporaneamente, dall’altra parte della città, la Contessa Gisella Von Steinbuck (Dorothy Wallace), dopo essere rientrata da una passeggiata a cavallo si fa spogliare della sua serve e telefona al Conte chiedendo se si vedranno la sera stessa. Il conte dice che è impegnato con l’esercito e riattacca. La sera, dopo cena,la contessa è a colloquio con il padre, il ministro della guerra (Spottiswood Aitken), il quale gli conferma gli impegni del futuro marito. In realtà il Conte si intrattiene con colleghi e donnine lungo le bancarelle del Prater. Qui il giostraio Schani Huber Kalafatti (George Siegmann) sottomette con brutalità una famiglia che è alle sue dipendenze: il padre Sylvester Urban (Cesare Gravina) dirige uno spettacolo di burattini, la moglie Ursula Urban (Edith Yorke) giace a letto gravemente malata, e la figlia Agnes (Mary Philbin) gira la manovella dell’organetto di Barberia. Tempo dopo, mentre nel palazzo imperiale si susseguono i preparativi per le nozze imminenti tra i due Conti, Franz, nuovamente in borghese, re-incontra Agnes, che nel frattempo si è legata in stretta amicizia a Bartholomew Gruber (George Hackathome), il gobbo strillone della bancarella di Aurora Rossreiter (Lillian Sylvester) vicina e “nemica” di Kalafatti. Von Hoehnegg la seduce nuovamente, e con l’inganno la conduce in una garçonnière, dove la bacia passionalmente e, dopo una breve esitazione da parte della donna, viene poi corrisposto. Agnes presenta a suo padre e a Bartholomew il “finto” Conte, i quali rimangono perplessi di fronte a lui, così simile al Conte che i volantini distribuiti in città, annunciano essere prossimo alle nozze. Nel frattempo, una notte, l’orango Boniface è lasciato libero da Bartholomew: l’animale , memore delle violenze che Huber ha inflitto ad Agnes e del successivo tentativo di omicidio di Sylvester, nel frattempo passato alle dipendenze della Sig.ra Rossreiter, si arrampica su per la grondaia, entra in casa di Huber, sdraiato sul letto ubriaco, e lo uccide selvaggiamente.

Il film è costruito sin dall’inizio intorno al tema della circolarità dei destini, così come ben dimostra l’immagine di apertura, (una sorta di costante che poi si ripete a cadenze regolari all’interno del film per sottolineare le varie svolte narrative legate al destino degli uomini): un gigante di fattezze mitologiche (il fato) che sta al centro di una ruota di legno (la “giostra della vita”) su cui sono posizionati cavalli e carrozze; la ruota gira e il gigante osserva il suo roteare, avvicina o allontana lo sguardo da essa, ride o si fa improvvisamente serio, e definisce l’esistenza dei vari protagonisti della vicenda. L’obiettivo, dichiarato, dell’opera di Von Stroheim è quello di “duplicare il mondo” attraverso il realismo cinematografico che deve essere “più vero del vero”. Quest’impostazione artistica origina la struttura narrativa dei suoi film in cui parallelamente alla consequenzialità dei fatti reali scorre il simbolismo fantasmatico attraverso cui egli determina una progressione psicologica di “duplicati meccanici”. Ecco dunque che la ruota del Prater  diventa la ruota della vita (inevitabilmente ferma durante l’ “inverno” della guerra), il tentativo di violenza di Huber ai danni di Agnes è duplicato da quello di Franz ai danni della stessa donna nella garçonnière, la pantomima di Sylvester morente dopo la caduta del vaso è duplicata dalla stessa situazione vissuta sul fronte di guerra, la menzogna di Franz in carrozza con le due prostitute davanti al Caffè RingStrasse è duplicata dall’orgia successiva di cui lo stesso Franz è protagonista, e infine l’erotismo suggerito attraverso il mettere o togliere i vestiti, duplica se stesso più volte all’interno del film. Questa inesausta ricerca del “doppio” inteso in senso psicologico emerge nel suo lato più inquietante attraverso la descrizione di una società pre e post-bellica: Von Stroheim sembra suggerire, che l’Europa Centrale sotto l’Ancienne Regime debba necessariamente essere spazzata via dalla sconfitta bellica per lasciare il posto ad una società né migliore, né peggiore di quella precedente.

