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FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 7

L”obiettivo può essere raggiunto solo attraverso una libera e completa adesione dei due giocatori: il carnefice e la vittima.

Il crescere progressivo dell’interazione tra le due parti al di qua e al di la dello schermo, arriva al punto di svelare il meccanismo cinematografico. Paradossalmente questo avviene in netto contrasto con il volere dello spettatore perché, quando Anna uccide Paul, è il momento in cui trionfa la giustizia. Ma questo avviene nelle regole della società mentre cinicamente Haneke le sovverte e “resuscita” Peter: il gioco deve continuare e un elemento così importante non può essere eliminato. Haneke riesce anche nell’intento di far esultare lo spettatore per un omicidio, mettendo così a nudo la sua “propensione” al male e il suo sadismo voyeuristico.

Ci inganna promettendoci una verità, mentre poi la trasgredisce in un gioco quasi perverso tra l’attesa e la delusione dell’attesa, tra l’enunciazione delle regole e la loro infrazione.[i]

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 6

Il gioco comincia con una scommessa: le vittime designate non rimarranno in vita più di dodici ore.

Funny Games si alimenta dell’indeterminatezza e dell’imprevedibilità del gioco. Quando si inizia a giocare non si sa né quali saranno gli sviluppi futuri né quando il gioco terminerà. Ci sono delle regole, si seguono quelle e si vede che cosa succede. Funny Games costruisce delle sue regole personali che – per quanto assurde possano sembrare – sono in realtà molto tangibili e concrete. La tensione e la crudeltà presenti nel film sono talmente particolari che non svelano mai il carattere teorico e di rappresentazione di ciò che è mostrato.

BAD LIEUTENANT (1992) di Abel Ferrara – Capitolo 7: La confessione della monaca. Mitopoiesi del Sacro nella scena inedita del film

Una chiesa centro del mondo; dove si intrecciano, a causa della violenza, le componenti dell’umano e del divino.

Gesù è morto per salvare l’umanità dai suoipeccati e dunqueè più che naturale che il tenente – ormai devastato fisicamente e psicologicamente – entri in chiesa e chieda perdono. Una chiesa dove sull’altare è stato versato lo sperma degli stupratori e il sangue virginale della suora, due sostanze dove si mescolano il sacro del divino e il profano dell’uomo. Una chiesa centro del mondo; dove si intrecciano, a causa della violenza, le componenti dell’umano e del divino e dentro la quale Cristo è presente pronto a ricevere gli insulti della disperazione umana e ad essere accusato di indifferenza dal tenente. Nell’abisso della disperazione Lt ritrova Dio, un Dio silenzioso che con il suo sguardo misericordioso e la sua sola presenza, in un istante ne riscatta l’intera vita, lo solleva nell’empireo della Grazia e lo conduce al perdono.

AUTOFOCUS (2002) di Paul Schrader – Parte Seconda

E Dio disse a Caino: guarda come ti ammazzo una star della televisione

Il sesso e la sua consumazione, orgiastica e seriale, l’accumulo di corpi femminili ogni volta diversi e sempre uguali, si susseguono nella vita di Crane, il quale preso nel delirio di onnipotenza garantitogli da Hogan’s heroes, tenta di riprodurre e replicare all’infinito i suoi incontri sessuali rendendoli “eterni” attraverso l’impressione su nastro e prodigandosi in un lavoro/dipendenza in cui colleziona polaroid che certificano le diversità dei caratteri sessuali delle donne che incontra, focalizzando prevalentemente la sua attenzione sul seno (come testimonia il “montaggio sequenziale” in cui Schrader mostra seni di ogni tipo, età ed epoca, come a voler rappresentare un tipo di maschio esistente da sempre). Bob Crane, è affetto da una solitudine persistente e patologica,   ed è chiuso in un concetto di sessualità infantile e coatto, come dimostra la scena della consumazione onanistica degli home movies pornografici da parte di John e Bob nella taverna della casa di Patty. Il suo dunque, nell’ottica integralista e calvinista di Schrader è un “peccato mortale” perchè legato al raggiungimento di un piacere vuoto e momentaneo, slegato da qualsivoglia implicazione sentimentale: stando così le cose appare quasi inevitabile, quindi, che l’espiazione della colpa passi attraverso la morte. La morte “di finzione” di Bob Crane mostrata in Autofocus, non è molto dissimile da quella documentata dalla sua biografia e testimoniata dalle vicende seguenti il ritrovamento del suo cadavere.

