L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

In una villa solitaria, posta in un parco a qualche chilometro di distanza dall’abitato, vivono la signora Vera (Lisa Gastoni), suo marito (Mel Ferrer) da tempo immobilizzato su di una sedia a rotelle e la dodicenne Simona (Karin Trentephol). Mentre la madre cerca evasioni con gli uomini dei dintorni e in casa passa il tempo a bisticciare con il marito, la ragazzina trascorre molte ore nel parco o nascosta in casa a spiare i genitori. Un giorno Simona si imbatte in Federico (Howard Ross [Renato Rossini]), un giovane ferito e inseguito perché ha ucciso una bambina dopo averla violentata. La piccola nasconde il fuggitivo, ma ben presto la madre si accorge della presenza dell’uomo e intreccia con lui una relazione. Vera, avendo capito di chi si tratta, ha la ben precisa intenzione di servirsi di Federico per eliminare il marito. Simona, maturata in fretta, desidera un figlio da Federico. La situazione precipita, anche perché i sospetti della polizia e dei “vigilanti” si stanno accentrando sulla villa.Una volta raccontata la disillusione generazionale (Càlamo) e la destrutturazione dello Stato (Italia: ultimo: atto?), le attenzioni di Massimo Pirri si rivolgono al nucleo fondante della società: la famiglia. L’Immoralità è un’onda anomala di immagini desacralizzanti, che travolge e annienta i protagonisti del film, con un furore e una poesia senza precedenti. Avulso da ogni modello, imperniato sull’ossimoro come idea di sceneggiatura e diretto sul limite della follia, L’Immoralità è un gioco al massacro senza regole e senza via di fuga, né per i personaggi né per lo sguardo dello spettatore. Pirri dirige un Kammerspiel fiabesco che si svolge (quasi) tutto in una villa e nel parco adiacente, descrivendo un universo concentrazionario di cinismo, perversione e pietismo. Guardando il film si palpa materialmente la furia nichilista che anima il regista e si rimane sbalorditi dalla coerenza e dalla sincerità con cui questo autore, non allineato, centrifuga valori e disvalori, moralità e moralismo, orribile e meraviglioso. Sempre in bilico sul crinale dell’ambiguità – e giostrato con un ritmo lento e avvolgente che dilata a dismisura i tempi del montaggio – il film descrive una spirale di odio/amore destinata a chiudersi in un cul de sac caustico e irriverente.

Il film è ambientato in un luogo che, anche storicamente, si presenta come particolarmente significativo. Villa Necchi alla Portalupa, situata nel comune di Gambalò (PV) risale al 1800 nella sua struttura originale ma è negli anni ‘30 del novecento che la tenuta viene rilevata da Vittorio Necchi, colui che nel secondo dopoguerra fu fondatore delle industrie “Necchi” di Pavia sorte per produrre l’omonima macchina da cucire. La villa diventa dunque luogo della tradizione borghese che ha spalleggiato e incentivato l’ascesa del fascismo. Un ideologia che nella visione di Massimo Pirri continua a permeare il ricco Nord Industriale. Inoltre Villa Necchi, negli anni del fascismo è un importante tenuta di caccia con strutture per l’allevamento dei fagiani e delle anitre selvatiche ed é meta di visite di noti politici, militari e dei componenti di casa Savoia. La presenza del parco e dell’ampia riserva di caccia diventano, dunque, perfettamente funzionali alla caccia all’uomo di stampo fiabesco immaginata dagli secneggiatori Massimo Pirri, Morando Morandini jr e Federico Tofi. L’immoralità si sviluppa agendo sulle dinamiche proppiane della fiaba con cui Pirri – proponendole in chiave opposta rispetto a quelle teorizzate dallo studioso russo – descrive un microcosmo sociale (che però è evidente allegoria di un macrocosmo) senza eroi, vittime o carnefici – perché tutti sono contemporaneamente tutto e perché ognuno è carnefice (consapevole) di se stesso. Le azioni che ogni personaggio compie sono finalizzate – solo ed esclusivamente – ad un tornaconto personale che, seppur bieco e immorale, appare come l’unico scopo da perseguire ed è necessario per sopravvivere. Film improponibile e osceno (secondo l’accezione del teatro greco), mostra, con disarmante immediatezza e disincanto poetico, ciò che qualunque altro regista non mostrerebbe (il rapporto pedofilo) – declinato sulle coordinate della competizione erotico-sessuale tra madre e figlia. Costruito sulla particolare dinamica secondo cui il controcampo è sempre rappresentato da un intangibile fuori-campo, L’Immoralità mette in scena personaggi ibridi portatori di un’indole che è contemporaneamente orribile e meravigliosa. Lucida appare la disamina di Davide Pulici: “Il bestiario in effetti repelle: da Franchetti, viscido commissario di polizia che va dove lo porta il cazzo, alla ciurmaglia fascista e isterica dei giustizieri guidati da Wolfango Soldati. In una simile temperie (im)morale, l’assassino pedofilo rischia di essere il meno stomachevole di tutti; e ci si scopre addirittura a provarne pietà, vedendolo frastornato e afasico davanti alle nudità di Simona.[1]

