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VELLUTO NERO (1976) di Brunello Rondi – Terza parte

Il sogno, l’estremo e gli occhi dello spettatore: il colonialismo dell’immagine

Carlo ed Emanuelle, il fotografo e la modella sono sintesi metaforica della società delle immagini, spinta sempre più all’infrangimento delle barriere dell’etica e del buongusto. Se Emanuelle, si presenta gettando i propri gioielli ai bambini che la rincorrono nel deserto – Carlo afferma, sprezzante: “Ha il complesso del denaro. Se non la sorvegliassi farebbe a pezzi il suo vestito per regalarlo a tutti questi pezzenti”– il fotografo si spaccia per teorico dell’immagine e di fronte ad una montagna di cadaveri diventati tetro scenario delle sue fotografie di moda – prima afferma che: “Il disgusto è educativo; poi, di fronte a Laure, che ne svela la nullità, dichiara tutta la sua impotenza, se scisso dal mezzo meccanico: “Per me la mia macchina è il mio occhio, il mio naso e il mio fallo”. Nel deserto, Carlo, si sente invincibile e “artista” di fronte alle popolazioni locali, e costruisce una macabra messa in scena come sfondo per le immagini di Emanuelle, fotografandola di fianco alla carogna di un animale, in mezzo a un mucchio di cadaveri massacrati dai nomadi e su una montagna di letame fumante.

VELLUTO NERO (1976) di Brunello Rondi – Prima parte

Un confuso apologo, trasgressivo ed estremo sulla deriva iconoclasta di una società pre-globalizzata

Velluto neroè l’ultimo film da regista di Brunello Rondi – penultimo se si considera lo sceneggiato televisivo La Vocediretto a distanza di tre anni tra il 1981 e il 1982. Considerato dai più come un “suicidio d’autore”, Velluto nero, apparentemente, sembra inserirsi nel filone tutto italiano di Emanuelle Nerainiziato da Adalberto Albertini (con il film omonimo nel 1975 firmato come Albert Thomas) e proseguito sotto la regia di Aristide Massaccesi (alias Joe D’Amato), attraverso la costruzione di una serie di film finalizzati alla serializzazione delle avventure di questa disinibita eroina da fumetto. Come racconta Davide Pulici c’è un forte legame produttivo tra Velluto neroe il ciclo in questione: “All’indomani del grande successo di Emanuelle Neradi Bitto Albertini, due produzioni distinte, la Kristal di Franco Gaudenzi e la Rekord di Alfredo Bini, mettono in macchina contemporaneamente due film: Emanuelle Nera-Orient Reportage(che in un primo tempo dovrebbe intitolarsi Velluto nero) e Velluto nero(che nasce come Il gruppo), in entrambi i quali Laura Gemser interpreta un personaggio di nome Emanuelle[Al tropico del sesso-Nocturno Dossier n.35].

BLUE NUDE (1977) di Luigi Scattini

Il sesso, la sua manifestazione più brutale (cioè la pornografia), e il coinvolgimento emotivo diretto destabilizzano le convinzioni di un uomo capace di ragionare solo ed esclusivamente in base ai suoi sogni

Quando Luigi Scattini, parte per l’America per girare quello che sarà il suo ultimo film da regista, Blue nude, il cinema hard in Italia cominciava a fare il suo ingresso e, proprio il 15 novembre 1977, una sala cinematografica di Milano, il Majestic, espone fuori dalla porta d’ingresso del locale una lampada con la luce rossa intermittente per segnalare il cambio di programmazione, aprendo, così, la strada alla proiezione di film “a luce rossa” (appunto) in tutta la penisola. Sono anni, questi, in cui il film hard circola clandestinamente in qualche cineclub (soprattutto Exhibition (1975) di Jean-François Davy con la star d’oltralpe Claudine Beccarie), alcuni amatori ne fanno richiesta via posta per ricevere carissimi loops in super-8 (provenienti dal Nord Europa della Danimarca e della Svezia) e dove riviste come “Le Ore e “Man” propongono le prime immagini di sesso esplicito su carta stampata.

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Aristide Massaccesi (Joe D’Amato) emigra nei caraibi e gira film con doppie versioni (soft e hard) per il mercato interno e quello estero prima di girare il pacchetto – di quattro film caraibici (a Santo Domingo) esplicitamente pornografici – che alla fine del decennio darà il via alla produzione dell’hard nostrano. Franco Lo Cascio si inventa distributore e comincia ad importare dall’estero pellicole a tripla “X” da distribuire in Italia in maniera clandestina e attraverso mille ostacoli e divieti. Resta il fatto che tutto questo riguarda una piccola nicchia di pubblico, mentre per la massa l’hard rimane qualcosa di misterioso e “leggendario”, legato ai racconti di quei pochi “fortunati” che hanno fatto viaggi nel Nord Europa o degli emigranti di ritorno dagli Stati Uniti. Ecco, quindi, che Blue nude di Luigi Scattini, oltre a spalancare le porte della produzione hard allo spettatore del tempo, diviene il primo film italiano ad affrontare l’argomento nonché un vero e proprio anticipatore di film come Hardcore (1979) di Paul Schrader.

