Eyes Wide Shut: Intervista con la… vampira

 

Le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sadomasochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.

Il controverso Exhibition 2 (id., 1976-1978) calca ulteriormente la mano sul principio di ambiguità della sguardo e, parallelamente si spinge nell’analisi introspettiva dell’estremo attraverso un personaggio-maschera che non si svela mai completamente ma che fa intravedere la sua fragilità di fondo di fronte alla quale antepone un gusto cerebrale per la provocazione e per l’eccesso ben consapevole che questo faccia parlare di lei: Sylvia Bourdon. C’è nel film – in quello che ne rimane dopo le vicende giudiziarie – una sincerità sorprendente e straniante in cui le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sadomasochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.

Jean-François Davy racconta direttamente così le traversie legali a cui il film è andato incontro: “La versione che resta è quella terribilmente mutilata dalla censura. Quando presentai la pellicola per il visto venne bloccata e, successivamente, sequestrata con l’accusa di “attentato alla dignità della persona”. Il film rimane bloccato per più di un anno. Viene poi rilasciato con pesantissimi tagli e classificato come film pornografico nonostante non ci siano scene di sesso esplicito. E’ un film dal forte impatto sociale incentrato su un problema che esiste nella società e che vuole spiegare il funzionamento delle dinamiche sadomasochiste. Resta il fatto che la versione integrale del film, ormai perduta, era molto più interessante di quel poco che rimane” (Intervista a Jean-François Davy in L’avant-scène cinema n.550 – Marzo 2006).

Exhibition 2 è oggi visibile in una versione della durata di 66min., totalmente epurato del materiale ritenuto osceno e pericoloso dalla commissione censura. Il girato rimasto segue un breve periodo della vita di Sylvia Bourdon: un viaggio in Grecia, una cena, un’orgia organizzata per godere collettivamente delle sofferenze dello schiavo Yann e una seduta più intima con lo schiavo, a cui assistono – a vario titolo – sia la troupe che un gruppo di amici di Sylvia. Il patchwork abilmente montato in modo parallelo prima e alternato poi offre una visione d’insieme estremamente interessante a cui il regista aggiunge la sua maestria nel cogliere l’improvvisazione del momento e nel filmare tutto ciò che succedo modificando repentinamente il punto di vista per spiazzare lo spettatore. Il film è un “gioco di maschere” orchestrato secondo la collaudata struttura ad incastro del cinema-veritè. La sua forza è quella di riuscire a mantenere uno sguardo oggettivo: permettendo a Sylvia di spiegare con passione le sue azioni e contrapponendo il controcampo dei commenti e delle reazioni di amici e conoscenti. Sylvia è una donna molto intelligente e appassionata, consapevole e cosciente di tutto quello che fa e, pienamente in grado di affrontare qualsiasi effetto che le sue azioni hanno su di lei. La donna ostenta, prima di tutto, il suo esibizionismo totale e, in secondo luogo, il suo entusiasmo per una sessualità senza né limiti né privazione; ma, su tutto, domina la sua apparente felicità. Grazie alla sua intelligenza la donna non getta mai la maschera e il regista va solo vicino a svelare la natura di questo essere umano che al contempo risulta mostruoso e delicato. Nonostante lei voglia far credere il contrario le sue performance S&M non sono la sua vita ma solo una parentesi, una componente di una sessualità fisica e cerebrale costruita a tavolino per mettere in scena un personaggio, in grado di celare completamente la vera natura della persona Sylvia. Ella, infatti nel film si mostra (e racconta) con una schiettezza talmente sfacciata e strafottente da risultare sospetta.

