Tag

cittadino-medio

Browsing

JACOPETTI FILES Biografia di un genere cinematografico italiano

Rassegna Stampa – Marzo/Aprile 2017

JACOPETTI FILES – Elaborando un autore (controverso)

[…] Trasversale perché Gualtiero Jacopetti – per noi – è il nome attorno a cui nei primi anni’60 si consolida una vera e propria factory (Franco Prosperi, Paolo Cavara, Stanis Nievo, Antonio Climati, Mario Morra) che dopo l’opera iniziale Mondo cane subirà una vera e propria diaspora in cui ogni protagonista continuerà – a modo suo – l’indagine attorno al mondo iniziata dal capostipite. Insomma rimarranno tutti legati al genere di riferimento e – in qualche modo – cercheranno di dare versioni e declinazioni personali del mondo movie. Segmentata perché nel libro sono presi in considerazione ben diciotto film – compresa l’opera degna e meritoria di riscoperta di Alfredo e Angelo Castiglioni – che indagano il genere e che da Jacopetti progressivamente si allontanano sempre più.

dall’intervista a  cinemaitaliano.info

Leggi l’intera rassegna stampa con recensioni, interviste radio, interventi di scrittori ed esperti… e tanto altro ancora

IL PREFETTO DI FERRO (1977) di Pasquale Squitieri

Una guerra combattuta in prima persona in rappresentanza dello stato di diritto: un western duro, freddo e dal taglio futurista.

Girato con taglio americano, impregnato di umori nostrani, Il Prefetto di ferro, diretto da Pasquale Squitieri nel 1977 è un rarissimo esempio di film italiano con protagonista un eroe positivo. Cesare Mori, è un italiano tutto d’un pezzo, un uomo saggio e tenace pervaso da una profonda etica e da un senso morale legato all’essere un dipendente dello Stato. In sintesi, un uomo di Stato capace di interpretare e divulgare al meglio il rispetto della legge. Il Prefetto di ferro è un film in grado di colpire l’immaginario collettivo, allora come oggi, proprio grazie ad una messa in scena asciutta e raffinata costruita per lasciare ampio spazio alle gesta e al pensiero di Cesare Mori. Un film “americano”, che piace agli americani, al punto da essere invitato per una proiezione privata alla Casa Bianca, come racconta lo stesso Pasquale Squitieri:

Il film sbarca negli Stati Uniti per la Settimana del cinema italiano a New York. Tornato in albergo Claudia, Giuliano ed io, troviamo due funzionari della C.I.A. che ci dicono che il film Iron Prefect (Il Prefetto di ferro) è stato invitato dal Presidente Carter per una proiezione alla Casa Bianca (…) Noi rimaniamo sbalorditi da questa cosa, ma tutto va come previsto dai due funzionari e io mi porto dietro una cinepresa perchè dico: “Chi ci        crederà mai?”. Ci portano nella stanza del caminetto, dove ci mettiamo seduti, abbastanza           intimiditi, Claudia, Giuliano ed io e dopo un po’ arrivano Elizabeth Taylor, Gregory Peck, …insomma mezza Hollywood. Arriva il Presidente Jimmy Carter, me lo presentano, andiamo in proiezione. Proiettano il film, applausi e poi la cena. Poi andai a parlare col Presidente con quel poco di inglese che mastico, e ringraziandolo gli chiesi perchè mi aveva       invitato. Lui mi rispose che per la prima volta ha visto un italiano tutto d’un pezzo, un italiano di profonda onestà (…). inutile dire che di questo evento, che non si è mai più ripetuto, uscirono tre righe sul Corriere della Sera…” [Silvia D’Amico Benedicò, Gioia Magrini, Roberto Meddi, A proposito di …, Intervista a Pasquale Squitieri in Extra DVD Il Prefetto di ferro, Medusa, Milano, 2009]
pasquale-squitieri

