Un film in cui il fotogramma si trasforma in tela da dipingere con luci, colori, nero e sangue.

Non sembra, ma è film indipendente, perchè dopo gli esiti disastrosi di Sorcerer e Cruising, la fiducia degli studios hollywoodiani in William Friedkin è al grado zero: un rapporto, quello tra il regista di Chicago e le Majors destinato alla non riconciliazione. Inoltre, gli anni ’80, hanno imposto al genere action-poliziesco, l’estetica del videoclip, la fotografia patinata: da un lato la deriva comica dei film di Eddie Murphy (Beverly Hills Cop) e dall’altro la solarità vacanziera delle serie tv ambientate sulle coste della Florida (Miami Vice). Friedkin, dopo la notte metropolitana e terrifica di Cruising – non trovando finanziamenti per altri progetti – si dedica a produzioni televisive, fino a quando, nel 1985, non “inciampa” nel romanzo di Gerald Petievich To Live and die in L.A..

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In poche settimane Friedkin scrive una sceneggiatura secca e brutale in cui emergono i toni oscuri e minacciosi di una metropoli livida in cui il sole sembra essersi spento definitivamente. Film in controtendenza – almeno rispetto alla moda del momento – e film indipendente; solo distribuito dalla MGM e dalla United Artists (che non credono nel progetto) ma finanziato con un budget ridottissimo proveniente da una società privata: la SLM (Schulman, Levin e Marquetti).

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Il film nella sua concezione “arty” relega l’immagine da cartolina della città degli angeli nel primo fotogramma in dissolvenza che apre il film e nell’estetica glamour dei titoli di testa – realizzati con colori accesi (verde e rosso), caratteri cubitali e una piccola, ma significativa, animazione: di fianco al titolo si compone una piccola palma, segno tangibile di una Los Angeles, conosciuta, che c’è solo in quel momento (e che non ci sarà più, infatti già nel titolo non c’è il nome della città ma solo la sigla). Nel film non ci sono immagini metropolitane di grattacieli, viali circondati da palme locali alla moda; al loro posto, dissestate strade di periferia, sopraelevate di confine, ciminiere dell’industria chimica, serbatoi dell’acqua intrecciati a tralicci telefonici e dell’alta tensione. La Los Angeles del film è una città vista sempre in lontananza (spesso inquadrata con campi lunghi e lunghissimi) estraniata dalla sua natura edonistica degli anni ’80 e straniante nell’integrazione di una società, il cui unico obiettivo sembra essere quello di accumulare denaro (vero o falso non ha importanza). William Friedkin propone una fuga dalla città – ben esemplificata dalle immagini in movimento (carrelli laterali, camera-car) che scorrono sotto i titoli di coda e che scandiscono, nei tempi e nei colori, le dinamiche del tramonto prima dell’inquietante e ambiguo ultimo fotogramma: il primo piano di Richard Chance – scolpito dall’ombra della veneziana – con lo sguardo rivolto minaccioso verso lo spettatore.

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To live and die in L.A.: nessuna possibilità di scelta. A Los Angeles si possono solo fare le due cose contemporaneamente e l’alternativa è (ontologicamente) negata: entrambe le azioni non sono scelte dell’individuo ma situazioni deterministiche; conta solo ed esclusivamente una cosa – come dice Eric Masters di fronte al cadavere di Jimmy Hart: trovarsi al posto giusto nel momento giusto (per vivere) e trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato (per morire). Tutto il film è percorso da corrispondenze parallele in cui le immagini in movimento, passano – senza soluzione di continuità – da sopra a sotto la sopraelevata su cui è in atto l’inseguimento; da dentro a fuori il laboratorio in cui si fabbrica il denaro. Allo stesso modo vengono gestiti i rapporti personali: deprivati di ogni sentimento e gratuità e animati solo dalla necessità e dalla convenienza. Così è il rapporto tra Richard e Ruth – cioè quello tra un poliziotto e la sua informatrice/amante – e così è quello tra Eric e Bianca Torres, il falsario e l’amante (che nel finale, però, scopriamo essere lesbica). Sulla stessa linea si muovono le dinamiche tra legalità e illegalità; e se da un lato, la burocrazia viene sbandierata – con tanto di cifre e commi – come un vessillo inconfutabile da parte dei superiori di Richard Chance e John Vukovich, allo stesso modo non c’è distinzione tra poliziotti e criminali, e anzi, paradossalmente, sono questi ultimi a essere più rispettosi delle regole.