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L’ esibizionismo verbale di Sylvia Bourdon è un sottile e “pericoloso” gioco di equilibrio tra intelligenza e simulazione. Già all’inizio del film sorprende e interroga lo spettatore in tre dialoghi distinti: a tavola si definisce “professionista del piacere” e all’affermazione di Bercoff: “Brindiamo all’orgasmo…e a cosa altro dovremmo brindare?”, Sylvia replica: “Al mio culo!”; sulla nave, prima, mentre mangia il melone: “Questa roba mi fa venire la pancia…lo sento. Ma è ottima per cagare”, poi parlando (e mostrando) del suo sedere, con naturalezza dichiara: “Non posso farmi inculare perché ho le emorroidi”; e, infine, una volta sbracata a Mykonos, di fronte ad una chiesa: “Faccio spesso l’amore davanti alle chiese ortodosse di notte”. Ogni affermazione, ogni provocazione (talvolta fine a se stessa), appare come il frutto di una stucchevole ricetta studiata a tavolino. Proprio partendo da questa messa in scena stereotipata della provocazione Davy dimostra la sua bravura di regista nel non cadere nella trappola e nell’ingaggiare, mediante la m.d.p., una vera e propria “guerra” di nervi con la donna per cercare di strapparle la maschera. Lo dimostra, ad esempio, la sequenza che racconta la biografia di Sylvia Bourdon, in cui si alternano le sue parole con le immagini naturali e spontanee di lei nuda immersa nelle acque del Mar Egeo: “Appartengo ad una famiglia della borghesia di Colonia. Cattolica. Sono stata sverginata a sedici anni. Avevo già un comportamento aggressivo che ha fatto credere al prescelto che non ero più vergine. Così lui mi ha aperto in due senza esitare. Ho studiato scienze economiche e sono interprete quadrilingue, inglese, tedesco, italiano e francese. Dopo l’interprete ho fatto film porno” Colpisce, nella sequenza, il conflitto tra immagini eteree e normali delle nudità di Sylvia con il cinismo e l’artificiosità delle sue parole visto che la confessione prosegue, parlando del suo essersi prostituita, così: “Si, l’ho fatto.. ma mi sono fermata al trentacinquesimo… ce l’aveva troppo grosso. Mi ha distrutta.” e, quando, incalzata da Davy le viene chiesto che piacere ne ha ricavato l’uomo, la donna chiosa ammiccante: “Di scopare nello sperma degli altri”.

Jean-François Davy, quindi, costruisce la messa in scena di Exhibition 2 senza né infingimenti (nel raccontare, sottotraccia, la solitudine di Sylvia) né filtri (sulle sevizie inferte a Yann); egli si compiace (l’uso di Wagner) di rappresentare un romanticismo (nell’ accezione sturm un drang) che prende le forme di una libertà impossibile da attuare. Il suo è un film che pulsa di morte, in cui Eros e Thanatos non coesistono ma il secondo si divora il primo. Sin dai titoli di testa si avverte sia la negazione della libertà (ridotta a mera rappresentazione volgare e ostentata) sia il flirt pericoloso, ma necessario, con la morte (inconsapevolmente?) ingaggiato dalla padrona prima e dallo schiavo poi. A fare da sfondo musicale e lirico al viaggio di Sylvia verso Mykonos c’è “La Cavalcata della Valchirie” di Wagner (chissà se se ne è ricordato Coppola); la donna integralmente (s)vestita di nero, ad un certo punto osserva anche una nave allontanarsi all’orizzonte; ad un certo punto Davy inquadra (con lo zoom) un’enorme onda che sembra infrangersi sulla nave e travolgerla. Presagi di morte quindi, diluiti lungo tutta la rappresentazione del film e che sembrano trovare compimento nella parte finale della pellicola dove il gioco S&M sempre più violento e rischioso si alterna all’auto-confessione di Sylvia e al suo pensiero sulla morte: “La morte è per me una compagna quotidiana… e non mi fa affatto paura. Fa parte della vita come l’amore o la paura. Prima di morire vorrei dire, se ci riesco: “Ho vissuto bene”… sarebbe straordinario.”

