Tutto questo sangue, questa violenza…e io che pensavo che la vostra fosse la generazione dell’amore!”

 

Negli anni ’70 il cinema hard-core ha rappresentato al meglio le istanze oltranziste e “sovversive” delle politiche libertarie, in connessione con i cambiamenti sociali. Nella maggior parte dei casi lo ha ha fatto, non assecondando i gusti dello spettatore, ma, paradossalmente, attaccandolo direttamente e frontalmente, proponendo una visione per nulla conciliante (e tanto meno edulcorata) del rapporto/conflitto tra i sessi. Nelle sue forme più autoriali (Gerard Damiano, Mitchell Bros, Alex De Renzy), come in quelle più rozze e istintive (Shaun Costello, Armand Weston, Anthony Spinelli), il cinema pornografico americano è riuscito a sviscerare come non mai, con crudezza e realismo, le dinamiche uomo-donna, evidenziando tanto l’ipocrisia del maschio dominatore, quanto l’illusione della donna emancipata. Sia nella forma che nei contenuti il cinema a tripla “X” della “golden age of adults movies” ha condensato in immagini le istanze e le rivendicazioni politico-sociali di un’epoca, traducendole programmaticamente in un vero e proprio assalto allo spettatore, e riversandogli addosso le sue nevrosi esistenziali. Fobie, ansie, incertezze sono state convogliate in un flusso ininterrotto di immagini sessualmente (ma non solo) esplicite e “deformate” (e per questo più credibili) all’interno di un cinema indipendente per vocazione e per necessità, in cui risulta superfluo e aleatorio il concetto di “bellezza” (comunemente inteso), e incentrato su un crudo realismo, talvolta brutale ed estremo, ma comunque (quasi) sempre sincero. Sono anni, quelli dell’inizio dei seventies, in cui il cinema osa spingersi oltre i limiti del rappresentabile, non solo per mere questioni commerciali, ma soprattutto per interpretare le urgenze di un epoca contraddittoria e affascinante, sognatrice e violenta, emancipata e oppressa, utopista e ipocrita, la cui asimmetricità può essere racchiusa nelle parole che la madre rivolge alla figlia nella scena iniziale di Last House on the Left (L’ultima casa a sinistra, 1972) di Wes Craven: “Tutto questo sangue, questa violenza…e io che pensavo che la vostra fosse la generazione dell’amore!”.

Forced Entry, diretto da Shaun Costello (qui nascosto dietro lo pseudonimo di Helmut Richler), è suddiviso in tre macro-sequenze (ognuna della durata di circa 25-30 min.), ed è la rappresentazione per immagini dell’asimmetria vissuta negli anni ’70, in cui il regista sostituisce al piacere della visione (cosa auspicabile in un porno), la ripulsa e il rifiuto di immagini così violente ed esplicite da risultare realmente “orrorifiche”. Il film, di difficile datazione (secondo il regista è del 1971, altre fonti riportano il 1973), probabilmente viene girato nell’autunno del 1971, e dati i tempi dilatati con cui viene realizzata la post-produzione, esce l’anno successivo (all’inizio del film compare un ritaglio di giornale che riporta la data Luglio 1972), ed è documento imprescindibile per comprendere l’atmosfera “libera e anarchica” in cui esso viene concepito e realizzato. Le parole dello stesso Shaun Costello appaiono particolarmente significative: “Durante l’estate del 1971, mentre continuavo ad interpretare e dirigere loops per Smitty, cominciai a pensare alla possibilità di realizzare un lungometraggio da distribuire nei cinema. Era l’ottavo anno della guerra del Vietnam e la nostra partecipazione a quella carneficina cominciava ad essere sotto gli occhi di tutti. Girare scene di sesso esplicito, all’epoca, era abbastanza facile sia per trovare gli attori che gli ambienti, ma realizzare un film con un “contenuto sociale” era molto difficile. Cominciai a scrivere una storia che ruotava attorno alle vicende di un reduce del Vietnam che ritorna a casa e viene privato del rispetto dovutogli, così chè decide di dichiarare guerra alla società e riversare le sue frustrazioni sulla popolazione femminile di New York. Le scene di sesso esplicito mi servivano per accrescere il tasso di violenza della pellicola: queste scene iniziano con lo stupro e terminano con l’omicidio. Il film pensavo di girarlo in due giorni utilizzando come set appartamenti di amici. I costi erano solo quelli della pellicola, una Eastman Kodak da 16mm., perchè per superare i 70min. di durata mi servivano 14 rulli. Alla fine il film mi costò in tutto $5000. Avrei voluto mettere più vittime nel film, ma il budget che avevo a disposizione non me lo permetteva. L’ultima scena è stata la più economica, perchè girata nel loft offertomi gratuitamente dalle due hippies che, sotto l’effetto di mescalina hanno “lavorato” per le quattro/cinque ore necessarie per girare la scena. Quello che si vede nel film è la ripresa della realtà, non c’è finzione..è un documentario!” (My first movie By Shaun Costello in After Hours Cinema 2007, traduzione Fabrizio Fogliato)

