Tag

William Friedkin

Browsing

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 4: La prova generale

I grandi maestri: William Friedkin, Luis Buñuel, John Cassavetes, James Toback – ispirazioni sublimi su un cattivo tenente

Il poliziotto è nudo pertanto (e Ferrara opportunamente mostra un full-frontal mantegnano di Harvey Keitel in una delle prime scene del film), stretto in una città in cui la violenza dilaga e contagia ogni essere umano come una vera e propria epidemia o malattia. Non è casuale che Bad Lieutenantsia oltremodo accomunabile con uno dei film più controversi degli anni ’80, Cruising (id., 1980) di Williamn Friedkin e che la parabola di Lt ricalchi sul versante spirituale quella materiale di Steve Burns (Al Pacino). In Cruising, il poliziotto Steve Burns (Al Pacino) si addentra come infiltrato nella New York omosessuale alla ricerca di un serial killer che uccide e mutila i gay; la sua indagine però lo porterà a mettere in discussione la sua identità sessuale e a confrontarsi con il lato oscuro della sua anima. Anche qui, come in Bad Lieutenanttroviamo un’indagine poliziesca a fare da sfondo ad un tema ben più ampio e profondo: la conoscenza di se stessi fino alle estreme conseguenze. Come in Bad Lieutenant anche nel film di Friedkin, è fondamentale il contributo del sonoro: nel film di Ferrara i rumori nascondo i dialoghi, in Cruising il rumore del cuoio e della pelle e il battere dei tacchi e degli stivali delimitano luoghi e spazi e sono rivelatori di una minaccia costante. Steve Burns come Lt è spettatore passivo dei rapporti sessuali: se in Bad Lieutenanterano performance recitate, in Cruisingsono gli accoppiamenti e le orge dei locali sado-maso del Greenwich Village a sconvolgere ed affascinare la mente del protagonista, progressivamente compresso in spazi sempre più asfittici: azzeramento dello spazio quindi, cioè il vuoto.

WILLIAM FRIEDKIN’S TO LIVE AND DIE IN L.A.(VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES, 1985 )

Un film in cui il fotogramma si trasforma in tela da dipingere con luci, colori, nero e sangue.

Non sembra, ma è film indipendente, perchè dopo gli esiti disastrosi di Sorcerer e Cruising, la fiducia degli studios hollywoodiani in William Friedkin è al grado zero: un rapporto, quello tra il regista di Chicago e le Majors destinato alla non riconciliazione. Inoltre, gli anni ’80, hanno imposto al genere action-poliziesco, l’estetica del videoclip, la fotografia patinata: da un lato la deriva comica dei film di Eddie Murphy (Beverly Hills Cop) e dall’altro la solarità vacanziera delle serie tv ambientate sulle coste della Florida (Miami Vice). Friedkin, dopo la notte metropolitana e terrifica di Cruising – non trovando finanziamenti per altri progetti – si dedica a produzioni televisive, fino a quando, nel 1985, non “inciampa” nel romanzo di Gerald Petievich To Live and die in L.A..

1-6

In poche settimane Friedkin scrive una sceneggiatura secca e brutale in cui emergono i toni oscuri e minacciosi di una metropoli livida in cui il sole sembra essersi spento definitivamente. Film in controtendenza – almeno rispetto alla moda del momento – e film indipendente; solo distribuito dalla MGM e dalla United Artists (che non credono nel progetto) ma finanziato con un budget ridottissimo proveniente da una società privata: la SLM (Schulman, Levin e Marquetti).

JADE (1995) di William Friedkin

Fetish of evidence: i feticci della società dell’immagine.

