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MS. 45 (L’angelo della vendetta, 1981) di Abel Ferrara – Capitolo 11

The Funhouse e metamorfosi: carnevale, ultimo atto

Il primo segno di cambiamento è mostrato, fuggevolmente, attraverso l’inquadratura degli stivali ai piedi di Thana una volta uscita dall’ufficio di Albert; il primo omicidio “cercato” è quello del fotografo di moda, ripreso da Ferrara con una serie di stacchi velocissimi e brutali coincidenti con i colpi sparati dalla donna: pistola tesa davanti a lei, impugnata con due mani e sulla stessa direttrice della bocca, come a sancire la sovrapposizione tra proiettili e parole.

MS. 45 (L’angelo della vendetta, 1981) di Abel Ferrara – Capitolo 8

Repulsion vs Ms.45: gli interstizi del Male

In Repulsion (id., 1965) di Roman Polanski il percorso di Carol Ledoux (Catherine Deneuve) non è dissimile da quello di Thana: anche Carol è straniera (proviene dal Belgio), così come alcune scene e molti elementi filmici rimandano direttamente al film di Ferrara, anche la psicologia (e la patologia) della donna richiamano l’instabilità psicologico-emotiva di Thana. In entrambe i casi c’è un trauma d’origine – la famiglia con i suoi presunti “orrori” – gioca un ruolo rilevante; l’ambiente e lo spazio condiviso dalle due donne è soffocante, persuasivo e opprimente.

MS. 45 (L’angelo della vendetta, 1981) di Abel Ferrara – Capitolo 7

New York. Ultima fermata: II° Cerchio infernale

Ms 45 è un film senza amore. Un film dove i personaggi vivono esistenze squallide; dove il sesso – più parlato che praticato – è espresso solo come pettegolezzo o attraverso l’uso della violenza. La città, New York, è un bolgia infernale dove le persone o vanno di fretta o sono tagliate fuori. Le strade sono costellate di energumeni di tutte le razze, fannulloni senza né arte né parte pronti solo a fare apprezzamenti volgari per abbordare le donne (adeguatamente mostrati attraverso la soggettiva di Thana).

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 3

Montaggio erotico per un madrigale surrealista

Il percorso cinematografico di Massimo Pirri negli anni ‘70 dimostra come le quattro tappe dei quattro film realizzati scandiscono l’involuzione dei sessantottini fino alla nemesi e autodistruzione che scorre nelle siringhe di eroina del film omonimo. Si può quindi dire che la sua filmografia traduca in immagini i concetti espressi (a parole) in Càlamo. Attraverso il monologo di Marina sulla spiaggia, Pirri non si limita a denunciare l’ipocrisia borghese e a smascherare l’inconsistenza di velleità reazionarie di una intera generazione (quella del ’68) ma anticipa le tragiche conseguenze della disillusione e il successivo sfociare nel terrorismo politico: “Il mondo deve cambiare, in tutto, se no, meglio crepare che vivere così. Bisogna andare oltre, credimi. Cominciare da dentro: cuore nuovo, vita nuova. E se non ci riuscissi, allora meglio assassina, puttana o dinamitarda”. Ambiguità e ipocrisia sono strutturate da Massimo Pirri – lungo tutta la pellicola – attraverso l’uso insistito del montaggio alternato secondo le dinamiche tentazione/redenzione. Il regista mostra, contemporaneamente, il desiderio che anima il peccato e l’abbandono del corpo ai piaceri della carne sottolineando, continuamente, cause e conseguenze e mescolando, arbitrariamente, libertà e oppressione – il tutto al fine di restituire una visione vertiginosa del libero arbitrio.

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 6

Il gioco comincia con una scommessa: le vittime designate non rimarranno in vita più di dodici ore.

Funny Games si alimenta dell’indeterminatezza e dell’imprevedibilità del gioco. Quando si inizia a giocare non si sa né quali saranno gli sviluppi futuri né quando il gioco terminerà. Ci sono delle regole, si seguono quelle e si vede che cosa succede. Funny Games costruisce delle sue regole personali che – per quanto assurde possano sembrare – sono in realtà molto tangibili e concrete. La tensione e la crudeltà presenti nel film sono talmente particolari che non svelano mai il carattere teorico e di rappresentazione di ciò che è mostrato.

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 5

The End: il loop che sancisce l’assoluta reversibilità dell’atto di morte

La tensione che lentamente si insinua nei due film agisce su di un set/architettura che è riproposizione del vivere quotidiano. I corridoi, le porte, gli stipiti attraverso cui osserviamo l’agire dei protagonisti sono passaggi virtuali in cui si muovono “mostri” annidati nell’ombra. L’utilizzo insistito del sonoro fuori campo anticipa tutta una serie di aspettative e condiziona inevitabilmente il desiderio di vedere ciò che è successo dall’altra parte. Questa dimensione angosciante e perturbante e data dalle barriere che dividono gli spazi che costituiscono un’interdizione tra sentito/mostrato e tra desiderio di conoscere la soluzione dell’atteso/inatteso. L’attrazione/repulsione che ne scaturisce è innescata dal sonoro mentre il mostrato resta ineluttabilmente fuori. Questo accade non solo per lo spettatore ma anche per i protagonisti che non vedono mai ciò che accade nell’altra stanza.