AUTO FOCUS WILLEM DAFOE, GREG KINNEAR Ref: 11881 Supplied by Capital Pictures *Film Still - Editorial Use Only* Tel: +44 (0)20 7253 1122 www.capitalpictures.com sales@capitalpictures.com (F/SD012)

Nell’edizione finale del film, Paul Schrader ha (giustamente) eliminato la scena in cui viene mostrato il ritrovamento del corpo esanime di Crane da parte di Victoria Berry, sua compagna di lavoro nella piece teatrale Beginner’s Luck. Nel momento in cui la donna entra nell’appartamento, ancora ignara dell’accaduto, è testimoniata tutta la parabola auto-distruttiva dell’attore, e il luogo stesso (l’appartamento al Windfield Complex) assume valore metaforico nella sua “messa in scena” scenografica. Nel documentario Murder in Scottsdale (id., 2001) di David Naylor il ritrovamento del cadavere di Bob Crane, alle 13.00 del 29 Giugno 1978 è raccontato con dovizia di particolari dalla viva voce di Stephen Avilla, l’avvocato difensore di John Carpenter e da quella di Jim Raines, all’epoca procuratore della contea di Marcopa: “L’appartamento è completamente buio, non si riesce a vedere all’interno senza accendere la luce. Crane aveva messo delle tende molto scure per nascondere tutta la pornografia che aveva e le fotografie cui stava lavorando, oltre che nascondere quello che faceva giorno e notte con le donne che portava lì. Quindi, quando Victoria apre la porta, passa dalla luce accecante del sole dell’Arizona alle 13.00 del mattino alla stanza buia dell’appartamento di Crane. Entrata, si chiude la porta alle spalle. A quel punto è estremamente buio e lei non accende la luce. Chiama Bob ma non riceve risposta, si addentra ulteriormente nell’appartamento e nota che la porta della camera da letto è socchiusa. E’ tutto oscurato. Le tende sono tirate. Si avvicina alla porta, guarda dentro e vede il contorno indistinto di qualcuno sul letto. Si avvicina convinta che si tratti di una donna visto che la zona della testa è più scura. A quel punto nota che si tratta di sangue, sangue coagulato”.

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Gli agenti intervistati nel documentario parlano di una scena del delitto caotica in cui c’è gente che fuma, che telefona. Scottsdale è un piccolo centro di provincia, e la polizia di non è abituata agli omicidi di celebrità, così si trova per le mai un caso più grande di lei, difficile da gestire e da controllare. Gli indizi conducono a John Carpenter come principale indiziato, ma né le indagini del 1978 né quelle di dieci anni dopo ordinate dal nuovo procuratore della contea di Marcopa Richard Romley, che fa riaprire le indagini anche per interessi politici ed elettorali, portano alla soluzione del caso. Nel 1988 John Carpernter va a processo, un processo indiziario, che si risolve con la soluzione dell’imputato che successivamente muore di infarto all’età di settantadue anni. Ma questa parte processuale non interessa al regista, che concentra la propria attenzione sulla parabola esistenziale del protagonista. Paul schrader, attraverso il racconto dell’ascesa e del declino dell’attore, ambisce a costruire la rappresentazione, distonica e alterata, dell’ “American way of life”; lo fa frammentando e distruggendo il concetto di successo (e della presunta felicità ad esso collegato), inteso come mitizzazione dell’individuo (e di conseguenza spersonalizzazione dello stesso). Bob Crane, una volta divenuto popolare, impara a costruirsi una identità fittizia e onnipotente in cui convivono, contemporaneamente, il buon padre di famiglia (premuroso con i figli e pacato con la mogli) e il dipendente dal sesso (onnivoro e insaziabile). Il sesso nella vita di Bob Crane agisce da moneta di scambio per affermare (comprare) la propria personalità: faccio sesso con centinaia di donne che vengono con me solo perchè sono Bob Crane, quindi esisto non solo come immagine. Anche durante gli amplessi, in fondo, Crane non fa niente altro che interpretare una parte, quella che lui stesso si è cucito addosso, evocata già dalla voce-off in prima persona che chiude la prima scena del film: “Io ho sempre voluto farmi notare. Avete presente il tipo no? Ce n’è uno in ogni classe: lo sbruffone. Eddie Cantor mi disse che piacere è già il 90% dell’opera… e aveva ragione. Beh! Quello sono io. Un tipo che piace”.

