Fulminante ritratto di un’Italia egoista, miserevole, narcisa e senza speranza che sguazza e gode nell’amoralità.

Il dittico iniziale dell’opera registica di Claudio Gora (pseudonimo di Emilio Giordana) si presenta come asimmetrico e spiazzante rispetto ai modelli neorealistici dell’epoca: Il cielo è rosso (1950) tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Berto e Febbre di vivere (1953) liberamente ispirato al dramma “Cronaca” di Leopoldo Trieste raccontano, in modo quasi astratto e attraverso l’ossessione del riscatto a tutti i costi, storie archetipiche della società italiana del dopoguerra. Lo stile di Gora – che si manifesta nella sua pienezza solo nel dittico degli anni ’50 – è decisamente moderno per l’epoca visto che presenta tratti hitchcockiani, e opta per una costruzione filmica, diversa e bruciante, che alterna long-take narrative (e mai descrittive) a fulminanti primi e primissimi piani espressivi ed affettivi. Va inoltre sottolineato, nel merito, l’uso moderno dell’angolazione con immagini schiaccianti dall’alto ed esaltanti dal basso che hanno chiara matrice wellesiana e che – oltre a non essere mai fini a se stesse – mostrano una realtà perennemente incombente e minacciosa. Gora non è ottimista, mette in scena generazioni dissolute, incapaci di sentimenti, opportuniste e lubriche in cui ci sono padroni che, per i loro biechi interessi, sadicamente, manipolano e utilizzano servi ingenui e colpevoli (mai pienamente vittime). Il film esce “marchiato” con il divieto ai minori di 16 anni e presenta un finale vagamente conciliante con l’uomo e la donna che escono assieme dal commissariato, diverso rispetto all’ originale, cupo e disperato, con la donna che da sola si allontanava verso l’oscurità. In poco meno di un’ora e mezza, Febbre di vivere traccia il ritratto cronachistico della disillusione e dell’evanescenza di un frammento generazionale: lo fa con una misura e una furia inusuali e soprattutto mettendo in scena personaggi sgradevoli che si agitano in un sottobosco torbido e malsano.

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Massimo Fontana (Massimo Serato) è preoccupato per l’imminente uscita dal carcere del suo ex-socio Daniele Massa (Marcello Mastroianni). Massimo gestisce una sala corse e al momento vive una relazione piuttosto fragile con Elena (Anna Maria Ferrero) una giovane trasteverina. Le preoccupazioni di Massimo sono indirizzate nel cercare di capire che cosa sa Daniele del suo arresto di tre anni prima e quanto sa del suo diretto coinvolgimento. Mentre Daniele recatosi a casa dell’ex-socio cerca di mostrargli tutto il suo rancore e la sua voglia di rivalsa, Massimo, facendo leva sulla sua debolezza e sulla sua bontà, lo manipola nuovamente, lo coinvolge nel suo milieu di frequentazioni medio-borghesi e lo riavvicina a Lucia (Marina Berti), la quasi ex-fidanzata di Daniele di cui egli è ancora innamorato. Elena, scopertasi incinta confida tutto a Sandro (Sandro Milani), un amico di Massimo, il quale non tarda a venire a conoscenza della situazione, e mentre vive una nuova relazione con Lucia (che si è innamorata di lui), invita Elena ad abortire: questa dopo molte reticenze aspetta. Nel frattempo, trovatosi a corto di soldi, Massimo organizza una truffa durante una corsa di trotto a Villa Glori. Il piano fallisce e l’uomo si trova stretto tra la denuncia e il ritiro della licenza da una parte e dalle pressioni degli strozzini (a cui si è affidato per pagare i debiti) dall’altra. Massimo convince Sandro a farsi passare per il padre del figlio di Elena e a farsi dare da sua madre i soldi necessari perché la ragazza abortisca; Daniele viene a scoprire di essere finito in carcere a causa della denuncia dello stesso Massimo; Lucia cerca, inutilmente, di convincere Massimo a seguirla all’estero. Durante un discussione accesa e convulsa a casa di Massimo, vengono a galla tutte le verità e per impedire a Sandro di raccontare a Lucia la sua sull’aborto di Elena, Massimo lo colpisce con un pugno e lo uccide accidentalmente e per dargli l’apparenza di un incidente simula che il ragazzo ubriaco sia caduto dalla finestra: Lucia e Daniele assistono attoniti e impotenti di fronte all’agire dell’amico. Di fronte all’ennesima recita di Massimo all’obitorio Lucia decide di parlare e di denunciare se stessa e i due uomini. Massimo viene portato in carcere e Lucia e Daniele lasciati liberi dal commissario.