La prima metà degli anni ’90 segna l’esplosione cinematografica del thriller-erotico, e contemporaneamente l’affermazione multimiliardaria dello sceneggiatore Joe Eszterhas, il quale con i suoi script (Basic Instinct su tutti) costruisce un breve filone di successo, capace nel giro di pochi anni di dare vita ad una serie di epigoni minori (dei quali il migliore rimane The Last Seduction di John Dahl (1993)). L’autore delle sceneggiature di Basic Instinct (di Paul Verhoeven, 1992), Sliver (di Philip Noyce, 1993), e Jade (di William Friedkin, 1995), è un abile manipolatore e un furbo venditore di se stesso che, attraverso una serie di script scadenti e velleitari, riesce a far credere a Hollywood di essere il nuovo Re Mida del cinema. Di quanto esiguo, sia il contributo del suo lavoro per la riuscita o meno di un film, è dimostrato dal fatto che l’unico dei tre succitati, Sliver (che mortifica il romanzo omonimo di Ira Levin), girato non da un “autore” – ma da un abile mestierante come Philip Noyce – risulta debole, improbabile e lacunoso, anche sul versante del cotè erotico – a differenza degli altri due in cui la sapiente mano di Verhoeven in un caso e quella di Friedkin nell’altro riescono a sorvolare su dialoghi risibili e scontati, per costruire tutto l’impatto dei due film solo ed esclusivamente attraverso la regia e la messa in scena.

WILLIAM FRIEDKIN’S SORCERER (IL SALARIO DELLA PAURA, 1977)

Odissea infernale verso la morte

 

Lo schermo nero, poi una dissolvenza svela il volto di un demone scolpito nella pietra; improvvisamente dalla sinistra, il titolo del film entra come una lama: Sorcerer, ovvero Stregone. Il motivo, per cui il remake di Le salaire de la peur (Vite vendute, 1953) di Henri-Georges Clouzot, ha questo titolo, è da ricercare nel percorso artistico di William Friedkin. Il regista, quattro anni prima ha diretto The Exorcist (L’esorcista), e il tema della possessione continua  – in questo cult maledetto –  a contagiare i personaggi e la storia. Sorcerer è il delirio di onnipotenza di un autore giunto all’apice del suo successo, che crede di poter sfuggire alle regole e alle dinamiche di Hollywood lanciandosi in una produzione colossale girata lontano dagli studios, senza rinunciare al sottotesto d’autore, ma integrando la messa in scena con una potentissima metafora spettacolare. Lo stesso Friedkin dichiara: “Apocalypse now, Aguirre, Furore di Dio e il mio Il salario della paura sembrano in effetti aver sofferto dello stesso male. Sapete, la maggior parte dei registi ha un solo desiderio: quello di vivere sul filo del rasoio. Sapendo che un regista non ha sempre un controllo assoluto sulla propria creazione è evidente che egli ha forzatamente voglia di andare vicino al punto di rottura di una situazione data per provare al mondo di essere in grado di ritornare, all’ultimo minuto, padrone del suo destino”. (In Roy Menarini, William Friedkin, Il Castoro Cinema, pag. 56). Le difficoltà realizzative sono enormi: Universal e Paramount, sono al timone di una produzione da venti milioni di dollari, quasi interamente girata nella Repubblica Domenicana, con collaboratori che si ammalano di malaria, risse furibonde tra regista e attori sul set e in cui le scene più incredibili e difficoltose (come quella del ponte vengono girate più volte) tra intemperie e set distrutti dalle forze della natura. Per traslato, si potrebbe persino dire che il film stesso è posseduto da un demone, ma in realtà la “follia calcolata” di Friedkin, utilizza un viaggio verso la morte ribaltandolo di senso e trasformandolo in un viaggio iniziatico in cui il Male è sostituito al Bene e viceversa.