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L’edonismo, l’apparire , il “piacere” (inteso anche come stato di estasi sessuale), vengono dipinti da Schrader come qualcosa di momentaneo, legato al concetto filosofico di “permanenza del possibile”, uno stato transitorio che non conduce mai alla felicità perchè (come la pornografia) la rimanda di orgasmo in orgasmo. La trappola schraderiana in Atofocus, non è orchestrata sulla superficie di un desiderio sessuale patologico, ma è rappresentata da qualcosa di ben più profondo, di intangibile e sfuggente come il “peccato originale”; che si tratti di qualcosa di intimo e religioso, slegato sia dalla carriera che dal mestiere di attore (con relativa popolarità annessa) è testimoniato dalla presenza, nelle scene iniziali del film, di Bob e sua moglie Anne, in chiesa durante la messa, e le parole, pronunciate dal prete, che chiudono la scena sono appunto: “…E tornerà nuovamente per giudicare i vivi e i morti”. La tentazione si fa carne con il proseguire del film, il giudizio divino è sempre immanente, e l’edonismo patologico di Bob Crane viene trasfigurato in un perverso gusto del piacere onanistico: il suo egoismo implica che la partner di turno, non sia altro che carne, uno strumento per il suo piacere, privo di volontà, sentimenti, ed emozioni. La morte è un sacrificio necessario per mondare i propri peccati e per espiare la colpa primordiale; condizione accentuata, nel film, dalla pena del contrappasso che porta Crane ad essere ucciso con un treppiede per macchina fotografica: lo strumento di piacere che si fa strumento di morte La morte porta con se anche la fine della propria immagine nella realtà ma non nella finzione, infatti, la riproducibilità delle immagini, la loro continuità rappresentata dai nastri del VTR permettono la prosecuzione della vita di fiction e legano l’occhio dello spettatore con quello meccanico della cinepresa e con l’immagine amatoriale riprodotta.

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Paul Schrader, in Autofocus, costruisce un percorso “visivo” in cui la dualità e l’anomia di Bob Crane si esplicano attravrso l’indistinta rappresentazione delle immagini da lui riprese: senza soluzione di continuità egli passa da riprendere le immagini di vita familiare (i bambini che giocano sul tappeto, la moglie che lava i piatti), a farsi riprendere dall’amico e sodale John Carpenter mentre una donna gli pratica una fellatio (oltre ad orge, e ogni prestazione sessuale da lui consumata). Quando si rivede nell’uno come nell’altro caso, la soddisfazione sul suo volto è la stessa: per lui non c’è alcuna differenza perchè l’importante è rivedersi (e in questo Crane rappresenta un antesignano del narcisismo oggi imperante nell’industria dell’immagine), stare davanti ad una videocamera o ad una macchina da presa, sorridere all’obiettivo, ammiccare, sedurre plasmare i propri spettatori. Non è casuale che per converso e con non poche implicazioni e ambiguità di carattere omosessuale, John Carpenter replichi a Crane dicendogli che invece lui preferisce stare dietro la macchina da presa o la videocamera, perchè ogni attore, per esistere, ha bisogno di un operatore/regista, così come ogni narciso dello specchio, perchè quello che conta è affermare la propria immagine, esistere per piacere (anche solo a se stesso). “La famiglia prima di tutto…E’ certo più importante di un qualsiasi programma televisivo” chiosa Crane di fronte alle perplessità della moglie riguardo al recitare in un serial comico sull’olocausto, ma allo stesso tempo, l’inibizione imposta dalla donna al marito, descrive al meglio la condizione di repressione in cui egli è costretto per la necessità di apparire ipocritamente “normale”. Poco dopo, sempre Anne, gli rimprovera la presenza di pornografia nel garage: badando al puritanesimo di facciata, la donna non si accorge delle devianze del marito.