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Un agente federale, da tempo insieme ad un collega sulle tracce di un inafferrabile falsario, arriva una mattina all’alba nel covo che ospita la zecca clandestina e vi scopre un sacco pieno di dollari in biglietti da venti. Il falsario Eric Masters (Willem Defoe) lo uccide. Il collega del poliziotto (morto a tre giorni dalla data del pensionamento) è il giovane Richard Chance (William L. Petersen), a lui legatissimo e per questo deciso a vendicarlo. Partito in coppia con il suo nuovo “gemello”, l’agente John Vukovich (John Pankow), Richard si trova implicato in una serie di avventure rischiosissime contro l’astuto Masters e l’ambiguo e corrotto avvocato di costui; egli arresta un certo Cody (John Turturro), un corriere da cui il falsario ritiene di essere stato truffato, e cerca informazioni attraverso Ruth Lanier (Darlanne Fluegel) (una informatrice della polizia, occasionale amante di Richard medesimo): tutto nell’intento di smascherare Masters e di vendicare l’amico ucciso. Vukovich, è al suo fianco e i due agenti, nonostante la scarsa collaborazione dell’ufficio da cui dipendono, riescono a rintracciare e a contattare Masters, ma devono uscire dai binari del regolamento: rapinano un cinese (in realtà un agente dell’ FBI sotto copertura) ritenuto un corriere di dollari da destinare a Masters per costringerlo a scoprirsi. Alla fine, questi muore nel rogo della stamperia clandestina, dopo aver ucciso Richrd, mente Vukovich sopravvive…

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To live and die in L.A., è anche il film in cui Friedkin mette a fuoco l’individualismo degli anni ’80, attraverso la contrapposizione tra due uomini, Chance (che nel cognome sembra avere l’opzione di scelta) e Masters (che nel cognome ha lo stigma del “maestro”): due uomini soli; il primo viene subito deprivato del suo “gemello”, il secondo sembra vivere in un mondo completamente avulso dalla realtà ed immerso in una dimensione artistica. Masters, infatti, è un pittore, un uomo di talento, come viene definito dal critico d’arte interpellato durante le indagini: “Era a Terminal Island quando l’ho conosciuto, stava scontando una pena per rapina a mano armata. Era il 1978? Mi avevano chiesto di parlare ai detenuti e di dare un’occhiata alle loro opere. Masters aveva talento. Si vedeva. Una volta sono andato nel suo studio e lui stava bruciando un paio di dipinti che secondo me erano molto belli…”.

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Il tema del fuoco/inferno (caro a Friedkin) ritorna più volte all’intenro del film – Masters, con la stessa naturalezza, brucia le sue opere d’arte (che si tratti di quadri o di soldi falsi è ininfluente), come a volerne distruggere l’essenza capace di svelare la sua personalità. Difatti, la celebre e magistrale sequenza, iniziale, della fabbricazione dei soldi, restituisce l’immagine di un artista chiuso nella sua bottega e, se il montaggio – adrenalinico e da videoclip, scandito sui suoni elettronici dei Wang Chung – astrae il personaggio dalla realtà, la sequenza successiva in cui uccide Jimmy Hart, ci restituisce tutta la ferocia e la brutalità di un uomo non in grado di controllare il proprio ego smisurato: la paura di Masters infatti, non è tanto quella di essere arrestato, bensì il terrore che qualcun’altro possa venire a conoscenza del suo talento. Non a caso, in ogni situazione, egli controlla minuziosamente e maniacalmente l’identità di chi incontra e, allo stesso modo, riprende i suoi rapporti sessuali con Bianca Torres (interpretata da Debra Fuer) attraverso la videocamera, per rivedersi e “valutarsi”. Inevitabile che la sua dannazione termini con un rogo purificatore: è destinato a morire bruciato.

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Masters è dunque un alienato rispetto alla società circostante, un “maestro” artistico che non vuole condividere la sua arte con nessuno – come ben evidenzia la diffidenza con cui distribuisce il denaro falso (è lo stesso Jeff a farglielo notare quando lo incontra per concordare l’omicidio in carcere di Carl Cody). La sua casa è spoglia, priva di arredamento, costituita prevalentemente da pareti bianche e vetrate, un grande camino sempre acceso, e un letto rosso su cui giace supino e immobile il corpo nudo di Bianca. L’abitazione è uno spazio/atelier senza né calore, né anima. Il contro campo di Masters è Richard Chance: egli è dedito al base-jumping, necessita di soddisfare compulsivamente un bisogno di adrenalina che rincorre in ogni sua azione (l’inseguimento di Carl Cody in aereoporto né è l’esmplificazione) – perfetta sintesi del rampantismo anni ’80 in cui non contano i mezzi ma solo ed esclusivamente il fine (“Incastrerò Masters ad ogni costo” afferma). Chance, stabilisce con il prossimo solo rapporti di convenienza. Ruth gli serve per avere informazioni per arrestare i criminali ma – quando la donna gli chiede il denaro per il lavoro fatto – la risposta secca del poliziotto è: “No arrest, no money”, ed è sintesi del suo parlare per slogan, della sua incapacità di dialogare.

