Fetish of evidence: i feticci della società dell’immagine.

La prima metà degli anni ’90 segna l’esplosione cinematografica del thriller-erotico, e contemporaneamente l’affermazione multimiliardaria dello sceneggiatore Joe Eszterhas, il quale con i suoi script (Basic Instinct su tutti) costruisce un breve filone di successo, capace nel giro di pochi anni di dare vita ad una serie di epigoni minori (dei quali il migliore rimane The Last Seduction di John Dahl (1993)). L’autore delle sceneggiature di Basic Instinct (di Paul Verhoeven, 1992), Sliver (di Philip Noyce, 1993), e Jade (di William Friedkin, 1995), è un abile manipolatore e un furbo venditore di se stesso che, attraverso una serie di script scadenti e velleitari, riesce a far credere a Hollywood di essere il nuovo Re Mida del cinema. Di quanto esiguo, sia il contributo del suo lavoro per la riuscita o meno di un film, è dimostrato dal fatto che l’unico dei tre succitati, Sliver (che mortifica il romanzo omonimo di Ira Levin), girato non da un “autore” – ma da un abile mestierante come Philip Noyce – risulta debole, improbabile e lacunoso, anche sul versante del cotè erotico – a differenza degli altri due in cui la sapiente mano di Verhoeven in un caso e quella di Friedkin nell’altro riescono a sorvolare su dialoghi risibili e scontati, per costruire tutto l’impatto dei due film solo ed esclusivamente attraverso la regia e la messa in scena.

L’estetica di Basic Instinct, con la sua fotografia traslucida, la sua atmosfera hitchcokiana, le sue inquadrature sghembe e conturbanti, e l’erotismo volgare e brutale mostrato senza riserve, sono il frutto dell’elaborazione registica dell’autore olandese che, in certi momenti, richiama i suoi film del passato in patria, rivisitando la crudezza di Spetters (1977) e la svagata goliardia di Watt Zien Ik (Gli strani amori di quelle signore, 1971). La costruzione narrativa di Jade, invece, segue lo sviluppo disordinato e confuso della sceneggiatura di Joe Eszterhas (comunque la migliore delle tre), mentre Friedkin appare più interessato a concentrare la propria attenzione sul sottotesto simbolico e su una nuova rielaborazione (l’ennesima) dei suoi topoi cinematografici; aiutato dalle imponenti ed eleganti scenografie di Alex Tavoularis e dalla fotografia calda e sensuale di Andrzeij Bartkowiak, il regista di Chicago, costruisce un meccanismo filmico in cui la persona (e il suo essere) viene rimpiazzata dall’oggetto.

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Jade – come oggetto filmico – risultare tanto controverso quanto indecifrabile. E’ in virtù di questa peculiriatà, che Roy Menarini parla di “un film sulla regressione tribale, in cui gli scandali erotici e la corruzione non sono altro che il riflesso di una società folklorica che si copre di denaro per travestirsi da civiltà”; Daniela Catelli di “un indagine sul principio di piacere e disgusto e su come questo si è evoluto nelle società opulente e nelle aziende del post fordismo…”; Gianni Canova mette il film in relazione con To live in die in L.A. e – tra le strade di San Francisco e quelle di Los Angeles – fornisce una riflessione sulla reiterazione all’infinito della stessa scena primaria del cinema di William Friedkin: quella dell’inseguimento. Naturalmente, ogni opinione in merito a Jade, appare come legittima e rispettabile, certo è che il film (su commissione) del regista di Chicago, appare oggi, a distanza di quindici anni, come il degno progenitore di C.S.I. (con la presenza di David Caruso) da una parte e come il film che più di ogni altro riflette sul termine feticcio e sul concetto di feticismo legati alla necessità di possesso (tanto delle cose come delle persone) dall’altra.