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 Se la Vienna del 1914 è descritta solo ed unicamente attraverso la confusione baracconesca della zona del Prater in cui, tra bancarelle gestite da despoti sadici e brutali e clienti, non meno volgari e grossolani, vengono mostrati una serie di freaks  grotteschi e deformi, la stessa Vienna, nel 1918 presenta ancora un campionario di mostri questa volta non più fenomeni da baraccone, ma mutilati, feriti, amputati e immesiriti di guerra. Il pessimismo di Eric Von Stroheim dunque, si alimenta, in tutta la prima parte del film di figure mostruose che continuamente salgono e scendono dalla giostra di una vita vissuta in un’Austria infelix, come appare chiaro sin dalla didascalia iniziale che recita così: “Vienna, antica-storica-grigia. La città della gioia, della felicità, dell’ilarità, del dolore sordido, della tristezza”. È evidente dunque che la Vienna di Merry-Go-Round è già metafora del disfacimento dell’Ancienne Regime: una città piena di contraddizioni, sotterfugi e menzogne, in cui i rapporti interpersonali sono declinati tra sadismo, perversione e violenza che accomunano tutte le classi sociali e si nutrono dello scambio univoco tra padroni e servi. I padroni calpestano i servi, come viene mostrato, in maniera ironica, nella prima scena del film, quando il Conte Franz sale sulla schiena del proprio servo per recarsi in bagno o come successivamente Kalafatti prima calpesta il gobbo Bartholomew e poi schiaccia il piede della povera Agnes obbligandola a sorridere e continuando a suonare l’organetto di Barberia.

La violenza, soprattutto nei primi cinquanta minuti (quelli interamente girati da Von Stroheim) di Merry-Go-Round assume le tinte fosche e inquietanti del cinema espressionista, come si evince dalla magnifica sequenza del tentativo di stupro da parte di Huber nei confronti di Agnes. Qui il regista viennese gioca abilmente con la luce e con le ombre accentuando i tratti mostruosi dell’uomo, ricorrendo ad un insolito (per l’epoca) e vertiginoso lento carrello ad avanzare, e all’inquadratura del particolare degli occhi diabolici dell’uomo, per esplicitare, senza mostrarla, tutta la carica di furiosa rabbia e frustrazione che abitano in lui. Non è casuale che una sequenza, come questa, dagli evidenti presupposti sessuali, si concluda invece con la piccola Agnes frustata a sangue dal brutale energumeno, così come non è casuale che la violenza avvenga di notte, all’interno della giostra, ormai ferma, che altro non è che il surrogato materiale di quella simbolica legata al destino degli uomini. Parallelamente alla violenza, Eric Von Stroheim sviluppa il discorso sull’erotismo, che non è solo quello esplicito dell’orgia nel bordello di lusso ma è, soprattutto, quello mimetico, costruito ad arte, all’interno di due sorprendenti montaggi paralleli. Più che nei corpi, l’erotismo, per il regista viennese, è racchiuso nei simboli e in questo caso nei capi di abbigliamento siano essi la divisa imperiale del Conte o le calze nere autoreggenti della Contessa. Una sequenza posta all’inizio del film mette in relazione la vestizione di Franz operata da un servitore il quale è costretto a subire anche la violenza di un pugno per essersi dimenticato di togliere lo stirabaffi,  con la parallela svestizione della contesa da parte della servitù: nelle due scene, montate in parallelo, la simbologia sessuale si esplica attraverso l’elmo del conte e i lucidi stivali di pelle nera della donna. La servitù è custode di una ritualità “erotica” attraverso cui i corpi della nobiltà vengono ora vestiti e ora svestiti.

L’intento del regista è dunque quello di erotizzare la “seconda pelle” dell’uomo (i vestiti appunto), concetto rafforzato ulteriormente dal secondo passaggio in montaggio parallelo, quello che vede il tentativo di seduzione da parte di Franz nei confronti di Agnes nelle stanze della garçonnière: qui l’uomo prima riveste la donna con cappello e mantello dandole una regalità che non gli appartiene e poi la invita a specchiarsi davanti ad uno specchio circondato da veneri di Milo seminude scolpite nell’atto di togliersi i vestiti. Sono scarti minimi, ma fondamentali, che chiaramente scompaiono nella seconda parte del film, così come nella seconda ora viene meno il ricorso alla simbologia, che, invece, nella prima parte si manifesta attraverso: il temporale grazie al quale Sylvester e Agnes possono correre al capezzale della madre morente; l’uccello che penetra dalla finestra e che rimane intrappolato nella stanza nel momento della morte di Ursula; il violino a cui il conte continua a tirare la corda di fronte alla ritrosia di Agnes nella garconnière, e che nel momento in cui la donna cede alle avance dell’uomo spezza una delle sue corde. Nella seconda parte del film, invece, solo un simbolo, molto meno incisivo e decisamente inutile, fa la sua comparsa: si tratta del “giardino dell’amore” luogo ideale in cui più volte avvengono gli incontri tra Franz e Agnes.

