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WILLIAM FRIEDKIN’S CRUISING (1980) – Seconda Parte

Private Club 837: viaggio di non ritorno

Cruising, come detto significa “pattugliare” (ma anche “battere”) e i due verbi nel film sono destinati a coincidere, intrecciarsi, legarsi, al fine di creare un gorgo indefinito in cui Steve Burns diventa incapace di distinguere tra l’indagine poliziesca e quella omoerotica, fino a rimanerne stritolato. Ma Criusing è anche il film dell’incertezza in cui nulla è come appare e in cui tutto è opposto a ciò che si vede, così è inevitabile “attraversare lo specchio” ed entrare nella dimensione psicologica del film: quella della proiezione mentale degli omicidi. La Morte in Cruising, cammina sui marciapiedi, scende nei leather bar, si intromette nell’univesità e galleggia nelle acque dell’Hudson River, quindi è ovunque e pertanto non si può non prendere in considerazione la possibilità che gli omicidi di Cruising, siano soltanto il materializzarsi di una paura sociale (ancora per poco, immotivata) e nascondano al loro interno un oscuro presagio. Il 5 giugno 1981, il centro per il monitoraggio e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti identifica un’epidemia di pneumocistosi polmonare in cinque uomini gay di Los Angeles. Inizialmente la malattia viene denominata la sindrome GRID, o Gay-Related Immune Deficiency, ma ben presto le autorità sanitarie si accorgono che quasi metà della popolazione, in cui era stata riscontrata, non era omosessuale. Il nome si “trasforma” in una sigla di quattro lettere, dispensatrice, nel tempo, di paura e terrore, e da alcuni integralisti cattolici identificata come un “nuovo flagello divino” necessario per mondare l’umanità reproba e peccatrice: AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome).

WILLIAM FRIEDKIN’S CRUISING (1980) – Prima Parte

Da Sodoma a… New York

A New York iniziano a essere rinvenute, nelle acque del fiume Hudson, parti del corpo di uomini. La polizia ritiene sia l’opera di un serial killer che abborda omosessuali nei bar cittadini per poi stuprarli e mutilarne i corpi, così l’agente di polizia Steve Burns (Al Pacino) viene mandato come infiltrato nel mondo dei club per omosessuali per rintracciare l’assassino. Burns commette uno sbaglio e porta la polizia ad indagare sul conto del cameriere di un ristorante, Skip Lee, il quale sarà costretto a spogliarsi e masturbarsi dinanzi a quattro detective per fornire loro un campione di sperma. Dopo aver assistito a questo episodio di brutale violenza, Burns capisce che i poliziotti non stanno conducendo le indagini al fine di scovare l’assassino, ma spinti unicamente da una delirante omofobia. Abbandona le indagini, ma viene convinto dal suo capo, il Capitano Edelson (Paul Sorvino) a riprenderle in mano. Steve riesce alla fine a rintracciare il presunto serial killer, uno studente di musica, omosessuale, e lo arresta. Dopo quest’indagine Burns diventa ispettore e gli viene concesso un permesso ma…

WATER POWER (1977) di Shaun Costello – Parte Seconda

Andare oltre i limiti della percezione visiva

Shaun Costello, in poco più di un’ora di film, distilla una serie di situazioni malsane che respingono lo spettatore e che lo interrogano sui limiti della percezione visiva. Burt, è un anti-eroe (vincente perchè non viene catturato) nella cui figura bislacca e psicolabile si concentrano paure e ansie dell’America in crisi, come testimonia la scelta di ambientare la vicenda durane i festeggiamenti del 1976 per il bicentenario della “nascita della nazione” (l’incipit del film, senza dialoghi, dà forma “politica” al seguito delle vicende). Il tono eccessivo, isterico e parodistico della messa in scena non fa niente altro che amplificare a dismisura il disagio della visione provocato dalla presenza di un protagonista in balia di se stesso desideroso di avere rapporti sociali ma costantemente respinto dalla società; chiuso in un appartamento-labirinto, terrorizzato dalla presenza altrui (emblematica la scena in cui deve nascondere il clistere perchè suonano il campanello); ossessionato dalla fisicità femminile e convinto della necessità di ripulire il mondo da ogni nefandezza attraverso un “bagno” purificatore.