Se da un lato l’atmosfera fiabesca serve per ammorbidire la grevità dell’assunto e per stemperare pericolose ambiguità ideologiche, dall’altro é finalizzata alla creazione di uno “spazio fantastico” in grado sia di rendere credibili (e verosimili) gli eccessi, sia di catturare una serie di suggestioni visive di chiara matrice espressionista come l’utilizzo delle ombre; o di ispirazione surrealista come la soggettiva di Vera durante il dialogo finale con Simona o il richiamo agli orologi del padre che rimandano alla “persistenza del tempo”. Massimo Pirri reinterpreta l’estetica espressionista in chiave moderna proponendo, almeno, una sequenza in cui orribile e meraviglioso non solo convivono attraverso le ombre ma trovano persino una loro dimensione poetica e infantile. L’estrazione del proiettile da parte di Federico – utilizzando candela e coltello – vive attraverso la sua proiezione: a Simona – invitata dall’uomo a voltarsi e a non guardare – è negata la realtà dell’azione ma è proposta la sua immagine attraverso le ombre sul muro. Questa immagine che sembra uscita dalla “lanterna magica” del pre-cinema è accompagnata dalla nenia che Federico canta per farsi coraggio, restituendo all’assunto la dimensione “fantastica” del cinema. Paradossalmente, però, ai toni fiabeschi della scrittura corrisponde un punto di vista gelido e agghiacciante della ripresa. Ribaltamento di prospettive quindi, in contrasto con le convenzioni sociali, riproposto attraverso una struttura fiabesca dove le funzioni proppiane sono sempre doppie e mai determinate.

Una fiaba in cui non mancano elementi magici come la tartaruga dipinta di giallo (Simona: “L’ho dipinta per farla diversa, è la mia preferita”), che diventa contemporaneamente simbolo della diversità/emancipazione di Simona e metafora dell’identificazione fanciullesca con il mondo animale. Il bosco, a sua volta assume la doppia valenza di covo (per il pedofilo) e di rifugio (per Simona), acquistando il connotato magico di dimora dove “la bella e la bestia”, possono convivere felicemente. In questa dimensione sospesa risulta, dunque, accettabile il capovolgimento delle prospettive operate da Massimo Pirri che trasforma il cattivo, l’orco e l’amorale assassino-pedofilo nel metro-campione con cui giudicare la moralità di chi lo circonda, con il risultato di far risultare questo personaggio (pre-concettualmente repellente) come l’unico il cui comportamento é “comprensibile” in quanto coerente con il suo impulso incontrollabile. Parallelamente l’azzardo più grande operato da Pirri e dai suoi collaboratori é quello di tradurre l’apparente purezza e virginità di Simona nell’esatto contrario definendo l’undicenne come un essere crudele, anaffettivo e dai tratti demoniaci che come una sanguisuga si attacca a Federico – così come farebbe con chiunque altro-solo per il gusto di annientarlo.

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese é il lascito degli adulti alle nuove generazioni. Simona, agisce da donna, si esprime in modo asincrono rispetto alla sua età, e si produce in comportamenti illogici (rispetto all’infanzia) solo perché replica immaturamente le relazioni e i gesti degli adulti che la circondano. Non è casuale che il sordido rapporto di gelosia che si innesca con la madre sia declinato sul registro sessuale: la competizione é quella tra una femminilità sul punto di sbocciare (Simona) e un’altra che sta appassendo (Vera). Il quadro familiare si conclude con la presenza-assenza del padre/marito il quale non solo é talmente insignificante da essere privato di un identità (non ha nome), ma é costretto dalla malattia a vivere sul crinale della morte e a compensare la sua impotenza sessuale con il feticismo per le armi. Un innocente quindi che – agli occhi di Pirri – diventa colpevole per manifesta inferiorità. La famiglia de L’Immoralità é inserita in un contesto sociale che ne é il perfetto ricettacolo. La provincia del Nord Industriale – qui Vigevano – é rappresentata come un contenitore deformato dagli umori più biechi e fascistoidi manifestati da una cozzaglia informe di individui che tesse rapporti relazionali basati solo, ed esclusivamente, sul livore, sull’invidia e il sopruso. Insomma qualcosa che francamente, si fa fatica a definire come società. Quello de L’immoralità è un contesto definito sui contorni di una paura strisciante verso tutto ciò che è diverso, in cui il nemico proviene dall’interno e diventa il pretesto per dare libero sfogo ad un’idea di giustizia sommaria (e privata) che maschera una incapacità endemica di affrontare il confronto e di mettersi in discussione.

[CONTINUA] di Fabrizio Fogliato

[1] Davide Pulici, L’Immoralità in Maladolescenza, Nocturno book, n.7

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