Lo spaccato sociale di Febbre di vivere è rappresentato da Claudio Gora attraverso scelte registiche decisamente azzardate al punto da costituire una vera e propria sfida nei confronti di uno spettatore, all’epoca, non abituato ad angolazioni vertiginose e a movimenti di macchina vorticosi e complessi realizzati in spazi particolarmente angusti. È evidente l’intento del regista di impedire ai personaggi qualsiasi via di fuga all’interno di inquadrature in cui la macchina da presa è perennemente schiacciata sui loro corpi e sui loro volti, mentre il montaggio, frenetico e sincopato, racconta la frenesia della vita di uomini e donne che vogliono bruciare tutto e subito. Febbre di vivere si segnala anche per una greve quanto pungente ironia nei confronti del neorealismo, il genere “eletto” del periodo. Nella sequenza al Kursaal di Castel Fusano un gruppo di borghesi annoiati e fatui sono protagonisti di un dialogo in cui ad una donna che dice: “Pensa che domani mattina devo alzarmi presto. Le prove sono alle undici. Peccato che lui non sia tornato prima. Non trovi che sarebbe stato perfetto per la scena sul neorealismo? Lei sa recitare?”, un’altra risponde: “Oggi è di moda la gente presa dalla strada. Tutti sanno recitare…”. Oltre a quel “Lei sa recitare?” diretto a Marcello Mastroianni – mettendo così in scena un lucido approccio metacinematografico – colpisce il sarcasmo con cui viene dileggiato un modo di fare cinema “imposto” (non a caso rarissimi sono i successi commerciali di film appartenenti a tale corrente artistica) da una critica di parte.

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Febbre di vivere è un film in cui si racconta l’oscuro e lattiginoso budello che prelude al boom economico. Nella pellicola infatti il motore di ogni rapporto (personale e non) è il denaro per il quale tutti sono disposti a diventare traditori di tutti. Risulta particolarmente incisivo il fatto che la vittima-colpevole-servo di questo film abbia come cognome Massa, diventando così l’archetipo di una società in via di massificazione. Daniele Massa è giovane e si trova, colpevolmente schiacciato da un coacervo di padroni immersi in uno stile di vita al limite del patologico. Quella di Febbre di vivere è una microsocietà rappresentativa di un intero paese: un’Italia egoista, miserevole, narcisa e senza speranza che sguazza e gode nell’amoralità. Massimo, che di questa società è l’archetipo è un cittadino-medio fotografato nell’istante di passaggio a spettatore passivo della propria esistenza.

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L’inquadratura iniziale presenta Massimo intento a firmare cambiali per cambiare l’automobile acquistata appena una settimana prima e si chiude con le sue parole rivolte al gestore del concessionario: “Tanto poi non te le pago”. Le inquadrature che seguono – e che evidenziano da una parte il narcisismo di Massimo e dall’altra un misto di invidia e ammirazione della sua “corte” – mostrano tutta la leggerezza e la banalità del male che attraversano il film. Febbre di vivere, altro non è, infatti, che lo sviluppo per immagini della frase che – circa a metà film – Daniele rivolge a Lucia: “Massimo non accetterà mai… La sua forza è qui, in questo piccolo cerchio di snob e di affari torbidi che lui riesce a dominare”. Massimo è un uomo che mente in continuazione, che sprigiona un fascino ambiguo attraverso cui manipola i suoi subalterni, che recita perennemente una parte e che, con camaleontica maestria, cambia atteggiamento e personalità a seconda delle circostanze.