JACOPETTI FILES Biografia di un genere cinematografico italiano

Rassegna Stampa – Gennaio/Febbraio 2017

Capitolo in passato poco approfondito, quello dei Mondo Movie ha ricevuto in sede critica un’attenzione inferiore a quella che forse avrebbe meritato, come d’altra parte è accaduto per i creatori di tale innovativo sottogenere documentaristico, Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi. A colmare tale mancanza è Jacopetti files. Biografia di un genere cinematografico italiano, volume curato da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione (Edizione Mimesis, 2016), che si pone proprio l’obiettivo di prendere in esame quelli che evocativamente sono stati denominati “shockumentary“. […]

In una silloge esaustiva di materiali editi e inediti, a cui si accompagna in ultimo un inserto fotografico e che è preceduta dall’acuta prefazione di Nicolas Winding Refn, Fogliato e Francione cercano di fornire un ritratto, frammentario e poliedrico, frutto di un lungo e compiuto lavoro d’archivio che meglio di ogni trattazione limitatamente storica o critica è forse capace di descrivere le molteplici reazioni alle problematiche pellicole documentarie di Jacopetti e Prosperi.

[ilcineocchio.it]

Leggi l’intera rassegna stampa con recensioni, interviste radio, interventi di scrittori ed esperti… e tanto altro ancora

BLUE NUDE (1977) di Luigi Scattini

Il sesso, la sua manifestazione più brutale (cioè la pornografia), e il coinvolgimento emotivo diretto destabilizzano le convinzioni di un uomo capace di ragionare solo ed esclusivamente in base ai suoi sogni

Quando Luigi Scattini, parte per l’America per girare quello che sarà il suo ultimo film da regista, Blue nude, il cinema hard in Italia cominciava a fare il suo ingresso e, proprio il 15 novembre 1977, una sala cinematografica di Milano, il Majestic, espone fuori dalla porta d’ingresso del locale una lampada con la luce rossa intermittente per segnalare il cambio di programmazione, aprendo, così, la strada alla proiezione di film “a luce rossa” (appunto) in tutta la penisola. Sono anni, questi, in cui il film hard circola clandestinamente in qualche cineclub (soprattutto Exhibition (1975) di Jean-François Davy con la star d’oltralpe Claudine Beccarie), alcuni amatori ne fanno richiesta via posta per ricevere carissimi loops in super-8 (provenienti dal Nord Europa della Danimarca e della Svezia) e dove riviste come “Le Ore e “Man” propongono le prime immagini di sesso esplicito su carta stampata.

1173_blue_nude

Aristide Massaccesi (Joe D’Amato) emigra nei caraibi e gira film con doppie versioni (soft e hard) per il mercato interno e quello estero prima di girare il pacchetto – di quattro film caraibici (a Santo Domingo) esplicitamente pornografici – che alla fine del decennio darà il via alla produzione dell’hard nostrano. Franco Lo Cascio si inventa distributore e comincia ad importare dall’estero pellicole a tripla “X” da distribuire in Italia in maniera clandestina e attraverso mille ostacoli e divieti. Resta il fatto che tutto questo riguarda una piccola nicchia di pubblico, mentre per la massa l’hard rimane qualcosa di misterioso e “leggendario”, legato ai racconti di quei pochi “fortunati” che hanno fatto viaggi nel Nord Europa o degli emigranti di ritorno dagli Stati Uniti. Ecco, quindi, che Blue nude di Luigi Scattini, oltre a spalancare le porte della produzione hard allo spettatore del tempo, diviene il primo film italiano ad affrontare l’argomento nonché un vero e proprio anticipatore di film come Hardcore (1979) di Paul Schrader.

I PROSSENETI (1976) di Brunello Rondi

Un funerale collettivo, in cui tutti sono colpevoli…e nessuno è colpevole.

Prosseneta: Voce colta di origine greca; prosseneta significava in origine “aiutatore degli ospiti”, consigliere, guida, intermediario (nell’antica Grecia il pròsseno era il cittadino incaricato della protezione degli stranieri), mentre oggi sta per ruffiano e mezzano. I prosseneti, uscito nelle sale il 28 Aprile 1976 visibile oggi, solo grazie al passaggio in TV della durata di 90′ 32” (ma registrato in visto censura come 105′), è il decimo film da regista di Brunello Rondi: “Velleitario tentativo di denunciare la mercificazione di cui la donna è oggetto nella nostra società” (Centro Cattolico Cinematografico). Così il CCC liquidava questo film (centrando comunque appieno le intenzioni del regista) non tenendo in considerazione però che la denuncia della mercificazione del corpo femminile è solo una parte di quest’opera costruita narrativamente e figurativamente come una sorta di kemmerspiel esistenziale.