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Che l’impianto di Autofocus sia improntato alla rappresentazione morale della scelta e del peccato è certificato dal dialogo imbarazzato tra Bob (in cerca di una possibile confessione) e il prete (conscio del problema di Bob e della sottovalutazione dello stesso) alla tavola calda, in cui mentre Crane è distratto dalle grazie di una giovane fan, il prete e amico gli intima severe: “Bisogna allontanarsi dalle occasioni di peccato”. Il voyeurismo, dunque è una occasione di peccato e in quanto tale sono colpevoli tanto il protagonista quanto il regista quanto lo spettatore, e la moltiplicazione del quadro mostrata in più scene del film ha la forte valenza morale di far riflettere chiunque guardi sulla responsabilità insita nell’atto. Durante l’incontro con la ragazza bionda e quella mora, Carpenter riprende Crane e al termine della serata gli mostra quanto fatto. Nella scena si vede Carpenter che mostra all’amico le riprese in cui si vede Bob che fotografa la ragazza mentre lei si spoglia, loro due sono sul divano e guardano le immagini sullo schermo televisivo (e in queste si vede Bob che guarda la donna attraverso l’obiettivo della Polaroid), mentre l’inquadratura oggettiva mostra allo spettatore tutta la scena: lo sguardo è moltiplicato, potenzialmente all’infinito, così come ogni immagine replica se stessa. Attraverso questo semplice espediente cinematografico la “visione morale” del regista si impone agli occhi dello spettatore e mette a confronto la sua “colpa” con quella del personaggio, il cui slogan è: “Un giorno senza sesso è un giorno sprecato”. La realtà non è più sufficiente e il peccato passa anche attraverso la riproducibilità della stessa, e la necessità è quella di essere in possesso dei supporti adeguati per poterla “controllare” (le funzioni del VTR allora e quelle del telecomando oggi) come afferma Bob Crane durante l’allucinazione sul set di Hogan’s heroes: “Non riesco a pensare ad altro che il sesso: fare sesso, filmare sesso, guardare sesso… ma non tutti hanno il proprio esperto video… tra il sesso, Patty e le checche…non riconosco più la mia vita…”

di Fabrizio Fogliato

AUTOFOCUS (2002) di Paul Schrader – Parte Prima

L’occhio, il sesso e …la virtù?… Quante volte, quante notti….

Autofocus è costruito su una struttura a blocchi, all’interno della quale il regista imposta una narrazione frammentaria attraverso cui emergono, tanto il carattere quanto le dinamiche di relazione dei personaggi. I vari blocchi sono connessi tra loro dalla parabola autodistruttiva di Robert Crane, ma al contempo ognuno di essi è slegato dagli altri ed è costruito secondo un rapporto proporzionale tra testo e immagine: più il racconto si vena di amarezza, squallore, nichilismo e dolore, più l’immagine perde consistenza cromatica, la macchina da presa si fa tremolante e insicura e lo spazio scenico sempre più ristretto. Riflettendo sul titolo e sul concetto di “messa a fuoco automatica”, si può dedurre che il protagonista non riesce a regolare i giusti parametri per “mettere a fuoco” la propria vita, così come non riesce a mantenere il controllo sulle sue pulsioni autodistruttive (“Il sesso non è la risposta”, gli dice Len il suo agente).

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Paul Schrader è forse l’ultimo moralista del cinema americano: Autofocus è un opera, dolente e grottesca, aggrappata ad un moralismo sincero e e tutt’altro che autocompiaciuto; un film complesso e sfuggente, in cui il dolore è costantemente in vitreo mentre si svolge la parabola misera e tragica di un uomo asettico, egoista prima ancora che erotomane: un eterno bambino cui il seno della donna dona sicurezza momentanea e illusoria, mentre attorno a lui si sviluppa la cronaca dei primi passi della videoregistrazione che modifica l’inclinazione alla scopofilia e perfeziona la scena del desiderio senza un reale appagamento. “Trent’anni dopo, la futilità televisiva di Bob Crane, e forse anche la sua compulsività sessuale senza erotismo, minacciano di farsi quotidiane, di massa.” (R. Escobar). Per raccontare Autofocus di Paul Schrader non si può non partire dalla vicenda reale di Robert Crane (anche se il regista evita accuratamente di realizzare un biopic in senso tradizionale, optando per una messa in scena schizoide e morale), e sulla sua breve parabola rise and fall, destinata a chiudersi con una morte prematura, tragica e irrisolta.