LE SALAMANDRE (1969) di Alberto Cavallone

Le dannate della terra

Nel 1967 lo sceneggiatore Sergio Lentati e il regista Alberto Cavallone si recano a Tunisi per effettuare i sopralluoghi – da Tunisi a Monastir – per un possibile film da farsi avente come base di partenza le teorie anticolonialiste dell’intellettuale e attivista Frantz Fanon. Questi, in sintesi, sostiene che la libertà dal colonialismo, per i popoli sottomessi, sarà raggiunta soltanto nel momento in cui la violenza subita sarà restituita. Da qui si sviluppa l’idea di un film politico sul tema avente come spunto iniziale e canovaccio narrativo la storia di un rapporto lesbico tra una fotografa bianca e una fotomodella nera. La prima stesura della sceneggiatura a cui partecipa anche Lentati si intitola C’era una bionda, poi, successivamente al timone del film rimane solo Cavallone e il titolo cambia in Le salamandre (titolo ammiccante a Les biches (Le cerbiatte, (1968) di Claude Chabrol). Il primo giro di manovella delle riprese del film avviene a Sidi Bousaid nell’estate del 1968 (periodo in cui si svolgono tutte le riprese).

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Ursula (Erna Schürer [Emma Costantino]), una fotografa d’alta moda, si trova in Tunisia per lavoro: con lei è la sua modella preferita, Uta (Beryl Cunningham), una nera che è riuscita a sfuggire alla miseria del ghetto con il lavoro che Ursula le ha offerto. L’arrivo di Henri Duval (Anthony Vernon [Antonio Casale]), un medico francese, rompe l’equilibrio del rapporto amoroso che le legava. Egli sembra voler scavare nelle loro coscienze: ma mentre Ursula si difende rispondendo con delle battute, per Uta le parole del dottore hanno un certo effetto che aumenta il suo nascosto tormento che nasce da un complesso razziale. Ed essa tenta di ribellarsi, sollecitata anche dal misterioso giovane, ma il forte legame che la tiene unita ad Ursula, il di lei morboso attaccamento e il senso di sicurezza che essa le dà, le tolgono ogni coraggio. Ma la speranza le viene da Duval che le propone di andare con lui separandosi da Ursula: e per vincere la resistenza di questa, Henri accetta la di lei proposta amorosa. Uta che però assiste non vista, crede ad un inganno di Duval e il giorno dopo sulla spiaggia uccide prima Duval e poi Ursula.

EXHIBITION 2 (1976-78) DI Jean-François Davy

Eyes Wide Shut: Intervista con la… vampira

 

Le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sadomasochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.

Il controverso Exhibition 2 (id., 1976-1978) calca ulteriormente la mano sul principio di ambiguità della sguardo e, parallelamente si spinge nell’analisi introspettiva dell’estremo attraverso un personaggio-maschera che non si svela mai completamente ma che fa intravedere la sua fragilità di fondo di fronte alla quale antepone un gusto cerebrale per la provocazione e per l’eccesso ben consapevole che questo faccia parlare di lei: Sylvia Bourdon. C’è nel film – in quello che ne rimane dopo le vicende giudiziarie – una sincerità sorprendente e straniante in cui le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sadomasochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.

Jean-François Davy racconta direttamente così le traversie legali a cui il film è andato incontro: “La versione che resta è quella terribilmente mutilata dalla censura. Quando presentai la pellicola per il visto venne bloccata e, successivamente, sequestrata con l’accusa di “attentato alla dignità della persona”. Il film rimane bloccato per più di un anno. Viene poi rilasciato con pesantissimi tagli e classificato come film pornografico nonostante non ci siano scene di sesso esplicito. E’ un film dal forte impatto sociale incentrato su un problema che esiste nella società e che vuole spiegare il funzionamento delle dinamiche sadomasochiste. Resta il fatto che la versione integrale del film, ormai perduta, era molto più interessante di quel poco che rimane” (Intervista a Jean-François Davy in L’avant-scène cinema n.550 – Marzo 2006).

ITALIA: ULTIMO ATTO. L’ALTRO CINEMA ITALIANO – IL PROGETTO 2016

Una landing page, rassegne e altre pubblicazioni

A seguito del grande successo riscontrato dal primo volume e in attesa del secondo – in fase di lavorazione – ITALIA: ULTIMO ATTO diventa un progetto multimediale. Dai primi di Ottobre è attiva la landing page del volume Italia: ultimo Atto. L’altro cinema italiano, di Fabrizio Fogliato. La pagina è la base di un progetto multimediale – e in divenire – che a partire dal 2016 si attiverà con presentazioni, proiezioni, convegni e rassegne, il tuttoi ncentrato sul cinema italiano censurato, nascosto, rimosso e dimenticato.

