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Jade

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JADE (1995) di William Friedkin

Fetish of evidence: i feticci della società dell’immagine.

La prima metà degli anni ’90 segna l’esplosione cinematografica del thriller-erotico, e contemporaneamente l’affermazione multimiliardaria dello sceneggiatore Joe Eszterhas, il quale con i suoi script (Basic Instinct su tutti) costruisce un breve filone di successo, capace nel giro di pochi anni di dare vita ad una serie di epigoni minori (dei quali il migliore rimane The Last Seduction di John Dahl (1993)). L’autore delle sceneggiature di Basic Instinct (di Paul Verhoeven, 1992), Sliver (di Philip Noyce, 1993), e Jade (di William Friedkin, 1995), è un abile manipolatore e un furbo venditore di se stesso che, attraverso una serie di script scadenti e velleitari, riesce a far credere a Hollywood di essere il nuovo Re Mida del cinema. Di quanto esiguo, sia il contributo del suo lavoro per la riuscita o meno di un film, è dimostrato dal fatto che l’unico dei tre succitati, Sliver (che mortifica il romanzo omonimo di Ira Levin), girato non da un “autore” – ma da un abile mestierante come Philip Noyce – risulta debole, improbabile e lacunoso, anche sul versante del cotè erotico – a differenza degli altri due in cui la sapiente mano di Verhoeven in un caso e quella di Friedkin nell’altro riescono a sorvolare su dialoghi risibili e scontati, per costruire tutto l’impatto dei due film solo ed esclusivamente attraverso la regia e la messa in scena.