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L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Quarta

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Simona, vede usurpato il suo ruolo di “amante del mostro” e agisce di conseguenza: ingaggia con la madre un duello estremo che la porta persino a concedersi sessualmente ad un attonito Federico. Nel bagno – nascosto dalla furia dei rangers che vogliono ucciderlo – egli subisce la provocazione di Simona, che si sdraia nuda sul tappeto dicendogli: “Allora cosa aspetti…o hai paura di Vera”. In una scena che  non lascia niente all’immaginazione – ma che appare incredibilmente pura – Federico possiede Simona rinnegando (o trasformando) quel ruolo di “mostro” finora assunto per diventare un ridicolo (e impossibile) amante affettuoso e premuroso. Simona continua a studiare le mosse della madre e si ritrova a spiare l’amplesso tra lei e Federico. Sentendosi tradita, piena di astio e rancore, si reca al commissariato per denunciare entrambi. L’uomo di legge ottiene da Vera la possibilità di arrestare Federico, e per non denunciarla per complicità, baratta con lei un rapporto sessuale: “Ci si può mettere d’accordo su qualunque cosa e a qualunque prezzo”.

Nel finale, Simona scopre il suicidio del padre, prende una pistola e uccide a freddo il commissario e la madre mentre sono a letto, per poi  liberare Federico e allontanarsi con lui mano nella mano. Il lieto fine fiabesco sembra trionfare, non attraverso la consueta uccisione del cattivo, bensì tramite la sua “trasformazione”, e non a caso è lo stesso Federico che, mentre si allontana dalla villa con Simona, dice: “Arriva sempre il momento di partire. Molto più in là del parco, dove l’erba cambia colore e incominciano le strade, quelle grandi. Prenderemo quelle”. Ma l’uomo – ignaro della sorte riservatogli da Simona – non coglie l’ironia glaciale con cui la bambina gli risponde: “È là che mi aspettano… quelli della mia età”.Federico entra nella grande voliera e scherza con la bambina/donna che, silenziosa, mentre lui si arrampica, prende la mira e lo uccide facendolo precipitare al suolo come se fosse un uccellino.

Massimo Pirri, non ha mai concepito il lieto fine per il suo cinema, né tanto meno ha cercato una conciliazione con il pubblico ma ha sempre messo in pratica (conoscendola o no non ha importanza) la posizione di Theodor Adorno sull’happy ending cinematografico:Il cinema del lieto fine non prende posizione sul mondo, non pensa alle vittime della storia, non fa altro che generare un mondo illusorio sul quale acquietarsi.[1]; questo perché il suo cinema vuole essere disturbante, trasversale ai generi e alle classificazioni.

La Vigevano de L’Immoralitàè archetipo di quella provincia opulenta, bigotta e ostinatamente padronale che nel Nord industrializzato ha lentamente sostituito i valori di solidarietà, fratellanza e rispetto reciproco con una strisciante ed espandente immoralità latente fatta di individualismo, sfruttamento e silenzio. La “cultura del silenzio” che domina il film di Pirri appare pertanto congeniale alla metafora della grande voliera vuota, dove gli uccelli in gabbia sono i personaggi stessi, rappresentativi di una provincia al collasso in cui il “mostro” diventa normale e dove i “normali” nascondono la natura di “mostri”. Chiusi nelle loro case (la villa), spaventati dal prossimo e dal diverso, educati dalla tv (che da b/n passa a colori), schiavi del culto del denaro, gli abitanti della provincia coltivano, inconsciamente, il morbo dell’immoralità, tramandandolo di madre in figlia come arma di difesa verso un mondo che non riconoscono e da cui vogliono staccarsi con qualunque mezzo, consapevoli del fatto che sono loro stessi a crearlo.

La grande voliera diventa quindi allegoria di un mondo – sostituivo di quello contadino – basato sul profitto e sulla sopraffazione (anche all’interno della famiglia stessa), teso, irrimediabilmente, all’accumulo e all’ostentazione della ricchezza – elemento necessario a determinare lo status sociale. L’illusione eterna di voler “esser libera” (come dice Vera) non esiste, è un alito di vento che spazza via la felicità per far posto al rancore e all’invidia: i personaggi de L’Immoralitànon sorridono mai. Quello del film è uno spaccato dove il nemico interno diventa proiezione esterna del diverso. L’immoralità è un cancro, le cui metastasi nascono nel secondo dopoguerra, ma è con la fine degli anni ’60 e con l’arrivo del benessere successivo che la malattia sedimenta nel corpo di un Italia che ha bruciato le potenzialità di diventare civile, per cominciare ad essere quel paese mancato, abbruttito e degenerato che L’Immoralitàe il suo regista descrivono con lucida e inquietante profezia.