L’atmosfera di approssimazione, goliardia e istintività (anche un po’ folle) in cui viene ideato e portato a termine Forced Entry, è certificata ancora dalle parole del regista in merito alla fase di montaggio del film. Quello che traspare, in conclusione, nelle parole di Costello è comunque una malcelata soddisfazione per aver realizzato (consapevolmente?) qualcosa di unico, indipendentemente da quella che possa essere la qualità del prodotto: “Il tempo della post-produzione di Forced Entry fu un vero e proprio incubo, non perchè non avessi il materiale necessario ma perchè non avevo idea di come si fa a montare un film. Io e la mia compagna dell’epoca affittammo una stanza/ufficio nello stabile della A-1 Films Lab, per poter utilizzare la loro moviola e cominciare a visionare i vari take di ripresa; a quel punto cominciai a capire cosa dovevo fare: il film era già nella mia mente! Per girare il film ho impiegato due giorni, per montarlo cinque mesi e ho dovuto trovare altri $400. Una volta terminato il film, cominciai a cercare un distributore: io e la mia compagna c’eravamo detti che l’avremmo venduto a chi ci avesse offerto di più in termini di denaro. Un produttore indipendente di nome Gerry Intrator ci offrì $6.500. Intrator distribuì il film attraverso la Sherpix ottenendo un profitto modesto, perchè la combinazione di sesso e violenza, proposta in quel modo, non aveva appeal sul pubblico e allontanava gli spettatori dal cinema. Ma io ero soddisfatto. Avevo fatto il mio primo film. Non avevo chiara l’idea di cosa avevo fatto, ma con $6200 avevo scritto, prodotto e diretto un lungometraggio che trentacinque anni dopo è ancora visto dal pubblico”. (ibidem, traduzione F.Fogliato)

Joe (Tim Long [Harry Reems]) lavora in una piccola stazione di servizio all’incrocio tra la 7ªAvenue e Bedford Street, chiamata “Joe’s Friendly Service”. Seleziona le sue vittime in base agli indirizzi lasciati dalle sue clienti al momento del pagamento con carta di credito. La prima vittima (Jutta David) viene seguita a casa e spiata durante l’amplesso con il fidanzato David (Helmut Richler [Shaun Costello]). La seconda vittima (Laura Cannon) viene sorpresa sotto la doccia. Joe le aggredisce dopo aver preso con se pistola e coltello militare e aver attraversato la città come se si trattasse della giungla vietnamita. Infine le due hippies (Ruby Runhouse e Nina Fawcett), inconsapevolmente lo ridicolizzano inducendolo al suicidio.

Inutile negarlo, Forced Entry anticipa di un lustro Taxi driver (1976) di Martin Scorsese e funge da base di partenza per il Maniac (1980) di William Lustig (tra l’altro anche lui proveniente dal sottobosco hard con lo pseudonimo di Billy Bagg). Joe è dunque il “progenitore” di Travis Bickle. Joe, nome americano (per antonomasia) e cappellino con bandiera americana, si muove in una città grigia e caotica, immersa in una atmosfera paranoide, cupa e sporca, che nulla lascia all’immaginazione: non c’ differenza, anche formale, tra la New York di Costello e quella di Scorsese. In Forced Entry, New York è come Saigon, e tra la macchina da presa (rigorosamente, e solo, a mano) dell’operatore Joel Shapiro e le mitragliatrici imbracciate dai marines nelle foreste vietnamite non c’è alcuna differenza. Ad acuire (se possibile) il disagio di fronte alla visione di Forced Entry contribuisce la rappresentazione del sesso esplicito e il modo e i tagli con cui vengono ripresi gli atti sessuali. Il sesso è soffocante, claustrofobico, opprimente, “imprigionato” nel primo piano del volto delle vittime e nel dettaglio “deformato” (dall’uso insistito del grandangolo) del membro di Joe. La fellatio che anticipa il primo omicidio si chiude con il respiro affannoso della donna che offusca l’obiettivo della m.d.p. e con l’eiaculazione di Joe direttamente in camera. Mentre lo sperma cola sulla lente e altera la visione dell’insieme, l’uomo si rivolge alla donna: “Non ti è piaciuto vero? Beh … non è piaciuto neanche a me”; la donna si alza per fuggire, Joe la trattiene alle spalle e come un militare in azione le taglia la gola da dietro: lentamente e in primo piano.

Il continuo alternarsi di crude immagini di repertorio, sapientemente orchestrate lungo tutta la durata della pellicola, associate ad una rappresentazione violenta e primordiale dei rapporti sessuali, sintetizzano nell’opera di Costello la distonia repulsiva ingenerata dalla contiguità tra stupro e guerra. Suo malgrado (e involontariamente?) il regista newyorkese individua una “assurda” continuità tra gli orrori della guerra e quelli della violenza sessuale: l’orrore è nella società, intrinseco ad essa e connaturato all’essere umano, posto in un ambiente (la metropoli) che è incapace di riassorbirne il potenziale distruttivo (non a caso le immagini della Grande Mela e della sua quotidianità sono cupe, sporche, ossessive e confuse), tanto è vero che il sonoro del film insiste nel “trasformare” normali rumori cittadini in scariche di mitragliatrice, bombardamenti, roteare delle pale degli elicotteri e passi di marcia. Shaun Costello, tra audio e video, costruisce una architettura filmica imperniata sul montaggio analogico, restituendo un affresco di raggelante e straniante livore: associa i volti delle vittime di Joe con quelli delle donne vietnamite in attesa dell’esecuzione; la fellatio con il caricamento di un proiettile nell’obice, il flusso della folla di New York con quello delle strade di Saigon; il ritmo delle penetrazioni sessuali alla frequenza delle scariche di mitragliatrice.

di Fabrizio Fogliato

 

[continua]

La seconda parte la troverete, tra qualche giorno, su questo blog.

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