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Colpisce – in un film prevalentemente parlato come è Febbre di vivere – la persistente attenzione all’apparecchio telefonico. L’utilizzo di questo sostituisce la comunicazione verbale e amplifica l’incomunicabilità tra i personaggi. Le continue inquadrature ravvicinate sul telefono attraversano il film come una costante volta a rappresentare il vuoto che anima i personaggi protagonisti e, non a caso, nel finale convulso – quando servirebbe per soccorrere Sandro – il telefono o non funziona o è perennemente occupato. Parallelamente ai temi dell’egoismo e dell’incomunicabilità, ad un terzo del film, si inserisce il tema del gioco attraverso cui il regista mostra come Massimo vive all’azzardo, sempre sul limite e sempre a carte coperte, pronto a rilanciare in continuazione. Quello di Massimo è un sistema di regole, personale e intimo, in cui lui e i suoi subalterni si muovono navigando a vista. Lo dimostra l’episodio in cui la sala corse deve pagare ad un cliente gli arretrati di una vincita in cui uno dei due tirapiedi di Massimo si appella al regolamento – ben sapendo che è proprio il suo capo a vivere fuori dalla regole. Massimo, pur di raggiungere i suoi scopi, è disposto ad agire sulle corde emotive di ogni persona che si trova di fronte e, da abile manipolatore qual’è, è capace di intuire quali sono i tasti da toccare per far scendere gli altri al proprio servizio.

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Nel clan di Massimo Fontana, Lucia entra come un corpo estraneo (tutti coloro che la incontrano ne parlano come di una ragazza “strana”), che, in quanto occhio esterno diventa giudice morale dei comportamenti altrui – come dimostra la sua battuta pronunciata al locale dove si balla: “Ballano per un penoso dovere… mi ero fatta un’altra idea della vita brillante”. A questo primo smarcamento fa seguito l’innamoramento nei confronti di Massimo che avviene durante lo svolgersi della corsa truccata all’ippodromo di Villa Glori. Qui Massimo, con ostentata sbruffoneria, invita Daniele a giocare dei soldi su quello che sa benissimo essere un cavallo perdente (ma che invece vincerà la corsa mettendo sul lastrico il truffatore). Lucia – consapevole del fatto che l’uomo sia un truffatore e un laido opportunista – accetta (da innamorata) qualunque suo comportamento nella convinzione di poterlo redimere una volta allontanato dal mondo delle corse. I servi di Massimo sono destinati a moltiplicarsi per partenogenesi e la resa dei conti – che dovrebbe mettere ognuno di fronte alle proprie responsabilità – anziché diventare risolutrice si trasforma nell’ennesima messa in scena di Massimo che maschera la morte di Sandro come un suicidio. L’omertà e compiacenza di Daniele e di Lucia fanno il resto al punto che, ancora una volta, Fontana sembra poterne uscire pulito e immacolato.

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L’approccio morale di gora si manifesta attraverso la spiazzante inquadratura hitchcockiana a seguito dell’accertamento della morte di Sandro: un’inquadratura dal basso verso l’altro, perfettamente simmetrica, con il soffitto incombente sui tre protagonisti, Massimo (al centro), Lucia (alla sua sinistra), e Daniele (alla sua destra), perfetta rappresentazione del destino ormai segnato dei tre. L’inquadratura infatti richiama alla “mano di Dio” che schiaccia chi si macchia, senza rimorso, di comportamenti abbietti e immorali e, figurativamente, rappresenta la buca che il maligno si scava da sé come richiamato nella citazione biblica di apertura. Febbre di vivere è il ritratto al vetriolo di una generazione giovane e sbandata, inadatta a gestire l’improvviso benessere piovuto sul paese ma è, allo stesso tempo, un ritratto di uomini e donne incapaci (perché non li conoscono e nessuno glieli ha insegnati) di trovare mezzi e strumenti leciti per riscattarsi dalla miseria precedente. Massimo è un “italiano-medio” così come lo sono Daniele e Lucia: figli della guerra che, inconsapevolmente, ne hanno interiorizzato le brutture e le crudeltà e che agiscono attraverso un impulso e un istinto autodistruttivo.

di Fabrizio Fogliato

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