WATER POWER (1977) di Shaun Costello – Parte Prima

Dietro gli occhi dello spettatore: lo sguardo impuro e “politico” di Shaun Costello

“E fare i conti con l’Hard-core non è impresa di respiro corto. L’ascesa delle luci rosse si è rivelata un fenomeno sociale, politico e culturale di estrema rilevanza: nelle sue pratiche espressive dirompenti – ed esplicitamente “basse” – implica la discussione della struttura del desiderio e della sessualità, delle relazioni tra i sessi, della natura della famiglia, pesca alla rinfusa nei più scottanti materiali dell’inconscio, porta alla luce pregiudizi, simbologie, credenze occulte e occultate”. (Pietro Adamo, Il Porno di massa, pag. XIII). Da ciò ne deriva il fatto che nulla è precluso dal punto di vista tematico ed espressivo in un genere ontologicamente “basso”, in cui segni, codici e riferimenti, riconducono (inevitabilmente) al corpo e alla sua frammentazione ridotta a genitalità. Il limite nel “genere” non esiste, o meglio non è contemplato, per cui anche l’estremo assume un valore filmico e narrativo, che in alcuni prodotti “di valore” diventa metafora (discutibile fin che si vuole) delle derive più oscure e inquietanti della società. Negli anni’ 70, soprattutto, nel periodo in cui il porno è stato narrativo, l’estremo non è qualcosa di marginale o settoriale (come è oggi) ma è connaturato alle svolte narrative necessarie all’interno di film che, apparentemente, si presentano come ordinari. L’intento di registi, “autori” e produttori è quello di una “normalizzazione” delle parafilie più inconfessabili finalizzata a rappresentare una autentica “liberazione” e, paradossalmente, a responsabilizzare lo spettatore (che infatti in quegli anni spesso diserta i prodotti più crudi e insostenibili, come i film di Shaun Costello, divenuti col tempo cartine di tornasole di un momento topico della storia americana). L’esempio più importante di censura del cinema hard-core, e cioè la condanna da parte del tribunale statale della scena del doppio fisting vaginale praticato da Nancy Hoffman a Eileen Welles in Candy Stripers (1978) di Bob Chinn, paradossalmente chiude definitivamente l’epoca dell’hard narrativo. Da quel momento, infatti, ogni parafilia viene scissa dalla narrazione e conglobata in serie in prodotti monotematici e settoriali totalmente privi di trama, al punto che l’hard tradizionale degli anni ’80 risulta essere particolarmente “edulcorato”. Nel decennio precedente, invece, l’estremo ha rappresentato l’espressione problematica (e critica) del rapporto uomo-donna e della condizione dell’individuo nella società, proprio perchè “annegato” nella normalità con l’intento di rappresentare le istanze più oltranziste e libertarie della controcultura.

FORCED ENTRY (1971) di Shaun Costello – Seconda parte

Stay away from me

 

Forced Entry è costruito come un lungo flash-back (il film si apre con i rilievi sul cadavere suicida di Joe) nella mente di un reduce: il frammento dell’ “Hudson Dispatch” che compare prima dei titoli di testa racconta i sintomi delle disfunzioni psichiche dei veterani, mentre la scritta che segue, riporta la dichiarazione del Dott. Robert Lifton, psichiatra dell’ US Army in merito alla condizione psico-esistenziale con cui essi rientrano nella società: “Questo è ciò che i veterani riportano a casa: una combinazione di paura, confusione, rabbia e frustrazione, che li porta ad un disperato desiderio di ricrearsi un nemico”. In Forced Entry, il nemico è la donna (e la sua presunta libertà), corpo da “profanare” prima, per scaricare la rabbia repressa, e da annientare poi con la morte, per ritrovare il sollievo e la tranquillità perdute A tal proposito è interessante rilevare come lo sproloquio, ripetuto più volte da Joe durante gli stupri, pronunciato mentre egli sottomette la donna-nemico, ricalchi nei termini le frustrazioni e le mancanze riportate nella sintesi dell’anomia del reduce redatta dal Dott. Lifton; Joe, mentre continuamente chiede alla donna di essere felice per ciò che sta facendo e di farlo bene (fellatio e amplesso), aggiunge anche queste parole: “Tu devi farmi felice signora; tu non sai cosa ho passato. Voi con le vostre grandi macchine, le vostre grandi case, tutto per sentirsi, bene non è vero? Tu non sai cosa vuol dire tornare dal Vietnam signora, ma tu adesso puoi farmi del bene…”. Costello sembra quasi suggerire che per il reduce la vera guerra non è al fronte o in prima linea, ma è nel ritorno in una società apatica e indifferente, nell’umiliazione di capire di non contare più nulla, nella consapevolezza che il grado maturato sul campo, una volta tornato civile, non ti garantisce alcun benessere.