[1]Alessandro Alfieri, Benjamin, Adorno e la contemporaneità, in CineCritica n.50/51, Aprile-Settembre 2008, pag.64

di Fabrizio Fogliato

L’IMMORALITA ’(1978)

Regia/Director: Massimo Pirri
Soggetto/Subject: Massimo Pirri, Federico Tofi, Morando Morandini
Sceneggiatura/Screenplay: Massimo Pirri, Federico Tofi, Morando Morandini
Interpreti/Actors: Lisa Gastoni (Vera), Karin Trentephol (Simona, figlia di Vera), Renato Rossini [Howard Ross] (Federico Anselmi), Mel Ferrer (marito di Vera), Andrea Franchetti (tenente di polizia), Wolfango Soldati (Antonio, un giustiziere), Francesco Ferri (amico), Deborah Lupo, Ida Meda
Fotografia/Photography: Riccardo Pallottini
Musica/Music: Ennio Morricone
Costumi/Costume Design: Sergio Palmieri
Scene/Scene Design: Sergio Palmieri
Montaggio/Editing: Cleofe Conversi
Suono/Sound: Piergiuseppe Ghezzi
Produzione/Production: Ducale Film, Una Cinecooperativa
Distribuzione/Distribution: Una Cinecooperativa
censura: 72568 del 08-11-1978
Altri titoli: Perché Simona

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Terza

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Se in Grazie Zia il rifiuto del conformismo borghese e dei suoi stantii riti familiari passa attraverso la finzione di Alvise che si auto-dichiara paraplegico per cercare la sua nemesi – vedendo nell’eutanasia l’unica forma di “amore possibile” e l’unica risposta al suo desiderio di non appartenenza di classe – ne L’immoralità Simona non solo vuole vivere ma desidera – come dichiara lei stessa a fine film – raggiungere gli altri come lei. Dieci anni dopo il 1968 – in una società irrimediabilmente compromessa e corrotta – l’unica possibilità di raggiungere l’autonomia uscendo/sfuggendo dal conformismo é l’eliminazione sistematica di tutti coloro che, tradendo, rappresentano un ostacolo insormontabile. Uomini e donne che meritano di essere uccisi perché colpevoli di aver diffuso e alimentato il morbo dell’immoralità.

Immoralità che non esita a calpestare i sentimenti, e a negarli apertamente e cinicamente, con l’obiettivo, di ogni individuo, di dare un’immagine diversa da ciò che è, declinata secondo un “ideale” massificato. Esemplare a tal proposito appare il rapporto tra marito e moglie, mellifluo e fintamente affettuoso, percorso da improvvise scosse emotive animate da un cinismo barbaro e volgare. Quando Vera chiede al marito la firma di assegni in bianco, gli dice: “Pensa, con un bel colpo secco non ci saresti più. Io sarei ricca e libera e tu rosicchiato dai vermi”. L’Immoralità dunque, non solo ribalta le prerogative strutturali della fiaba, ma ne capovolge anche le aspettative emozionali: la fiaba, infatti, è al contempo, un racconto, sia ammonitore che finalizzato ad un insegnamento (o educazione), mentre il film costringe lo spettatore ad una visione sofferente ed epilettica, reiterando continuamente (e insistentemente) gli aspetti più deteriori e insani dei personaggi.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Seconda

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Secondo “La morfologia della fiaba” di Vladimir Y. Propp, la fiaba deve iniziare con una situazione di partenza in seguito alla quale vengono elencati i membri della famiglia oppure viene presentato il futuro eroe secondo nome e condizione. L’immoralità invece, inizia in maniera opposta e antitetica presentando il cattivo in maniera simbolica e provocatoria. Il film si apre con una inquadratura dal basso che mostra un uomo con in braccio una bambina morta, un’immagine che già nella sua conformazione è, ontologicamente, pietistica. Quando quello stesso uomo, prima di allontanarsi velocemente con il furgone, però, seppellisce frettolosamente la bambina – e l’inquadratura mostra che ha le mutandine abbassate alle caviglie – ecco che quell’immagine primaria – che sembrava proporre una figura “buona” – diventa improvvisamente trasfigurazione di un “mostro”. Successivamente avviene la presentazione (per gradi) del nucleo familiare, ma il risultato è opposto rispetto alle volontà proppiane: quella proposta da Pirri è una visione spettrale della famiglia, che nulla a che spartire con l’immagine della fiaba. Il padre è costretto su una sedia a rotelle e vive in un mondo a parte situato ai piani alti della villa, la moglie Vera vive intenta a mantenere la tonicità del proprio corpo inteso da lei come lasciapassare sociale, mentre Simona è un misto di freddezza ingenuità sorrette da un animo torbido.

Il professore é una figura inesistente – per tutti tranne che per Simona – come sottolineato più volte dai personaggi del film. Per la bambina invece rappresenta sia il rifugio (ove cercare protezione) sia la conoscenza. E’ il padre che, all’inizio del film, fa le due affermazioni che guideranno l’agire di Simona. La prima é: “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. La seconda: “Per te Simona, il bosco è un luogo incantato…magico. Tu non ti accorgi di nulla di ciò che ti accade intorno, le lotte i conflitti, le tragedie. Il forte uccide il malato… o il più debole. Per sopravvivere…”. Il legame che intercorre tra padre e figlia – per quanto apparentemente labile e casuale – si rivela in realtà essere persino indissolubile: lo dimostra il fatto che la furia omicida e asettica della bambina si scateni alla vista del padre morto suicida. Sul tavolo di fronte a sé egli ha lasciato i due oggetti che lo rappresentano per tramandarli alla figlia: l’orologio che certifica che, ormai, non c’é più tempo e la pistola che indica la presa di coscienza e che é il momento delle decisioni irrevocabili.