IL CONFORMISTA (1970) di Bernardo Bertolucci

Tra Alberto Moravia e Bernardo Bertolucci: anamnesi dell’inconscio, il telaio del mistero della caverna, architettura del mondo borghese e tradimento della messa in scena.

Il Conformista (1970), film di Bernardo Bertolucci, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Aberto Moravia, è opera autonoma con una sua espressività ed un suo linguaggio (cinematografico) specifico. L’intento del regista parmense, coadiuvato dal montatore Franco “Kim” Arcalli, è quello di infondere nello spettatore, lo spirito (e non la realtà) e l’atmosfera di un’epoca. Il Conformista evoca un “impressione di realtà” e, attraverso ogni aspetto filmico e narrativo, non tradisce mai questa idea di partenza. È dunque evidente che si tratta di un’operazione di stravolgimento (del romanzo, ma non solo) tesa a visualizzare l’immagine di un simulacro (il fascismo), che ha nel concetto di “normalità” l’adesione silenziosa e totalizzante a un sistema di regole anti-democratiche. Il protagonista, Marcello Clerici, convinto della sua “anormalità”, rivelata (apparentemente) da un episodio della sua infanzia, si inserisce volutamente in un sistema omogeneo e massificato in cui ogni diversità non solo non è contemplata, ma è perfino condannata.

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Per tutta la durata del film, la sua indole poggia in equilibrio instabile sull’ambiguità: egli è al contempo assimilato al pensiero unico e straziato dal dubbio: “Insomma, se il fascismo fa fiasco, se tutte le canaglie, gli incompetenti e gli imbecilli che stanno a Roma portano la nazione italiana alla rovina, allora io non sono che un misero assassino”. (Alberto Moravia, Il Conformista, Bompiani, Milano, 2005, pag. 244). Amara conclusione cui egli giunge dopo la caduta del fascismo la notte del 25 Luglio 1943, dopo aver intuito che, forse, il suo crimine di infanzia è vissuto solo nella sua testa, e che forse, la strenua corsa alla ricerca di una “normalità” omologata, è stata la negazione del concetto stesso di vita. Il suo rientrare nella “normalità” coincide con l’adesione alla polizia segreta fascista denominata OVRA. Scelta emblematica, visto che qui gli agenti non si sporcano mai le mani, non uccidono, ma si limitano a segnalare, e a fornire informazioni, in modo che altri portino a termine l’eliminazione del soggetto indicato.

IL PREFETTO DI FERRO (1977) di Pasquale Squitieri

Una guerra combattuta in prima persona in rappresentanza dello stato di diritto: un western duro, freddo e dal taglio futurista.

Girato con taglio americano, impregnato di umori nostrani, Il Prefetto di ferro, diretto da Pasquale Squitieri nel 1977 è un rarissimo esempio di film italiano con protagonista un eroe positivo. Cesare Mori, è un italiano tutto d’un pezzo, un uomo saggio e tenace pervaso da una profonda etica e da un senso morale legato all’essere un dipendente dello Stato. In sintesi, un uomo di Stato capace di interpretare e divulgare al meglio il rispetto della legge. Il Prefetto di ferro è un film in grado di colpire l’immaginario collettivo, allora come oggi, proprio grazie ad una messa in scena asciutta e raffinata costruita per lasciare ampio spazio alle gesta e al pensiero di Cesare Mori. Un film “americano”, che piace agli americani, al punto da essere invitato per una proiezione privata alla Casa Bianca, come racconta lo stesso Pasquale Squitieri:

