Private Club 837: viaggio di non ritorno
Cruising, come detto significa “pattugliare” (ma anche “battere”) e i due verbi nel film sono destinati a coincidere, intrecciarsi, legarsi, al fine di creare un gorgo indefinito in cui Steve Burns diventa incapace di distinguere tra l’indagine poliziesca e quella omoerotica, fino a rimanerne stritolato. Ma Criusing è anche il film dell’incertezza in cui nulla è come appare e in cui tutto è opposto a ciò che si vede, così è inevitabile “attraversare lo specchio” ed entrare nella dimensione psicologica del film: quella della proiezione mentale degli omicidi. La Morte in Cruising, cammina sui marciapiedi, scende nei leather bar, si intromette nell’univesità e galleggia nelle acque dell’Hudson River, quindi è ovunque e pertanto non si può non prendere in considerazione la possibilità che gli omicidi di Cruising, siano soltanto il materializzarsi di una paura sociale (ancora per poco, immotivata) e nascondano al loro interno un oscuro presagio. Il 5 giugno 1981, il centro per il monitoraggio e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti identifica un’epidemia di pneumocistosi polmonare in cinque uomini gay di Los Angeles. Inizialmente la malattia viene denominata la sindrome GRID, o Gay-Related Immune Deficiency, ma ben presto le autorità sanitarie si accorgono che quasi metà della popolazione, in cui era stata riscontrata, non era omosessuale. Il nome si “trasforma” in una sigla di quattro lettere, dispensatrice, nel tempo, di paura e terrore, e da alcuni integralisti cattolici identificata come un “nuovo flagello divino” necessario per mondare l’umanità reproba e peccatrice: AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome).
L’uomo che “scende all’inferno” all’inizio e alla fine del film, di cui non vediamo il volto (perchè non ancora rivelato) ma solo le terga (perchè la forma è quella dell’uomo e il male fisico/spirituale passa attraverso di esso) altro non è che la premonizione del “paziente zero” del giugno 1981. La sessualità disordinata, babelica, non-normativa, triste e spaventata di Cruising, sembra, dunque, anticipare la realtà storica e contemporaneamente riconduce il film alle radici bibliche del “mito” di Sodoma. “Quegli uomini partirono di lì e andarono verso Sodoma, mentre Abramo stava ancora davavnti al Signore. Allora Abramo gli si avvicinò e gli disse: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? (…) rispose il Signore: “Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città”. (Ge 18, 22-27). La punizione biblica, nelle immagini di Friedkin, prende forma “laica” attraverso il “dono” della morte. Una morte, che non è né solitaria, né condivisa, bensì reciproca e concatenata e in cui è sempre presente un “terzo” inquietante e misterioso, quanto indefinito. I dialoghi dell’omicidio al St. James Hotel, sono rivelatori di questa terza presenza (la malattia? L’AIDS?). L’assassino rivolto alla vittima: “Non riesco a credere che tu non abbia paura”, e poi intona una canzoncina[1] con queste parole “Chi c’è?…Ci sono io, ci sei tu…”, a questo punto la vittima con lo sguardo spaesato: “Adesso ho paura”. La terza presenza è immateriale, evocata da quella prima domanda (Chi c’è?) senza risposta, fino a quando, durante l’atto dell’omicidio il montaggio parallelo mostra il coltello che entra nella carne e (subliminalmente), il pene che penetra nell’ano, mentre la scena si chiude con le parole dell’omicida rivolto alla vittima: “Me l’hai fatto fare tu”.
Subito dopo, lo spettatore, apprende attraverso le parole del patologo che l’omicida soffre di aspermia, e quindi è malato. Pertanto la catena delle morti, diviene materializzazione di più paure sovrapposte: quella delle tendenze omosessuali di Steve Burns/John Forbes, della (in)consapevolezza della propria identità sessuale, della malattia mortale nascosta nel piacere sessuale, e infine, non ultima, della punizione divina a causa del peccato della carne. Proprio quest’ultimo aspetto si manifesta attraverso i lunghi carrelli notturni all’esterno dei locali gay: questi appaiono ricavati da vecchie macellerie in disuso, come si evince dalle frequenti scritte sui muri che riportano la parola “beef” (carne) e dai ganci da macellaio che penzolano all’esterno e che, talvolta, incombono direttamente sui personaggi. Emblematica a tal proposito è la scena in cui Steve e Skip Lee si recano al Motel: un lungo carrello laterale, mostra i due uomini camminare lungo la parete dall’altro lato della strada, mentre in primo piano scorrono i ganci da macellaio accompagnati dallo scricchiolio della colonna sonora di Jack Nitzsche.
Il terzo omicidio, quello del peep-show, contiene al suo interno, anche un aspetto metafilmico, dettato non solo dall’ubicazione del luogo all’interno di una cabina a gettone in cui si vedono queer -movie hard, ma anche dalle modalità dell’omicidio stesso in cui il sangue imbratta la pellicola nel momento in cui questa ripropone le immagini di una penetrazione. Le pratiche sessuali estreme (cui è legata la ricerca del materiale “proibito” del film: si parla di 20-30 minuti di riprese hardcore tagliate in post-produzione), vengono sviscereate in ogni dove, secondo un linguaggio in codice (quello delle bandanas) necessario per regolamentare i ruoli (passivo o attivo a seconda se la bandana di diverso colore è posta nella tasca destra o sinistra), e attraverso il rimando di immagini semi-subliminali dell’attività sessuale nei leather bar, come nel caso del fist-fucking (cui viene presentata la fase preparatoria e non viene mostrato il contro-campo). Questa rappresentazione malsana della sessualità, coincide con un’ambiguità di fondo nel tratteggiare le figure di contorno, come nel caso della coppia di poliziotti iniziale o in quella (ridicola) del detective di 110 Kg in sospensorio e cappello da cow-boy. Situazioni queste che vanno al di là della banale ironia nel momento in cui si vede Joe Spinnell (l’inquietante Frank Zito di Maniac) nella parte del poliziotto-violento del sesto distretto Di Simone, o nel momento in cui viene mostrato che il capitano Edelson zoppica (come il diavolo con il piede caprino nella tradizione cristiana), o quando lo spettatore si accorge che la voce dell’assassino è sempre la stessa (che è anche quella del padre di Stuart).