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Quando Ruth – dopo aver fatto l’amore con lui – gli dice: “E’ colpa mia se è morto? Mi ci sono voluti sei mesi per avvicinarlo. Ho delle spese”, la risposta secca e sprezzante di Richard è: “Lo zio Sam se ne fotte delle tue spese. Vuoi del pane? Scopati un panettiere”. Ma Richard Chance è anche il poliziotto che non accetta le regole – neanche quelle imposte dall’alto dai suoi superiori – perchè egli, pur di raggiungere il suo obiettivo (per pura gratificazione personale, la stessa degli yuppies), è disposto a qualunque azione, anche la più meschina, nonostante condivida la responsabilità delle indagini col suo compagno John Vukovich. Proprio la presenza di quest’altro poliziotto – che per tutto il film sembra succube e impotente di fronte alle scelte di Chance – è rivelatrice, quando, nel finale del film, dimostra di essere un allievo che apprende dal maestro: il break-point, in cui la vicenda narrata si infrange e deflagra nella lettura friedkiana della società degli eightees. Quando Chance muore Vukovich, non solo prende il suo posto, ma si impossessa (lettrealmente dell’informatrice/amante) e assume su di sé tutti i caratteri di presunzione, arroganza, sprezzo delle regole e sfruttamento del prossimo che fino a pochi istanti prima aveva criticato nel suo compagno di indagine.

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L’aspetto pessimista, ambiguo e cupo del film, non è tanto la risposta di friedkin “contro gli anni ’80”, quanto la necessità di riaffermare l’action-movie secco e immediato del decennio precedente aggiornato con il linguaggio musicale ed edonistico degli eighties per portarlo in una dimensione astratta in cui la forma artistica diventa determinante per tradurre in fotogrammi il significato. Nonostante To live and die in L.A., sia scandito da tempi cronchistici, in cui vengono riportati giorni, ore e minuti (dal 20 Dicembre al 14 Gennaio) il film vive in una dimensione onirica: un balletto, la fabbricazione dei soldi, un folle inseguimento contromano, le scenografie stesse, si traducono in opere d’arte.

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Per William Friedkin, negli anni ’80, la forma sembra prevalere sul contenuto, come a voler esorcizzare (senza riuscirci, perchè il suo cinema deve sempre essere bigger than life – quindi bellissimo e perdente) le incomprensioni e i fraintendimenti che hanno accompagnato il suo cinema dopo il clamoroso e inaspettato successo di The Exorcist. Quello di To live and die in L.A., ma anche quello del successivo Rampage e dell’alimentare Jade, è un cinema in cui il fotogramma si trasforma in tela da dipingere con le luci, i colori, il nero e il sangue. Non è casuale, che proprio in To live and die in L.A., la città californiana diventi il teatro di una storia in cui ogni individuo non viene solo ucciso ma ne viene cancellata istantaneamente l’identità: un colpo di pistola o di fucile sempre diretto a distruggere il volto – quello stesso colpo di pistola, virato in negativo, nel fotogramma che anticipa i titoli di testa, quasi a voler distruggere il film stesso e la sua creazione. Rick Masters brucia i suoi dipinti per non mostrarli a nessuno William Friedkin distrugge il suo film, perchè sa che non può essere compreso.

di Fabrizio Fogliato

TO LIVE AND DIE IN l.A.

Titolo Italiano. Vivere e morire a Los angeles
Paese: USA
Anno: 1985
Durata: 116’
Regia: William Friedkin
Soggetto: Gerald Petievich (dal suo romanzo omomimo)
Sceneggiatura: Gerald Petievich e William Friedkin
Musiche: Darren Costin, Nick Feldman, Jack Hues (Wang Chung)
Fotografia: Robby Müller
Montaggio: Scott Smith
Interpreti principali: William Petersen, Willem Dafoe, John Pankow, Debra Feuer, John Turturro, Darlanne Fluegel, Dean Stockwell, Steve James, Robert Downey Sr.

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