L’IMMORALITÀ (1978) di Massimo Pirri – Parte Prima

L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

In una villa solitaria, posta in un parco a qualche chilometro di distanza dall’abitato, vivono la signora Vera (Lisa Gastoni), suo marito (Mel Ferrer) da tempo immobilizzato su di una sedia a rotelle e la dodicenne Simona (Karin Trentephol). Mentre la madre cerca evasioni con gli uomini dei dintorni e in casa passa il tempo a bisticciare con il marito, la ragazzina trascorre molte ore nel parco o nascosta in casa a spiare i genitori. Un giorno Simona si imbatte in Federico (Howard Ross [Renato Rossini]), un giovane ferito e inseguito perché ha ucciso una bambina dopo averla violentata. La piccola nasconde il fuggitivo, ma ben presto la madre si accorge della presenza dell’uomo e intreccia con lui una relazione. Vera, avendo capito di chi si tratta, ha la ben precisa intenzione di servirsi di Federico per eliminare il marito. Simona, maturata in fretta, desidera un figlio da Federico. La situazione precipita, anche perché i sospetti della polizia e dei “vigilanti” si stanno accentrando sulla villa.Una volta raccontata la disillusione generazionale (Càlamo) e la destrutturazione dello Stato (Italia: ultimo: atto?), le attenzioni di Massimo Pirri si rivolgono al nucleo fondante della società: la famiglia. L’Immoralità è un’onda anomala di immagini desacralizzanti, che travolge e annienta i protagonisti del film, con un furore e una poesia senza precedenti. Avulso da ogni modello, imperniato sull’ossimoro come idea di sceneggiatura e diretto sul limite della follia, L’Immoralità è un gioco al massacro senza regole e senza via di fuga, né per i personaggi né per lo sguardo dello spettatore. Pirri dirige un Kammerspiel fiabesco che si svolge (quasi) tutto in una villa e nel parco adiacente, descrivendo un universo concentrazionario di cinismo, perversione e pietismo. Guardando il film si palpa materialmente la furia nichilista che anima il regista e si rimane sbalorditi dalla coerenza e dalla sincerità con cui questo autore, non allineato, centrifuga valori e disvalori, moralità e moralismo, orribile e meraviglioso. Sempre in bilico sul crinale dell’ambiguità – e giostrato con un ritmo lento e avvolgente che dilata a dismisura i tempi del montaggio – il film descrive una spirale di odio/amore destinata a chiudersi in un cul de sac caustico e irriverente.

I PROSSENETI (1976) di Brunello Rondi

Un funerale collettivo, in cui tutti sono colpevoli…e nessuno è colpevole.

Prosseneta: Voce colta di origine greca; prosseneta significava in origine “aiutatore degli ospiti”, consigliere, guida, intermediario (nell’antica Grecia il pròsseno era il cittadino incaricato della protezione degli stranieri), mentre oggi sta per ruffiano e mezzano. I prosseneti, uscito nelle sale il 28 Aprile 1976 visibile oggi, solo grazie al passaggio in TV della durata di 90′ 32” (ma registrato in visto censura come 105′), è il decimo film da regista di Brunello Rondi: “Velleitario tentativo di denunciare la mercificazione di cui la donna è oggetto nella nostra società” (Centro Cattolico Cinematografico). Così il CCC liquidava questo film (centrando comunque appieno le intenzioni del regista) non tenendo in considerazione però che la denuncia della mercificazione del corpo femminile è solo una parte di quest’opera costruita narrativamente e figurativamente come una sorta di kemmerspiel esistenziale.

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L’unità di luogo, cioè la villa e lo spazio a bordo piscina in cui si svolgono gran parte delle azioni non potrebbero esistere se non attraverso l’astrazione di un non-luogo immaginario, in cui agiscono i vari personaggi. Il non-luogo prende forma attraverso le stanze della casa-teatro, raccontate come spazi scenici in cui ogni cliente replica (con tanto di maschere e scenografie) stati d’animo turbati e passaggi vitali colmi di rimpianto e mai riconciliati: in tutto ciò la donna assolve all’unico ruolo possibile (secondo la società dei consumi), quello di un essere taumaturgo in grado – con la sua sola presenza – di guarire, o meglio, temporaneamente alleviare le sofferenze di uomini psicolabili e insicuri. È la stessa contessa Gilda a dichiarare le intenzioni dell’agire suo e di suo marito: “Le nostre camere non devono più sembrare camere normali ma… teatri, quadri di illusione…”, così come più tardi sarà un cliente che, rivolto alla prostituta Odile, dirà: “E il mio teatrino…tu devi soltanto obbedire e basta”.