Per saperne di più

ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri (prefazione di Davide Pulici)

Rassegna Stampa – Settembre 2015

Continuano il grande interesse e dibattito attorno ad un libro asimmetrico e “provocatorio” come: 

“Italia: ultimo atto. L’altro cinema italiano – Vol. 1

– Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri”

Da giugno disponibile anche in E-BOOK.

Da settembre nasce il franchise ITALIAULTIMOATTO

A seguire le recensioni del libro e il nuovo progetto web. Leggi Tutto

ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

Estratto del libro da Io, Emmanuelle (1969) di Cesare Canevari

La donna, incarnata da Emmanuelle, con il suo essere fragile, confusa e spaesata in una società che viaggia al doppio della sua velocità, con il suo ritrovarsi immersa in una città plumbea e tentacolare in cui il sole fatica a penetrare la coltre di nubi e di smog, si sente soffocata dal rumore, dall’invasività e pervasività degli annunci pubblicitari, soverchiata dalla frenesia e dalla presenza incombente dei cartelloni pubblicitari al punto che è costretta a muoversi come un fantasma (ignorata da tutti): un essere spersonalizzato che deambula in un mondo troppo più grande della sua vita. La solitudine e l’anonimato nella metropoli emergono con forza attraverso l’estetica della donna che, stretta (stritolata), in un completo marrone si agita inutilmente nel vuoto della città, correndo, sfuggendo e nascondendosi non si sa bene da che cosa: non di certo qualcosa che è all’esterno bensì all’interno di lei. Il vuoto è riempito dal rumore assordante delle auto, degli annunci pubblicitari, del fragore delle manifestazioni, dei lavori in corso; rumore che penetra, frastornante, persino nel chiuso dell’appartamento e che nel corpo di Emmanuelle si traduce in dolore.

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CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri

Estratto del libro da ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

Cálamo è Vanità: il film è un road-movie spirituale che contrappone da un lato il dubbio e il libero arbitrio del seminarista e dall’altro il “gruppo” (=società) con le sue certezze fittizie (e materiali) e le sue ipocrisie. L’abito del film è quello del travestimento che lentamente disvela l’“Essere” di uomini e donne. In questo Massimo Pirri è diretto sin da subito, nel mostrare – già dalla prima sequenza del film  – lo scambio dei vestiti tra Riccardo e Stefania, nella sublimazione simbolica di un rapporto sessuale impossibile. In una società corrotta come è quella rappresentata nel film, il trasformismo non rappresenta l’eccezione bensì la norma. Lo dimostra il fatto che la tonaca da prete di Riccardo diventi oggetto di travestimento, maschera, gioco, persino dileggio da parte di tutti coloro che la toccano – escluso il suo legittimo proprietario. Riccardo, prete-bambino, nel film riveste (e incarna) questo duplice ruolo, agendo sulla sottile linea di demarcazione su cui si legge il libero arbitrio. Egli è un “povero Cristo” (nel senso letterale del termine) costretto – suo malgrado – a intraprendere una via crucis al termine della quale è prevista la redenzione ma è negata la resurrezione.

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L’IMMORALITA’ (1978) di Massimo Pirri

Estratto del libro da ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

Una volta raccontata la disillusione generazionale (Calámo) e la destrutturazione dello Stato (Italia: ultimo atto?), le attenzioni di Massimo Pirri si rivolgono al nucleo fondante della società: la famiglia. L’Immoralità è un’onda anomala di immagini desacralizzanti, che travolge e annienta i protagonisti del film, con un furore e una poesia senza precedenti. Avulso da ogni modello, imperniato sull’ossimoro come idea di sceneggiatura e diretto sul limite della follia, L’Immoralità è un gioco al massacro senza regole e senza via di fuga, né per i personaggi né per lo sguardo dello spettatore. Pirri dirige un Kammerspiel fiabesco che si svolge (quasi) tutto in una villa e nel parco adiacente, descrivendo un universo concentrazionario di cinismo, perversione e pietismo. Guardando il film si palpa materialmente la furia nichilista che anima il regista e si rimane sbalorditi dalla coerenza e dalla sincerità con cui questo autore, non allineato, centrifuga valori e disvalori, moralità e moralismo, orribile e meraviglioso. Sempre in bilico sul crinale dell’ambiguità – e giostrato con un ritmo lento e avvolgente che dilata a dismisura i tempi del montaggio – il film descrive una spirale di odio/amore destinata a chiudersi in un cul de sac caustico e irriverente.

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