220px-Brunello_Rondi

L’unità di luogo, cioè la villa e lo spazio a bordo piscina in cui si svolgono gran parte delle azioni non potrebbero esistere se non attraverso l’astrazione di un non-luogo immaginario, in cui agiscono i vari personaggi. Il non-luogo prende forma attraverso le stanze della casa-teatro, raccontate come spazi scenici in cui ogni cliente replica (con tanto di maschere e scenografie) stati d’animo turbati e passaggi vitali colmi di rimpianto e mai riconciliati: in tutto ciò la donna assolve all’unico ruolo possibile (secondo la società dei consumi), quello di un essere taumaturgo in grado – con la sua sola presenza – di guarire, o meglio, temporaneamente alleviare le sofferenze di uomini psicolabili e insicuri. È la stessa contessa Gilda a dichiarare le intenzioni dell’agire suo e di suo marito: “Le nostre camere non devono più sembrare camere normali ma… teatri, quadri di illusione…”, così come più tardi sarà un cliente che, rivolto alla prostituta Odile, dirà: “E il mio teatrino…tu devi soltanto obbedire e basta”.

FEBBRE DI VIVERE (1953) di Claudio Gora

Fulminante ritratto di un’Italia egoista, miserevole, narcisa e senza speranza che sguazza e gode nell’amoralità.

Il dittico iniziale dell’opera registica di Claudio Gora (pseudonimo di Emilio Giordana) si presenta come asimmetrico e spiazzante rispetto ai modelli neorealistici dell’epoca: Il cielo è rosso (1950) tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Berto e Febbre di vivere (1953) liberamente ispirato al dramma “Cronaca” di Leopoldo Trieste raccontano, in modo quasi astratto e attraverso l’ossessione del riscatto a tutti i costi, storie archetipiche della società italiana del dopoguerra. Lo stile di Gora – che si manifesta nella sua pienezza solo nel dittico degli anni ’50 – è decisamente moderno per l’epoca visto che presenta tratti hitchcockiani, e opta per una costruzione filmica, diversa e bruciante, che alterna long-take narrative (e mai descrittive) a fulminanti primi e primissimi piani espressivi ed affettivi. Va inoltre sottolineato, nel merito, l’uso moderno dell’angolazione con immagini schiaccianti dall’alto ed esaltanti dal basso che hanno chiara matrice wellesiana e che – oltre a non essere mai fini a se stesse – mostrano una realtà perennemente incombente e minacciosa. Gora non è ottimista, mette in scena generazioni dissolute, incapaci di sentimenti, opportuniste e lubriche in cui ci sono padroni che, per i loro biechi interessi, sadicamente, manipolano e utilizzano servi ingenui e colpevoli (mai pienamente vittime). Il film esce “marchiato” con il divieto ai minori di 16 anni e presenta un finale vagamente conciliante con l’uomo e la donna che escono assieme dal commissariato, diverso rispetto all’ originale, cupo e disperato, con la donna che da sola si allontanava verso l’oscurità. In poco meno di un’ora e mezza, Febbre di vivere traccia il ritratto cronachistico della disillusione e dell’evanescenza di un frammento generazionale: lo fa con una misura e una furia inusuali e soprattutto mettendo in scena personaggi sgradevoli che si agitano in un sottobosco torbido e malsano.