FORCED ENTRY (1971) di Shaun Costello – Prima parte

Tutto questo sangue, questa violenza…e io che pensavo che la vostra fosse la generazione dell’amore!”

 

Negli anni ’70 il cinema hard-core ha rappresentato al meglio le istanze oltranziste e “sovversive” delle politiche libertarie, in connessione con i cambiamenti sociali. Nella maggior parte dei casi lo ha ha fatto, non assecondando i gusti dello spettatore, ma, paradossalmente, attaccandolo direttamente e frontalmente, proponendo una visione per nulla conciliante (e tanto meno edulcorata) del rapporto/conflitto tra i sessi. Nelle sue forme più autoriali (Gerard Damiano, Mitchell Bros, Alex De Renzy), come in quelle più rozze e istintive (Shaun Costello, Armand Weston, Anthony Spinelli), il cinema pornografico americano è riuscito a sviscerare come non mai, con crudezza e realismo, le dinamiche uomo-donna, evidenziando tanto l’ipocrisia del maschio dominatore, quanto l’illusione della donna emancipata. Sia nella forma che nei contenuti il cinema a tripla “X” della “golden age of adults movies” ha condensato in immagini le istanze e le rivendicazioni politico-sociali di un’epoca, traducendole programmaticamente in un vero e proprio assalto allo spettatore, e riversandogli addosso le sue nevrosi esistenziali. Fobie, ansie, incertezze sono state convogliate in un flusso ininterrotto di immagini sessualmente (ma non solo) esplicite e “deformate” (e per questo più credibili) all’interno di un cinema indipendente per vocazione e per necessità, in cui risulta superfluo e aleatorio il concetto di “bellezza” (comunemente inteso), e incentrato su un crudo realismo, talvolta brutale ed estremo, ma comunque (quasi) sempre sincero. Sono anni, quelli dell’inizio dei seventies, in cui il cinema osa spingersi oltre i limiti del rappresentabile, non solo per mere questioni commerciali, ma soprattutto per interpretare le urgenze di un epoca contraddittoria e affascinante, sognatrice e violenta, emancipata e oppressa, utopista e ipocrita, la cui asimmetricità può essere racchiusa nelle parole che la madre rivolge alla figlia nella scena iniziale di Last House on the Left (L’ultima casa a sinistra, 1972) di Wes Craven: “Tutto questo sangue, questa violenza…e io che pensavo che la vostra fosse la generazione dell’amore!”.

BLUE COLLAR (TUTA BLU) di Paul Schrader (1978)

Quando il colore del lavoro diventa il colore dell’odio

Il cinema di Paul Schrader è un cinema scisso, in cui il tema della scelta è determinante per indirizzare esistenze di personaggi “limite”, disadattati della vita, ingenui consapevoli, condizionati dagli eventi, vittime di una spiritualità “altra” e opprimente. Tradizionalmente attento alle sfaccettature umane, fallaci e compassionevoli, dei suoi personaggi, Paul Schrader è regista intransigente, diretto e moralmente efferato, capace di precludere (quasi) sempre ogni possibile via di redenzione a uomini e donne che non la meritano. La sintesi del suo cinema cristiano-calvinista è racchiusa in un brano del Vangelo di S. Matteo: la lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra. Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona (Mt. 6,22-25).