UNA VITA VIOLENTA (1962) di Brunello Rondi – Parte Seconda

L’elegia di una generazione disorientata, divisa tra violenza e sentimento, nella prima regia di Brunello Rondi

Le passeggiate di Tommaso non sono altro che dei lunghi monologhi figurativi in cui ogni azione è una proiezione psicologica della sua indole e del suo pensiero. Bolognini filma con il carrello – nello stesso modo con cui mostra l’irruenza e le corse sulla spiaggia libera del Saro – le lunghe passeggiate di Agostino lungo la spiaggia “protetta” dell’albergo, liberando il conflitto interiore che anima il bambino “orfano” (perché la donna ha un flirt con il giovane e aitante Renzo) della madre. La realtà di Una vita violenta si nutre di verginità attraverso il rapporto personaggio-ambiente che diventa via via più dissonante: la profonda umanità di Tommaso appare sommersa dal degrado, dai mucchi di spazzatura, dalla solitudine delle periferie urbane ricondotte a motivo scatenante di una violenza tanto primitiva quanto immotivata. Allo stesso modo, Agostino, apprende con violenza la verità sui rapporti umani e sessuali; conoscenza che matura in un luogo desolato e perduto all’interno della laguna veneziana, un’isola sporca, fatiscente e infestata dalle erbacce, metafora del degrado e della promiscuità che scatenano in lui turbamenti e malesseri.

UNA VITA VIOLENTA (1962) di Brunello Rondi – Parte Prima

Frammenti di Pier Paolo Pasolini e di Alberto Moravia nella prima regia di Brunello Rondi

Tommaso (Francesco Citti), un giovane di borgata, conduce una vita scioperata trascorrendo il tempo con gli amici, frequentando la sezione del Partito Comunista solo per ballare. Con Lello, e gli altri, le giornate le divide tra il biliardo, l’aggressione notturne alle coppiette e altre bravate simili. Una sera il gruppo parte all’avventura che si conclude con lo stupro di una francese e la tentata rapina ad un benzinaio, prima di ritrovarsi in pizzeria a mangiare e bere con i pochi spiccioli recuperati. Un giorno Tommaso conosce Irene (Serena Vergano) e se ne innamora. Per far colpo su di lei organizza con gli amici una serenata. Ne nasce una rissa durante la quale egli ferisce un uomo con il coltello. Arrestato, sconta alcuni mesi di carcere. Uscito di prigione, ritrova Irene – che nel frattempo lo ha aspettato – si ammala di tisi e viene ricoverato in sanatorio, dove conosce un agitatore sindacale comunista, che per la prima volta lo tratta da uomo. Uscito dal sanatorio – guarito ma fragile – decide di sistemarsi e sposarsi. Tormentato dal dubbio e dalla gelosia per quei mesi trascorsi in carcere lontano dalla ragazza, sembra voler rinunciare al matrimonio. Un giorno, a seguito dell’alluvione che ha investito i baraccati di Pietralata si getta nelle fredde acque dell’Aniene per salvare una donna, una prostituta rimasta bloccata su un tetto, ma il gesto provoca una ricaduta della malattia, che lo conduce alla morte.
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Una vita violenta (co-diretto con Paolo Heusch) racconta la miseria senza pudori e senza vergogna e – attraverso la struttura iconografica – conferisce ai protagonisti (persone e luoghi) dignità e vitalità, tracciando le direttrici della forza d’animo dei poveri/emarginati e della loro voglia indomita di non rassegnarsi (quella che li porta ad affermare di “voler mangiare il mondo”). Brunello Rondi, dopo l’apprendistato registico del documentario viene contattato dal produttore Moris Ergas per una regia a quattro mani con Paolo Heusch. Rondi, l’intellettuale, viene affiancato da Heusch, l’artigiano. Heusch proviene dal cinema di genere – sua è la firma sull’esordio della sci-fi italica con La morte viene dallo spazio (1958) – e a quello stesso cinema tornerà dopo la breve parentesi pasoliniana, prima di abbandonare definitivamente il set a metà degli anni’70. Moris Ergas chiama Rondi (ma le prime scelta erano state altre: Franco Brusati che figura tra gli sceneggiatori e Gillo Pontecorvo), per immergere la pellicola in una dimensione “epica” e per conferire al romanzo di Pier Paolo Pasolini, il respiro dell’affresco sociale (a scapito di quello politico dominate all’interno del libro).

EXHIBITION 2 (1976-78) DI Jean-François Davy

Eyes Wide Shut: Intervista con la… vampira

 

Le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sadomasochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.

Il controverso Exhibition 2 (id., 1976-1978) calca ulteriormente la mano sul principio di ambiguità della sguardo e, parallelamente si spinge nell’analisi introspettiva dell’estremo attraverso un personaggio-maschera che non si svela mai completamente ma che fa intravedere la sua fragilità di fondo di fronte alla quale antepone un gusto cerebrale per la provocazione e per l’eccesso ben consapevole che questo faccia parlare di lei: Sylvia Bourdon. C’è nel film – in quello che ne rimane dopo le vicende giudiziarie – una sincerità sorprendente e straniante in cui le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sadomasochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.

Jean-François Davy racconta direttamente così le traversie legali a cui il film è andato incontro: “La versione che resta è quella terribilmente mutilata dalla censura. Quando presentai la pellicola per il visto venne bloccata e, successivamente, sequestrata con l’accusa di “attentato alla dignità della persona”. Il film rimane bloccato per più di un anno. Viene poi rilasciato con pesantissimi tagli e classificato come film pornografico nonostante non ci siano scene di sesso esplicito. E’ un film dal forte impatto sociale incentrato su un problema che esiste nella società e che vuole spiegare il funzionamento delle dinamiche sadomasochiste. Resta il fatto che la versione integrale del film, ormai perduta, era molto più interessante di quel poco che rimane” (Intervista a Jean-François Davy in L’avant-scène cinema n.550 – Marzo 2006).