In uno sgangherato Stato dell’America Latina, nonostante la miseria che vi regna, la dittatura, il terrorismo politico, si rifugiano persone che per ragioni diverse in patria hanno conti aperti con la legge o con la criminalità organizzata. E’ il caso di Jackie Scanlon (Roy Scheider) che, unico superstite di un quartetto di rapinatori, è ricercato dalla mafia perché nel corso della rapina è stato ucciso un sacerdote, fratello di un boss. Victor Mason (Bruno Cremer), invece, è un banchiere parigino responsabile del fallimento della propria banca e causa del suicidio del fratello; Kassem (Amidou), invece, è fuggito da Israele dopo avere preso parte a un sanguinoso attentato a Gerusalemme. Angerman è un aguzzino nazista che verrà presto eliminato dall’ebreo Nilo (Francisco Rabal). Oltre che privi di denaro, i quattro (che nell’ordine si fanno chiamare: Juan Dominguez, Serrano, Martinez e Marquez) sono perseguitati dalla corrotta polizia del villaggio per via delle leggi di immigrazione. Disperati, i quattro accettano di trasportare su due autocarri antidiluviani delle casse di nitroglicerina, indispensabile per arrestare l’incendio di un pozzo petrolifero. Il “salario della paura” è di 8 mila pesos per ciascuno dei quattro (Marquez viene sostituito dal suo “giustiziere” Nilo). L’impresa è pazzesca, dovendosi percorrere 200 miglia di foresta su di una pista infame e con un carico in condizioni pessime. Serrano e Martinez finiscono in un burrone. Nilo muore per le ferite infertegli da guerriglieri. Juan Dominguez giunge alla meta e si assicura tutto il compenso ma nel villaggio sono giunti i killers che la mafia ha sguinzagliato per eliminarlo.

maxresdefault

WILLIAM FRIEDKIN’S CRUISING (1980) – Prima Parte

Da Sodoma a… New York

A New York iniziano a essere rinvenute, nelle acque del fiume Hudson, parti del corpo di uomini. La polizia ritiene sia l’opera di un serial killer che abborda omosessuali nei bar cittadini per poi stuprarli e mutilarne i corpi, così l’agente di polizia Steve Burns (Al Pacino) viene mandato come infiltrato nel mondo dei club per omosessuali per rintracciare l’assassino. Burns commette uno sbaglio e porta la polizia ad indagare sul conto del cameriere di un ristorante, Skip Lee, il quale sarà costretto a spogliarsi e masturbarsi dinanzi a quattro detective per fornire loro un campione di sperma. Dopo aver assistito a questo episodio di brutale violenza, Burns capisce che i poliziotti non stanno conducendo le indagini al fine di scovare l’assassino, ma spinti unicamente da una delirante omofobia. Abbandona le indagini, ma viene convinto dal suo capo, il Capitano Edelson (Paul Sorvino) a riprenderle in mano. Steve riesce alla fine a rintracciare il presunto serial killer, uno studente di musica, omosessuale, e lo arresta. Dopo quest’indagine Burns diventa ispettore e gli viene concesso un permesso ma…

BUG di WILLIAM FRIEDKIN (2006)

Lo sguardo onnipotente dell’incertezza

 

Presentato a Cannes ’59, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, Bug di William Friedkin, è un lungometraggio livido e per nulla conciliatorio, che innesta un vortice delirante di paranoia patologica che trascina con sé persone, ambienti e psiche, impedendo di rintracciare coordinate chiare e percepibili, e facendo, ancora una volta, dell’ambiguità, l’unica chiave di lettura possibile. Un film che si confronta con l’orrore e la deviazione che possono insinuarsi in menti umane isolate dal mondo (nel film non compare alcun segno della tecnologia corrente; niente cellulari, solo un vecchio telefono di bachelite che squilla in continuazione) e costrette ad una condizione di vita disagiata. Bug è interamente circoscritto intorno all’unità di luogo, la stanza del Rustic Motel in Oklahoma; scelta che permette al regista di lasciare intatto fino alla fine l’interrogativo se le visioni (?) dei protagonisti siano vere o il risultato di manie di persecuzione, ma anche di innestare un discorso “politico” più ampio, riempiendo i dialoghi di riferimenti alla storia americana (recente e non), compreso il fuoco amico del “terrorista” che viene dall’interno (come gli insetti). Non appare casuale la citazione di Tim Mc Veigh, nel monologo di Agnes che anticipa la chiusura del film e che riassume in un delirio scoordinato e psicotico il percorso che hanno condotto lei e Peter fino a quel punto. Timothy James McVeigh è infatti, l’autore dell’ attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, in cui rimasero uccise 168 persone, in quello che è stato il più sanguinoso atto terroristico perpetrato nel territorio degli Stati Uniti fino all’11 settembre 2001. Il nemico è dentro di noi (visibile o invisibile non ha importanza), questo sembra dirci William Friedkin con Bug, che non a caso reinterpreta e aggiorna attraverso la piece teatrale di Tracy Letts (che scrive anche la sceneggiatura del film), l’episodio da lui diretto per la serie “Ai confini della realtà”, nel 1983, sostituendo le sperimentazioni chimiche del diserbante Orange ed il gas psichedelico BZ, utilizzati dall’esercito durante la guerra del Vietnam con presunte sperimentazioni condotte sui soldati statunitensi durante la Prima Guerra del golfo.

