L’innocenza perduta nell’odio immorale della famiglia borghese e la tartaruga dipinta di giallo.

Se in Grazie Zia il rifiuto del conformismo borghese e dei suoi stantii riti familiari passa attraverso la finzione di Alvise che si auto-dichiara paraplegico per cercare la sua nemesi – vedendo nell’eutanasia l’unica forma di “amore possibile” e l’unica risposta al suo desiderio di non appartenenza di classe – ne L’immoralità Simona non solo vuole vivere ma desidera – come dichiara lei stessa a fine film – raggiungere gli altri come lei. Dieci anni dopo il 1968 – in una società irrimediabilmente compromessa e corrotta – l’unica possibilità di raggiungere l’autonomia uscendo/sfuggendo dal conformismo é l’eliminazione sistematica di tutti coloro che, tradendo, rappresentano un ostacolo insormontabile. Uomini e donne che meritano di essere uccisi perché colpevoli di aver diffuso e alimentato il morbo dell’immoralità.

Immoralità che non esita a calpestare i sentimenti, e a negarli apertamente e cinicamente, con l’obiettivo, di ogni individuo, di dare un’immagine diversa da ciò che è, declinata secondo un “ideale” massificato. Esemplare a tal proposito appare il rapporto tra marito e moglie, mellifluo e fintamente affettuoso, percorso da improvvise scosse emotive animate da un cinismo barbaro e volgare. Quando Vera chiede al marito la firma di assegni in bianco, gli dice: “Pensa, con un bel colpo secco non ci saresti più. Io sarei ricca e libera e tu rosicchiato dai vermi”. L’Immoralità dunque, non solo ribalta le prerogative strutturali della fiaba, ma ne capovolge anche le aspettative emozionali: la fiaba, infatti, è al contempo, un racconto, sia ammonitore che finalizzato ad un insegnamento (o educazione), mentre il film costringe lo spettatore ad una visione sofferente ed epilettica, reiterando continuamente (e insistentemente) gli aspetti più deteriori e insani dei personaggi.

Il culmine di questa dialettica – asincrona e antiemozionale – lo si raggiunge nella scena spartiacque (cioè prima della “trasformazione”) del film. Sulle scale della villa – il luogo di passaggio che congiunge il piano inferiore (regno della madre) con quelli superiori (frequentati dal padre e da Simona) – avviene l’incontro-scontro tra Vera e Simona, il quale rivela la specularità dei caratteri ma, contrariamente alle attese, anche la spietatezza glaciale e amorale della bambina (che non a caso si posiziona sempre un gradino sopra la madre). Pirri dirige la scena concentrando in essa un senso di oppressione – reso magnificamente dalle costanti inquadrature dall’alto che progressivamente si avvicinano ai volti delle protagoniste – restringendo il loro spazio di movimento e piegandone ogni velleità di fuga. Ma è il dialogo stesso che intercorre tra le due figure femminili ad essere esplicativo di una condizione di degrado sentimentale (in realtà è solo Vera a parlare, mentre Simona osserva glaciale la decadenza materna). “Tho! Simona; madre e figlia che rientrano a casa di nascosto come due ladre. Cos’è non ti piace più il tuo letto? Già…sei cresciuta; anche io ho cominciato presto. Tu non mi sopporti più vero? Senti un po’…perché non mi parli di qualche tuo segreto”.

Simona si alza, si appoggia alla parete mentre Vera la incalza: “Come al solito…non vuoi che ti sia amica. Meglio così. Io odio fare l’amica con i bambini. I bambini non hanno nulla che mi piace, sono spietati. Crescono, crescono e poi ti tolgono di mezzo. Pensare che fino a qualche tempo prima li tenevi in braccio, ridevano, scherzavano, ti toccavano i seni…”. A questo punto Simona sale le scale e si ferma sulla seconda rampa e il confronto avviene sulla diagonale di sguardi tra madre e figlia, con la bambina che domina dall’alto la madre. Vera: “Di un po’..tu ti masturbi? Su, a me puoi dirlo e poi è piacevole”. Sullo sfondo si sente il rumore della carrozzina elettrica del padre che corre sul pavimento: “Eccolo là, non esce mai ma è dappertutto, è sempre presente, un incubo, un’ossessione, non ne posso più”. Sul primo piano inespressivo di Simona, nel fuori campo, è Vera a trarre le conclusioni del fallimento: “Che bel trio che siamo, una mantenuta di provincia, un inutile paralitico e tu [prendendo Simona per un braccio], tu …non riesco ancora a definirti. E’ la prima volta che parlo con te di tutto questo e a te…a te non te ne frega un bel niente vero? Io non sono cattiva, ma tu mi giudichi sempre con quegli occhi freddi. Io ho solo paura”. Vera si avvicina a Simona, si siede accanto a lei e la stringe a sé dicendo: “Io non ti ho mai dato niente…perché non so come dare. Ma in compenso non ti ho fregato. Perché non ti ho mai fatto da mammina. E ti pare poco? Io e te siamo alla pari”.

Mentre Vera si sdraia sulle scale e continua a parlare, Simona si allontana furtivamente, lasciando la madre sola con i suoi deliri e condannandola alla solitudine fisica ed emotiva. La scena è dunque uno spartiacque, perché – oltre a confutare la chiosa di Vera sulla parità comportamentale definisce il momento in cui, Simona assume su di sé il carattere di “donna”, lasciando invece, alla madre il suo essere “bambina”. Avviene dunque la trasformazione teorizzata da Propp, secondo cui l’eroe assume un nuovo aspetto, indossa un vestito magico, una nuova acconciatura e subito risplende di una nuova bellezza. Simona, infatti, in una scena successiva si presenta intenta a diventare donna: seduta al tavolo si trucca meticolosamente e ruba letteralmente la scena alla madre “mammina”.

Gli elementi fiabeschi scandiscono, l’immoralità come un metronomo che detta i tempi della scena: se nella ripresa soggettiva – quella del rimprovero rivolto da Vera a Simona – si manifestano attraverso la “magia” dell’acconciatura del trucco e del vestito da donna nello scontro terminale tra Vera e il marito assumono i termini della minaccia. Quando l’uomo, rabbioso e disperato, si rivolge alla moglie così: “Ti spacco il cuore …con questa…vedi? [prende un pallottola] E’ d’argento…così si uccidono le streghe”. Vera si presenta in tutto e per tutto, effettivamente, come una strega: colei che si manifesta attraverso l’eleganza, la seduzione e l’intelligenza per mascherare degrado, pochezza e ignoranza. Quest’ultima – che l’ha resa “mantenuta di provincia” – ben presto si evidenzia attraverso il sentimento streghesco per eccellenza: la gelosia. Vera, resasi conto della sconfitta (manifestata attraverso l’unico schiaffo dato a Simona) da questo momento, concentra le sue attenzioni su Federico (quasi come una sorta di rivalsa nei confronti della figlia), prima facendosi penetrare con una candela nel capanno di caccia (“Mi è piaciuto, perché l’hai fatto con odio”) e poi istigando e ricattando l’uomo affinché uccida il marito.

[CONTINUA] di Fabrizio Fogliato

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