url

Massimo Fontana (Massimo Serato) è preoccupato per l’imminente uscita dal carcere del suo ex-socio Daniele Massa (Marcello Mastroianni). Massimo gestisce una sala corse e al momento vive una relazione piuttosto fragile con Elena (Anna Maria Ferrero) una giovane trasteverina. Le preoccupazioni di Massimo sono indirizzate nel cercare di capire che cosa sa Daniele del suo arresto di tre anni prima e quanto sa del suo diretto coinvolgimento. Mentre Daniele recatosi a casa dell’ex-socio cerca di mostrargli tutto il suo rancore e la sua voglia di rivalsa, Massimo, facendo leva sulla sua debolezza e sulla sua bontà, lo manipola nuovamente, lo coinvolge nel suo milieu di frequentazioni medio-borghesi e lo riavvicina a Lucia (Marina Berti), la quasi ex-fidanzata di Daniele di cui egli è ancora innamorato. Elena, scopertasi incinta confida tutto a Sandro (Sandro Milani), un amico di Massimo, il quale non tarda a venire a conoscenza della situazione, e mentre vive una nuova relazione con Lucia (che si è innamorata di lui), invita Elena ad abortire: questa dopo molte reticenze aspetta. Nel frattempo, trovatosi a corto di soldi, Massimo organizza una truffa durante una corsa di trotto a Villa Glori. Il piano fallisce e l’uomo si trova stretto tra la denuncia e il ritiro della licenza da una parte e dalle pressioni degli strozzini (a cui si è affidato per pagare i debiti) dall’altra. Massimo convince Sandro a farsi passare per il padre del figlio di Elena e a farsi dare da sua madre i soldi necessari perché la ragazza abortisca; Daniele viene a scoprire di essere finito in carcere a causa della denuncia dello stesso Massimo; Lucia cerca, inutilmente, di convincere Massimo a seguirla all’estero. Durante un discussione accesa e convulsa a casa di Massimo, vengono a galla tutte le verità e per impedire a Sandro di raccontare a Lucia la sua sull’aborto di Elena, Massimo lo colpisce con un pugno e lo uccide accidentalmente e per dargli l’apparenza di un incidente simula che il ragazzo ubriaco sia caduto dalla finestra: Lucia e Daniele assistono attoniti e impotenti di fronte all’agire dell’amico. Di fronte all’ennesima recita di Massimo all’obitorio Lucia decide di parlare e di denunciare se stessa e i due uomini. Massimo viene portato in carcere e Lucia e Daniele lasciati liberi dal commissario.

ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri (prefazione di Davide Pulici)

Rassegna Stampa – Estate 2016

A distanza di un anno dalla sua uscita il variegato mondo della critica sembra non voler distogliere l’attenzione da “ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri”(prefazione di Davide Pulici).

http://www.italiaultimoatto.it/

 

Nella storia del cinema italiano di Fabrizio Fogliato, ad esempio, non c’è spazio per i nomi che…”ci hanno sempre detto” essere la storia del cinema italiano. Niente Rossellini, De Sica, Visconti, Germi, Fellini, Visconti, Antonioni, Ferreri, insomma. Infatti Fogliato ha apostrofato il suo Italia: Ultimo Atto come l’altro cinema italiano. Un altro cinema, che molto difficilmente troverebbe spazio nei corsi universitari standard; e – o meglio, perché – un cinema altro, escluso dai canoni ufficiali in quanto impegnato a cercare strade non convenzionali, forse per la critica troppo poco intellettuali e grammaticalmente ortodosse ma non per questo meno coraggiose e, nei risultati migliori, meno riuscite. [cineclandestino.it]

Fogliato parte da Sole (1928/’29), film d’esordio di Blasetti, e Rotaie (1929) di Camerini (non proprio due sconosciuti, ma batta un colpo chi ha visto questi due film!), per arrivare – quando già imperversavano, come facce opposte di una stessa medaglia, la commedia scollacciata e le città violente, nere e a mano armata – a massimo Pirri, a cui giustamente dedica l’epilogo del suo viaggio. Finalmente diremmo, un’analisi del cinema di Pirri (significativa l’intervista a corredo) contestuale a un racconto dell’Italia e delle immagini d’Italia su grande schermo.
Un libro per chi non si accontenta dei racconti ufficiali. [cinequanon.it]

Leggi le recensioni integrali

ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri (prefazione di Davide Pulici)

Cineclandestino.it – Recensione a cura di Riccardo Nuziale

Ad oltre un anno dalla sua uscita – e in attesa del secondo volume – continua il grande successo di critica e di pubblico di “ITALIA: ULTIMO ATTO. L’altro cinema italiano” di Fabrizio Fogliato.