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Se il cotè politico di Exhibition 2, con la diatriba tra comunismo e religione, con l’ipocrisia della destra (che conviene) e della sinistra (che è l’ideale morale), con l’associazione tra S&M e nazismo, appare ormai del tutto superato ( e pleonastico agli occhi dello spettatore di oggi), non altrettanto si può dire per gli ultimi venti minuti di film (un autentico gioco di specchi), i quali non solo non possono lasciare indifferenti ma, sembrano, mischiare ulteriormente le carte per confondere lo spettatore. L’incosciente intreccio messo in atto da Jean-François Davy tra sessualità esibita e metafora sociale (il partouze degli amici-professionisti), performance S&M, il colloquio di Sylvia con lo psicanalista e le profonde affermazioni esistenziali della donna, mette a dura prova le certezze e le convinzioni dello spettatore in un gioco di rimandi tra schermo e sguardo che trovano esplicitazione nell’amalgama pericolosa di repulsione e fascinazione presente nella lunga sequenza. Il regista, con un tentativo (smisuratamente) ambizioso (ma riuscito) raggiunge qui due obiettivi: da un lato dimostrare come sia impossibile per il cinema dire tutta la verità su un essere umano, troppo complesso e articolato per essere compresso su pellicola, dall’altro inscenare il sottile limite che separa i ruoli di padrona e schiavo che, nell’ambito del codice di Leopold Sacher-Masoch, sembrano complementari mentre invece è l’ultimo a prevalere sulla prima in una rappresentazione che deve (necessariamente) orbitare e sfiorare continuamente il pericolo di lesioni (quando non di morte). Non a caso, infatti, in Exhibition 2 l’aspetto più interessante (e “politico”) e che più preme sviscerare a Jean-François Davy è quello che appare più marginale: come ogni essere umano reagisca diversamente di fronte alla violenza (seppur concordata tra pari).

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Durante la sessione S&M privata nell’abitazione di Sylvia a Parigi, sono presenti due amiche della donna, le quali, per la prima volta si trovano di fronte ad un rapporto tra padrona e schiavo. Joceyline, per nulla turbata ma anzi compiaciuta, partecipa attivamente e con ardore al gioco tra Sylvia e Yann, infliggendo, con naturalezza sevizie e umiliazioni sullo schiavo; viceversa, l’altra amica, Laura si pone con ambiguità di fronte alla situazione, sospesa tra repulsione e attrazione, turbata e piangente, più per il suo comportamento inatteso (se ne sarebbe dovuta andare, invece è rimasta) che per il dolore inflitto a Yann, come lei stessa afferma: “Devo essere un po’ sadica, perché non sopporto ma guardo. Non lo so, penso che della droga mi farebbe lo stesso effetto”. Ed è quindi ancora una volta sul punto di vista di chi guarda che si concentra la regia di Jean-François Davy. Tutta la serie di Exhibition, infatti, si muove sul crinale che separa immagine e sguardo ed è abilmente costruita sulla ambiguità che da questo confronto ne scaturisce: il paradosso dell’esibizionismo.

L’esibizionismo non esiste di per sé se non c’è nessuno che guarda e, soprattutto, esso è costruito sull’inganno secondo cui mentre si mette in mostra il corpo (ma anche la propria interiorità) per scandalizzare e compiacere chi guarda non ci si accorge di essere solo uno strumento dei desideri, delle fantasie, talvolta delle perversioni, delle ansie e delle paure di chi desidera vedere (e implicitamente conduce il gioco), il quale, come nel rapporto S&M, è lui, il voyeur, a tenere le fila della messa in scena a ordinare e a padroneggiare sul corpo di chi si esibisce, lui decide i tempi e modi dell’ exhibition, perché lui è il regista. E’ per questo che in Exhibition 2 la macchina da presa di Davy, sempre mobile e “nascosta” rimane invece fissa nel riprendere con inflessibilità i momenti più brutali e selvaggi delle sevizie che Sylvia infligge a Yann con fruste e coltelli durante l’orgia. La performance, necessità del pubblico che pretende di vedere e di spingersi sempre più in là: padrona e schiavo si esibiscono mentre la società – qui rappresentata dai professionisti nascosti sotto le maschere (Kubrick? Eyes Wide Shut?) – osserva silenziosa ma partecipe.

di Fabrizio Fogliato

 

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