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Feticcio: motivo di un culto o di un rispetto esclusivo, irragionevole e fanatico legato ad oggetto materiale. Feticismo: Forma di religiosità primitiva, per lo più a carattere magico o animistico, fondata sul culto tributato ad oggetti materiali; ma anche: anomalia del comportamento sessuale per cui l’attrazione erotica risulta limitata ad un oggetto. Jade è un ideogramma cinese, un segno semiologico che identifica (come vedremo), un corpo prima e un essere umano poi, e, infatti, la prima volta che lo vediamo comparire – dopo l’immagine sui titoli di testa – è su una scatoletta argentata contenente peli pubici rinvenuta – assieme ad altre con lo stesso contenuto -nell’appartamento di Kyle Medford.

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Appartamento, mostrato in precedenza, durante la prima sequenza, non nella sua totalità, ma solo attraverso una serie di brevi panoramiche il cui punto di partenza e di chiusura è rappresentato in entrambe i casi sempre da oggetti. Frammentazione dello spazio (gli oggetti) e del corpo (i peli) dunque, il tutto necessario ad oggettificare l’esistente. L’oggetto, con il suo carico di “sicurezza”, diventa subito feticcio da adorare, conservare e dunque possedere. Allo stesso modo le dinamiche narrative sono regolate dalla presenza di fotografie e video compromettenti: i feticci della società dell’immagine. In Jade: muovono le relazioni umane, regolano la distanza tra i “contendenti”, provocano tradimenti, svelano l’ipocrisia e trasformano l’individuo, e infine portano direttamente all’omicidio – senza dimenticare, che la soluzione del thriller è nascosta in un oggetto (il gemello di Matt).
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A San Francisco, Kyle Medford, un ricchissimo collezionista, viene trovato ucciso con un’ascia orientale. Sul delitto indaga il sostituto procuratore distrettuale David Corelli (David Caruso), che trova in casa del morto foto sconce del governatore Lew Edwards (Richard Crenna) con una sconosciuta, il quale lo diffida dal tentare di incastrarlo. Inoltre la moglie del famoso avvocato suo amico Matt Gavin (Chazz Palminteri), Trina (Linda Fiorentino), nota psicologa, compare in una videocassetta hard recuperata semi-bruciata nel camino della villa di Medford. Un vicino di casa con telescopio riconosce sia l’amica di Edwards, che in realtà è una prostituta, Patrice Jacinto (Angie Everhart), sia Trina, che per le sue apprezzate imprese assumeva il nome d’arte di Jade. Quindi un’automobile investe appositamente Patrice mentre si reca ad un appuntamento con Corelli per fornire rivelazioni su Jade; inseguendo l’automobile investitrice, i cui vetri fumò impediscono di vedere chi guida, David viene attirato sul molo e fatto cadere in mare. L’automobile, identica a quella di Trina, risulta però rubata. Poi costei invita Corelli a casa e, mentre tenta di sedurlo, gli confida che teme per la sua vita. Ma Corelli la respinge e lei va a consolarsi con uno dei numerosi amanti, mentre a casa sua due individui frugano tra le carte di Matt, che intanto va da Corelli convinto che la moglie lo abbia tradito anche con lui. Ma il detective lo convince ad andare da Trina che, rientrata, è stata frattanto braccata da uno dei due killer mascherati, mentre l’altro affronta l’avvocato e il poliziotto sopraggiunti…
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“Ci si diverte solo con tre cose nella vita: denaro, sesso e potere”. “Due su tre mi bastano”. Lo scambio di battute tra Matt e David, avviene in un momento cruciale del film, nello spogliatoio del Golden Bay Club, il cui logo richiama direttamente la soluzione dell’enigma. David Corelli, dalla sua risposta elude il denaro, visto che i suoi due obiettivi sono quelli di riallacciare la relazione con Trina e di portare a termine l’indagine in corso. Nell’economia delle scelte di Friedkin, l’indagine poliziesca, per David, diventa il feticcio necessario per fare carriera e al contempo per ristabilire il legame amoroso con Trina.