Italia, raccontaci un’altra storia! – Recensione di Riccardo Nuziale – 17 Giugno 2016 –

Nella storia del cinema italiano di Fabrizio Fogliato, ad esempio, non c’è spazio per i nomi che…”ci hanno sempre detto” essere la storia del cinema italiano. Niente Rossellini, De Sica, Visconti, Germi, Fellini, Visconti, Antonioni, Ferreri, insomma. Infatti Fogliato ha apostrofato il suo Italia: Ultimo Atto come l’altro cinema italiano. Un altro cinema, che molto difficilmente troverebbe spazio nei corsi universitari standard; e – o meglio, perché – un cinema altro, escluso dai canoni ufficiali in quanto impegnato a cercare strade non convenzionali, forse per la critica troppo poco intellettuali e grammaticalmente ortodosse ma non per questo meno coraggiose e, nei risultati migliori, meno riuscite.

leggi l’intera recensione

LA PROPRIETA’ NON E’ PIU’ UN FURTO (1973) di Elio Petri

Un padrone, un popolo… il denaro

 

Diretto da Elio Petri nel 1973, La proprietà non è più un furto è l’ultimo capitolo della trilogia dedicata al potere. Questo film arriva dopo l’analisi del potere istituzionale di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e dopo quella del potere padronale di La classe operaia va in paradiso. Alla sua uscita, l’ultimo capitolo della trilogia di Petri venne aspramente criticato dalla sinistra dell’epoca e (cosa che fece più male al regista), letteralmente massacrato dai propri colleghi. Se apparentemente il film sembra meno riuscito dei due precedenti (e in effetti lo è), in realtà si tratta di un’opera profetica in grado di delineare, seppur in maniera confusa e approssimativa, le dinamiche socio-economiche di un’Italia proiettata nei rampanti anni ’80. Volutamente sgradevole e volgare La proprietà non è più un furto rappresenta lo specchio incrinato di una società traumatizzata dall’improvvisa mancanza di benessere, alla disperata ricerca di quel “boom” che pochi anni prima ha fatto dell’Italia uno dei paesi più industrializzati d’Europa.

Il giovane ragionier Total (Flavio Bucci), allergico al denaro altrui fino a violente forme di irritazione cutanea, decide di abbandonare il posto in banca per dedicarsi interamente alla persecuzione di un ricco macellaio romano (Ugo Tognazzi). Marxista-mandrakista, come si definisce all’ombra di un manifesto di Mandrake il mago, il ragioniere non lesina dispetti per angosciare il macellaio: gli ruba il coltello, il cappello, i gioielli dell’amante/proprietà Anita (Daria Nicolodi), finché si mette alla scuola di un ladro esperto detto “Alberatone” (Mario Scaccia), per diventare sempre più pericoloso. Ma Total è destinato a scoprire che i furtarelli non scuotono la fiduciosa tracotanza di un capitalista, anzi l’attività dei ladri non è altro che una modesta caricatura della lotta di classe e si integra nel sistema. Cosi il ladro professionista muore in questura, mentre Total fa anche lui una brutta fine…

MILANO ROVENTE (1973) di Umberto Lenzi

In ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

 

nucleo centrale e rivelatore del film che trasforma Milano rovente da film d’azione in dramma sociale, è contenuto nella scena della confessione di Salvatore Cangemi dopo l’amplesso consumato con Jasmine. Il lungo monologo appare esaustivo delle intenzioni dell’autore e spiega al meglio come, durante la fuga, Salvatore prima dica a Virginia (compaesana avviata alla prostituzione da un mezzano che si spaccia per cugino): “Prendi la bambina e tornatene al paese. Vai via da questa merda fin che sei in tempo” e poi, recatosi al capezzale della madre morente, si senta dire da lei: “No figlio, io non vedrò più il paese, ma tu si… Questa non è vita per te…”. E’ la madre a rivelare a Cangemi la sua natura e quindi la sua inadeguatezza, quella che egli stesso ha sempre voluto mettere a tacere nella speranza di riuscire, costi quel che costi, ad affermarsi e a farsi accettare nonostante il suo essere “terrone”.