WILLIAM FRIEDKIN’S “RAMPAGE” (ASSASINO SENZA COLPA?) – Parte Seconda

180 secondi per morire: La vita di un essere umano innocente vale di più di quella di un pluriomicida?

Rampage è un film che letteralmente prende le distanze dallo spettatore. Quella di Friedkin è una messa in scena glaciale, anti-empatica. Lo sguardo del regista è oggettivo al fine di proporre allo spettatore un film in cui non è possibile nessun coinvolgimento emotivo ma solo una visione distaccata (e pertanto critica) degli eventi mostrati. In Rampage non c’è nessun intento introspettivo né tanto meno esornativo, ciò che conta è il non-luogo dello spazio persistente tra due opposti. William Friedkin impernia la costruzione filmica e narrativa su un tema ben preciso quello della linea di confine: una linea di demarcazione che separa il Bene dal Male, la giustizia dall’ingiustizia, la vita dalla morte, i dubbi dalle certezze, ma che trova la sua ricomposizione nella ritualità degli eventi per poi distaccarsi nuovamente e definitivamente nel racconto della scissione del comportamento umano diviso tra istinto e ragione, animalità e umanità. A tal proposito l’inizio appare programmatico, la lunga panoramica aerea che scende fino ad inquadrare Charles Reece in cammino sulla strada, pone lo spettatore davanti alla visione di una linea prima “invisibile”, e poi sempre più visibile fino all’identificazione con la strada, immersa e “nascosta” tra la continuità dei campi coltivati. La separazione, come indice di contrapposizione, ma anche come luogo fisico e non-luogo mentale, in cui il film si incunea nelle sue contraddizioni e ambiguità con l’intento dichiarato (sin dai primi fotogrammi) di non offrire allo spettatore nessun appiglio e di non concedere nessuna risposta.

WILLIAM FRIEDKIN’S “RAMPAGE” (ASSASSINO SENZA COLPA? – 1987) – Parte Prima

La ritualità dell’omicidio e l’anatomia di un serial-killer

Rampage è il film dimenticato di William Friedkin. La scarsa circolazione e le vicende produttive legate alla sua realizzazione, hanno contribuito sia a diminuirne l’impatto critico che a renderlo un oggetto misconosciuto e tutt’oggi (quasi) invisibile. Nel 1986, il regista di Chicago sta lavorando alla stesura di un copione per un film per la televisione via cavo quando, si imbatte in un romanzo che suscita il suo improvviso interesse. William P. Wood, autore del libro in questione è stato procuratore distrettuale nella città di Sacramento, dove si è specializzato nella risoluzione di casi di omicidio plurimo. Nel suo libro, l’autore, traccia sotto forma di resoconto cronachistico (seppur con ampie immissioni di fiction) le vicende di un serial killer che agisce nella cittadina Californiana sul finire degli anni ’70.