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Cinicamente, il regista mostra il fallimento, visto che David non riesce né a risolvere compiutamente l’indagine né a (re)intraprendere la relazione con la donna amata. Ecco dunque che il ruolo del feticco assolve il suo compito: quello di una adorazione irragionevole verso qualcosa che non è risolutivo, ma il cui possesso determina per l’individuo la percezione di una sicurezza raggiunta. Di quanto l’intento di Friedkin sia iconoclasta nei confronti del culto degli oggetti e dei simboli estetici lo testimonia la presenza nel film di Angie Everhart. Nel 1995 è lei la modella più pagata al mondo e – come nei casi precedenti di sue colleghe – la sua partecipazione al film dovrebbe essere valorizzata e finalizzata all’esaltazione delle doti estetiche del suo corpo.

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William Friedkin invece, non solo distrugge scientificamente il corpo di Angie Everhart/Patrice Jacinto, mostrandone il volto tumefatto dopo la cattura, facendola schiacciare da un’automobile e infine mostrandone il corpo nudo e ferito, con un’inquadratura a plongée sul tavolo autoptico, ma insiste volutamente nell’inquadrare, in primo piano i segni delle percosse subite durante l’interrogatorio (la stessa inquadratura viene proposta da diversi punti di vista, attraverso piani sempre più ravvicinati mediante i quali, la bellezza della donna viene letteralmente cancellata) e allo stesso modo ne mostra il viso ricoperto di sangue, dopo che esso è stato schiacciato dai pneumatici di un’automobile. La distruzione dell’icona glamour coincide dunque con la distruzione del feticcio della moda. La figura di Patrice Jacinto racchiude dentro di sé la prostituta e la lesbica, ed è dunque una vera e propria destrutturazione dell’immaginario erotico maschile, il quale, da sempre, riserva alla modella il ruolo di donna ricca e irraggiungibile, mentre Patrice è povera (lavora come parrucchiera a Chinatown) ed è raggiungibilissima (“Mi hanno offerto cinquecento dollari a botta, ma io di solito scopo anche per molto meno”).

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Il contraltare di Patrice è rappresentato da Jade/Trina Gavin la quale – nonostante sia la moglie di uno degli avvocati più prestigiosi di San Francisco con cui ha un rapporto quasi platonico – insoddisfatta e umiliata delle prestazioni sessuali del marito (piange durante l’amplesso in camera) e obnubilata dal connubio denaro/piacere, preferisce abbandonarsi ad un erotismo disordinato e perverso. La sua, infatti, è una scelta consapevole (come ricorda a David: “Loro non mi hanno fatto niente, sceglievo io, mi piaceva, avevo io il controllo…”), per compiere la quale è necessario tramutarsi in oggetto. Jade è un oggetto di piacere, di cui ogni uomo può disporre a propria discrezione, un oggetto/corpo penetrabile e plasmabile a seconda delle esigenze in cui nessun orifizio è negato.

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Non a caso, lo spettatore viene a conoscenza dell’identità di Jade attraverso un progressivo ricomponimento dei pezzi: prima i suoi peli pubici, poi la descrizione orale di Patrice, poi la sua immagine ripresa nel video, e infine nel suo ruolo di moglie apparentemente fedele ma sotto un’altra identità, quella di Trina. Ma è la stessa Jade, ad ammettere il suo essere divenuta oggetto nel momento in cui riconosce nell’immagine riflessa nello specchio il feticcio dell’ “uomo” di potere cui ella è diventata: durante l’amplesso feticista con lo sconosciuto, l’immagine dello specchio riflette il suo viso nascosto dentro una calza di nylon e, improvvisamente, ella prende consapevolezza del suo stato di annullamento, si leva la maschera/calza, e allontana brutalmente l’uomo che la sta possedendo. Il suo è un tentativo di ritorno alla normalità e quindi all’essere donna, fatto fuori tempo massimo, perchè il passato non si può cancellare e la trasformazione in feticcio necessita la componente simbolica di diventare oggetto di culto per la venerazione degli altri attraverso il rituale (qui il sesso) di una religione neo-pagana. In quest’ottica, va letta l’ultima battuta del film, che risuona come una vera e propria condanna per Trina, e che viene pronunciata proprio dal marito fedifrago: “Fammi un favore Trina…la prossima volta che facciamo l’amore presentami a Jade”.

 di Fabrizio Fogliato

 

 

 

 

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