William Friedkin nel film aggiunge ambiguità ad ambiguità, contraddice (volutamente) più volte le sue stesse immagini e definisce una metropoli in cui non possono esistere certezze. A tal proposito è emblematico l’episodio iniziale in cui un poliziotto infiltrato si lamenta con Edelson delle violenze subite dal violento Di Simone, e per tutta risposta si sente dire che non è possibile distinguere i poliziotti quelli veri da quelli travestiti; solo nel finale del film di fronte al vero Di Simone Edelson comprende la realtà, ma è solo un istante, un inciso subito messo da parte di fronte alla visione del corpo straziato del giovane gay ucciso. Ma Di Simone è un’altra figura sfuggente che lungo tutto il film compare (in lancinanti close-up, sguardo in camera) di fronte agli occhi di Burns: talvolta vestito da poliziotto, talvolta “mimetizzato” nei leather bar. In un mondo disordinato e caotico (quasi un helzapoppin demoniaco) come è questo, in cui l’ambiguità è l’unica chiave di lettura possibile, come può un uomo (apparentemente) normale trovare il bandolo della matassa e risolvere il caso? Solo attraverso una falsa identità intrusiva e con il rischio di destrutturare se stesso.
Steve Burns/John Forbes, è dunque un intruso che ripercorre le orme di Lot, che nel brano biblico sulla distruzione di Sodoma, viene così apostrofato e trattato dagli uomini a cui si è opposto: “Questo individuo è venuto qui come straniero e vuole fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a loro! E spingendosi violentemente contro quell’uomo, cioè contro Lot, si avvicinarono per sfondare la porta. Allora dall’interno quegli uomini sporsero le mani, si trassero in casa Lot e chiusero il battente; quanto agli uomini che erano alla porta della casa, essi li colpirono con un abbaglio accecante dal più piccolo al più grande, così che non risucirono a trovare la porta”. (Ge 19, 9-12). L’agente infiltrato, è un “intruso” e uno “straniero” così come lo è Lot, destinato a diventare vittima ma non agnello sacrificale. Egli, infatti, è corrotto come coloro che persegue: la differenza è che non lo sa ancora, non è consapevole della sua vera identità sessuale. Il dubbio però è già dentro la sua testa all’inizio del film quando mentre è a letto con la compagna Nance afferma: “Ci sono molte cose che non sai di me…” e quando la donna le chiede una risposta, egli rimane in silenzio. E proprio la relazione con Nance è il metronomo che scandisce i tempi della trasformazione, attraverso rapporti sessuali sempre più violenti che peggiorano mano a mano che si intensificano le frequentazioni dei locali gay. L’epilogo, temporaneo della relazione, si chiude con un grido d’aiuto, rivolto alla donna, da parte di Steve: “Non lasciare che ti perda. Ti amo”.
Di quanto debole, sottile, e ambigua, sia la natura sessuale dell’essere umano, William Friedkin ce ne dà prova attraverso la fallimentare parabola investigativa di Steve: non solo il poliziotto non riesce a trovare il colpevole, ma tentando di uccidere Stuart Richards tenta di uccidere la sua paura di essere omosessuale, ma poi, si spinge anche oltre, sempre in un’atmosfera ambigua e mai chiarificatrice. L’omicido di Ted Bailey, unico omosessuale “solare” del film, è il sacrificio dell’agnello necessario (forse) per purificare se stesso. Il bagno di sangue in cui giace il corpo di Ted (la cui postura riproduce l’immagine della una copertina di un disco di David Bowie), è il tributo che Steve deve pagare (anche se non è chiaro se sia stato lui a commettere l’omicidio) per ritornare alla normalità. E se Cruising, si apre con le parole del capitano Edelson che rivolto a Steve gli dice: “Vuoi scomparire per un po’ ?”, la pellicola si chiude con le parole del poliziotto che, mentre intento a radersi di fronte allo specchio dice a Nance: “Sono tornato…posso restare?”. Il cerchio dunque sembra essere chiuso, ma è pura apparenza, sia perchè, poco prima del ritorno a casa, ricompare l’immagine notturna dell’uomo in campo medio che si dirige verso il Club 837, sia perchè mentre Steve è in bagno, la donna trova sulla sedia i suoi vestiti e lentamente li indossa mentre il sonoro ripercorre il battere dei tacchi sul marciapiede, il tintinnare delle chiavi e delle manette e lo stridere del cuoio dei giubbotti di pelle: mentre Steve ode questi rumori, lentamente, il suo sguardo in primo piano, si sposta dallo specchio direttamente dentro l’obiettivo della macchina da presa. L’ambiguità “terminale” di Cruising sembra dunque essere quella che unisce personaggio e spettatore, quasi un monito inquietante che il regista rivolge a chi guarda: “Ma tu sai…chi sei veramente?”.
di Fabrizio Fogliato
[1] Da notare che nella versione italiana, la traduzione sostituisce, inopinatamente (travisandone completamente il significato), il testo originale con: “Chi ha paura del lupo cattivo…”.