Il film sbarca negli Stati Uniti per la Settimana del cinema italiano a New York. Tornato in albergo Claudia, Giuliano ed io, troviamo due funzionari della C.I.A. che ci dicono che il film Iron Prefect (Il Prefetto di ferro) è stato invitato dal Presidente Carter per una proiezione alla Casa Bianca (…) Noi rimaniamo sbalorditi da questa cosa, ma tutto va come previsto dai due funzionari e io mi porto dietro una cinepresa perchè dico: “Chi ci        crederà mai?”. Ci portano nella stanza del caminetto, dove ci mettiamo seduti, abbastanza           intimiditi, Claudia, Giuliano ed io e dopo un po’ arrivano Elizabeth Taylor, Gregory Peck, …insomma mezza Hollywood. Arriva il Presidente Jimmy Carter, me lo presentano, andiamo in proiezione. Proiettano il film, applausi e poi la cena. Poi andai a parlare col Presidente con quel poco di inglese che mastico, e ringraziandolo gli chiesi perchè mi aveva       invitato. Lui mi rispose che per la prima volta ha visto un italiano tutto d’un pezzo, un italiano di profonda onestà (…). inutile dire che di questo evento, che non si è mai più ripetuto, uscirono tre righe sul Corriere della Sera…” [Silvia D’Amico Benedicò, Gioia Magrini, Roberto Meddi, A proposito di …, Intervista a Pasquale Squitieri in Extra DVD Il Prefetto di ferro, Medusa, Milano, 2009]
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BLUE NUDE (1977) di Luigi Scattini

Il sesso, la sua manifestazione più brutale (cioè la pornografia), e il coinvolgimento emotivo diretto destabilizzano le convinzioni di un uomo capace di ragionare solo ed esclusivamente in base ai suoi sogni

Quando Luigi Scattini, parte per l’America per girare quello che sarà il suo ultimo film da regista, Blue nude, il cinema hard in Italia cominciava a fare il suo ingresso e, proprio il 15 novembre 1977, una sala cinematografica di Milano, il Majestic, espone fuori dalla porta d’ingresso del locale una lampada con la luce rossa intermittente per segnalare il cambio di programmazione, aprendo, così, la strada alla proiezione di film “a luce rossa” (appunto) in tutta la penisola. Sono anni, questi, in cui il film hard circola clandestinamente in qualche cineclub (soprattutto Exhibition (1975) di Jean-François Davy con la star d’oltralpe Claudine Beccarie), alcuni amatori ne fanno richiesta via posta per ricevere carissimi loops in super-8 (provenienti dal Nord Europa della Danimarca e della Svezia) e dove riviste come “Le Ore e “Man” propongono le prime immagini di sesso esplicito su carta stampata.

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Aristide Massaccesi (Joe D’Amato) emigra nei caraibi e gira film con doppie versioni (soft e hard) per il mercato interno e quello estero prima di girare il pacchetto – di quattro film caraibici (a Santo Domingo) esplicitamente pornografici – che alla fine del decennio darà il via alla produzione dell’hard nostrano. Franco Lo Cascio si inventa distributore e comincia ad importare dall’estero pellicole a tripla “X” da distribuire in Italia in maniera clandestina e attraverso mille ostacoli e divieti. Resta il fatto che tutto questo riguarda una piccola nicchia di pubblico, mentre per la massa l’hard rimane qualcosa di misterioso e “leggendario”, legato ai racconti di quei pochi “fortunati” che hanno fatto viaggi nel Nord Europa o degli emigranti di ritorno dagli Stati Uniti. Ecco, quindi, che Blue nude di Luigi Scattini, oltre a spalancare le porte della produzione hard allo spettatore del tempo, diviene il primo film italiano ad affrontare l’argomento nonché un vero e proprio anticipatore di film come Hardcore (1979) di Paul Schrader.