Quando il film passa nelle mani di Ruppert Julian, dopo il minuto 54, la sua forza espressiva svanisce improvvisamente, la recitazione degli attori va fuori controllo (come dimostra il fastidioso gigionismo di Cesare Gravina) e il rigore e la moralità dello sguardo di Eric Von Stroheim lasciano spazio solo ad un bieco sentimentalismo, come dimostrano tre passaggi essenziali che sfociano nel ridicolo involontario: il confronto a tre tra Agnes, Franz e Gisella sotto gli occhi del padre ricoverato in ospedale, l’attentato di Kalafatti ai danni di Sylvetser durante la recita di fronte ai bambini in cui il clown semimorente cerca di continuare a far ridere i piccoli spettatori, e infine il confronti tra Sylvester e Franz al fronte durante la guerra. Quest’ultimo episodio, da Thalberg e Julian trattato vergognosamente come una pantomima da fiera di paese in cui Franz offre a Sylvester la propria pistola perché questi lo uccida, nell’ idea di Von Stroheim ha tutt’altro significato. Si tratta di un momento cruciale in cui il rapporto tra i due uomini, un italiano e un austriaco diventa metonimia del rapporto tra due stati in guerra, uno vittorioso e uno sconfitto, come dimostra la didascalia che fa seguito alla scena in cui Franz afferma: “Un uomo che se ne va odiandomi in questo modo”. L’odio tra i due uomini, è dunque quello tra i due paesi, e al contempo è quello che serpeggia nella società austriaca presentata in sintesi dalla didascalia che apre la sequenza della guerra: “Così si presentava ai nostro piccolo mondo, di buoni e cattivi, di innocenza e colpa, di malore e odio. Poi… nel lontano stato della Bosnia venne sparato un colpo…”.

Oltre questo passaggio, nella seconda parte del film, è da ricordare, un’altra sequenza espressionista ancora girata da Stroheim: l’omicidio di Kalafatti ad opera dell’orango Boniface. La sequenza, seppur tagliata e manipolata in fase di montaggio, si presenta articolata attraverso complessi movimenti di macchina, immagini inquietanti dell’animale eretto sul davanzale della finestra e ombre minacciose che si disegnano sul volto di Huber dormiente mentre l’orango si avvicina per ucciderlo. Le parti più violente della sequenza, sono state espunte dal produttore e ciò che rimane mostra solo il prima e il dopo l’aggressione dell’animale, ma anche attraverso questo poco si evince tutta la forza espressiva di un regista unico ed irripetibile il quale piega la tecnica, centellinandola, alle esigenze di una semplicità e immediatezza della messa in scena mai più eguagliate in tutta la storia del cinema. Non a caso, a proposito della tecnica egli dichiara: “E’ una grammatica che bisogna utilizzare inconsciamente. Detesto la tecnica quando è destinata  farsi notare; in tal caso, è sempre cattiva la grande tecnica è una cosa terribilmente idiota…”

di Fabrizio Fogliato

 

MERRY-GO-ROUND
TITOLO ORIGINALE: MERRY-GO-ROUND
GENERE: Drammatico
ANNO: 1923
PAESE: Stati Uniti
DURATA: 110 Min
REGIA: Erich Von Stroheim (non accreditato) e Rupert Julian
SCENEGGIATURA: Finis Fox e Erich Von Stroheim (non accreditato)
FOTOGRAFIA: William H. Daniels, Charles E. Kaufman, Ben F. Reynolds (non accreditato)
MONTAGGIO: James C. McKay, Maurice Pivar (non accreditato)
MUSICHE: Paul Van Dyke
PRODUZIONE: UNIVERSAL PICTURES
ATTORI: Norman Kerry, Mary Philbin, Dale Fuller, Maude George, Cesare Gravina, George Hackathorn, George Siegmann, Lillian Sylvester, Anton Vaverka, Dorothy Wallace, Edith Yorke, Sidney Bracey, Albert Conti

 

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