LOS AMIGOS (1972) di Paolo Cavara

L’amicizia virile, l’eroismo silenzioso e l’avventura picaresca. Lo “spaghetti western” secondo Paolo Cavara

Uscito sugli schermi italiani il 29 Marzo 1973 (quindi nel periodo di estinzione del genere) Los Amigos si presenta come un western atipico, frutto di quella contaminazione crepuscolare divisa tra violenza e comicità. Originariamente, il film è destinato ad essere un’opera seria e puntuale sulle gesta del vero Erastus “Deaf” Smith – un personaggio di primo piano nella rivoluzione del Texas avvenuta a cavallo del 1830. Le esigenze della produzione appaiono per. Contrarie alla realizzazione di un prodotto serio (e quindi economicamente rischioso) nel momento in cui il crinale intrapreso dal genere poggia prevalentemente su caratteri comico-picareschi e, così, l’intero impianto narrativo viene via via destrutturato fino alla forma attuale che si regge prevalentemente sul rapporto tra compari: un eroe e la sua spalla. Nonostante queste defezioni strutturali il film – ufficialmente firmato alla sceneggiatura da Oscar Saul e Harry Essex – in realtà fruisce dei contributi (non accreditati) di Augusto Finocchi, Lucia Drudi Demby e dello stesso Paolo Cavara.

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“E’ una storia popolare. La storia di un’amicizia. L’amicizia è un tema che mi ha sempre interessato. E’ il modo in cui tentiamo di uscire dalla solitudine. E nel caso di questo film ha come sfondo proprio una condizione di solitudine tremenda. Il personaggio centrale, ispirato ad un personaggio storico eroe della guerra del Messico, Deaf Smith, è sordomuto dalla nascita, cioè condannato ad una solitudine tragica, il silenzio a vita. Forse per questo è diventato eroe, per esprimersi potentemente in una dimensione di oltranza, come nell’impresa raccontata dal film: tentativo quasi disperato di impedire un putsch nazionalistico nel Texas. L’impresa è l’occasione di mettere alla prova l’amicizia. Ears, il giovane compagno di Deaf, crede di essergli indispensabile. In realtà è affascinato da lui, tanto da quanto riceve. Si ha sempre bisogno di chi ha bisogno di noi, voglio dire. L’amicizia è una solidarietà nella lotta, nell’esistenza. Fino a che punto resiste? Fino a che punto riesce a non diventare una strumentalizzazione e una prevaricazione? Sono interrogativi che cerco di porre perchè per me fanno parte di un discorso più largo, il rapporto fra l’uomo e la società” (Paolo Cavara)

I PROSSENETI (1976) di Brunello Rondi

Un funerale collettivo, in cui tutti sono colpevoli…e nessuno è colpevole.

Prosseneta: Voce colta di origine greca; prosseneta significava in origine “aiutatore degli ospiti”, consigliere, guida, intermediario (nell’antica Grecia il pròsseno era il cittadino incaricato della protezione degli stranieri), mentre oggi sta per ruffiano e mezzano. I prosseneti, uscito nelle sale il 28 Aprile 1976 visibile oggi, solo grazie al passaggio in TV della durata di 90′ 32” (ma registrato in visto censura come 105′), è il decimo film da regista di Brunello Rondi: “Velleitario tentativo di denunciare la mercificazione di cui la donna è oggetto nella nostra società” (Centro Cattolico Cinematografico). Così il CCC liquidava questo film (centrando comunque appieno le intenzioni del regista) non tenendo in considerazione però che la denuncia della mercificazione del corpo femminile è solo una parte di quest’opera costruita narrativamente e figurativamente come una sorta di kemmerspiel esistenziale.

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L’unità di luogo, cioè la villa e lo spazio a bordo piscina in cui si svolgono gran parte delle azioni non potrebbero esistere se non attraverso l’astrazione di un non-luogo immaginario, in cui agiscono i vari personaggi. Il non-luogo prende forma attraverso le stanze della casa-teatro, raccontate come spazi scenici in cui ogni cliente replica (con tanto di maschere e scenografie) stati d’animo turbati e passaggi vitali colmi di rimpianto e mai riconciliati: in tutto ciò la donna assolve all’unico ruolo possibile (secondo la società dei consumi), quello di un essere taumaturgo in grado – con la sua sola presenza – di guarire, o meglio, temporaneamente alleviare le sofferenze di uomini psicolabili e insicuri. È la stessa contessa Gilda a dichiarare le intenzioni dell’agire suo e di suo marito: “Le nostre camere non devono più sembrare camere normali ma… teatri, quadri di illusione…”, così come più tardi sarà un cliente che, rivolto alla prostituta Odile, dirà: “E il mio teatrino…tu devi soltanto obbedire e basta”.