L’occhio, il sesso e …la virtù?… Quante volte, quante notti….

Autofocus è costruito su una struttura a blocchi, all’interno della quale il regista imposta una narrazione frammentaria attraverso cui emergono, tanto il carattere quanto le dinamiche di relazione dei personaggi. I vari blocchi sono connessi tra loro dalla parabola autodistruttiva di Robert Crane, ma al contempo ognuno di essi è slegato dagli altri ed è costruito secondo un rapporto proporzionale tra testo e immagine: più il racconto si vena di amarezza, squallore, nichilismo e dolore, più l’immagine perde consistenza cromatica, la macchina da presa si fa tremolante e insicura e lo spazio scenico sempre più ristretto. Riflettendo sul titolo e sul concetto di “messa a fuoco automatica”, si può dedurre che il protagonista non riesce a regolare i giusti parametri per “mettere a fuoco” la propria vita, così come non riesce a mantenere il controllo sulle sue pulsioni autodistruttive (“Il sesso non è la risposta”, gli dice Len il suo agente).

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Paul Schrader è forse l’ultimo moralista del cinema americano: Autofocus è un opera, dolente e grottesca, aggrappata ad un moralismo sincero e e tutt’altro che autocompiaciuto; un film complesso e sfuggente, in cui il dolore è costantemente in vitreo mentre si svolge la parabola misera e tragica di un uomo asettico, egoista prima ancora che erotomane: un eterno bambino cui il seno della donna dona sicurezza momentanea e illusoria, mentre attorno a lui si sviluppa la cronaca dei primi passi della videoregistrazione che modifica l’inclinazione alla scopofilia e perfeziona la scena del desiderio senza un reale appagamento. “Trent’anni dopo, la futilità televisiva di Bob Crane, e forse anche la sua compulsività sessuale senza erotismo, minacciano di farsi quotidiane, di massa.” (R. Escobar). Per raccontare Autofocus di Paul Schrader non si può non partire dalla vicenda reale di Robert Crane (anche se il regista evita accuratamente di realizzare un biopic in senso tradizionale, optando per una messa in scena schizoide e morale), e sulla sua breve parabola rise and fall, destinata a chiudersi con una morte prematura, tragica e irrisolta.

Edward Robert “Bob” Crane (13 Luglio 1928 – 29 giugno 1978) nasce a Waterbury, nel Connecticut e nel 1946 si laurea alla High School di Stamford. Sin da giovane la musica riveste un ruolo importante nella sua vita e Bob già da adolescente impara a suonare la batteria. Il 21 giugno 1948, Bob si arruola nella Guardia Nazionale e viene congedato con onore il 1° maggio 1950. Un anno prima del congedo sposa Anne Terzian, sua fidanzata sin di tempi del liceo, da cui ha tre figli, David, Deborah Ann, e Karen Leslie. Nel 1950, Crane inizia la sua carriera in radio alla WLEA di Hornell, New York prima e alla WBIS di Bristol, Connecticut poi; in seguito lavora alla WICC di Bridgeport, Connecticut dove rimane fino al 1956, fino a quando la rete radio della CBS lo chiama a lavorare per il suo broadcast. Crane si trasferisce con la famiglia in California e qui dirige lo show del mattino della KNX-CBS, una delle radio Hollywood. Lo show è un successo, Bob Crane suona la batteria, si prodiga in una ironia tagliente e sagace si intrattiene con i divi del piccolo schermo e si permette ospiti del calibro di Marilyn Monroe, Frank Sinatra e Bob Hope. Nel 1965, forte del successo crescente e della popolarità conquistata, gli viene il ruolo da protagonista in una serie televisiva dl titolo provvisorio Pow-camp. La serie prende il nome definitivo di Hogan’s heroes, è ambientata in un campo di prigionia tedesco, supera agevolmente le perplessità e le polemiche iniziali e diviene un successo clamoroso, che si posiziona, già al primo anno di messa in onda, nella Top Ten dei programmi più visti. La serie prosegue per sei stagioni. Sul set, Crane incontra Patricia Olsen che in Hogan’s heroes interpreta Hilda sotto il nome d’arte Sigrid Valdis. Si innamora di lei, divorzia dalla moglie Anne dopo venti anni di matrimonio, e dalla nuova relazione nasce Robert Scott Crane, mentre una seconda figlia Ana Marie, viene adottata dalla coppia.

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In seguito alla cancellazione di Hogan’s heroes nel 1971, Crane attraversa un lungo periodo di depressione e frustrazione: non gli vengono offerti che piccoli ruoli e di scarso rilievo. Accetta così di presenziare i due logore produzioni Disney: Superdad (Dai papà… sei una forza, 1974) di Vincent McEveety (un flop clamoroso anche a causa dell’uscita ritardata di un anno e dei contenuti ritenuti diseducativi) e Gus del 1976 (dello stesso regista, con co-protagonista un asino parlante). Nel 1973, Crane acquista i diritti di Beginner’s Luck, una commedia teatrale che interpreta e dirige in lussuosi ristoranti che offrono “cena e spettacolo”, con una produzione in tournée per cinque anni, che lo porta a viaggiare dalla Florida alla California al Texas, Arizona e Hawaii fino al 1978. Nel frattempo durante le pause delle tournée partecipa come ospite in una serie di spettacoli televisivi, tra cui Police Woman, Quincy, ME e Love Boat.

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Durante la produzione di Hogan’s heroes, Bob Crane fa un incontro cruciale (nel bene e nel male) per la sua carriera ed esistenza, quello con Henry John Carpenter, un appassionato di fotografia che lavora come freelance con il dipartimento video della Sony Electronics nel ruolo di rappresentate di prodotti di avanguardia e prototipi per la videoregistrazione come il VTR a scansione elicoidale. I due stringono un forte amicizia “di convenienza” accomunati da una passione irrefrenabile per il sesso. Negli anni successivi, Carpenter fotografa alcune delle avventure sessuali di Crane con varie donne, e lo segue come un’ombra lungo le tournée teatrali in giro per gli Stati Uniti. La notte del 28 giugno 1978, probabilmente, Crane si mette in contatto telefonico con Carpenter per dirgli che la loro amicizia è finita. Il giorno seguente, Robert Crane viene trovato cadavere nel suo letto: è stato ucciso a randellate con un’arma (che non verrà mai ritrovata, forse un treppiede per macchina fotografica) nel suo appartamento al Winfield Place Apartment a Scottsdale in Arizona. Dopo due indagini, realizzate a distanza di dieci anni l’una dall’altra, il delitto resta tutt’ora insoluto.

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Scritto da Michael Gerbosi, Autofocus è tratto dal romanzo-cronaca “The Murder of Bob Crane” di Robert Gray Smith, e lascia volutamente al margine la vicenda del delitto insoluto (anche il regista, giustamente, non reputa importante trovare il colpevole) per provare a raccontare una vicenda profondamente umana indagando scrupolosamente le possibili cause preambolo alla tragedia. Il senso del “peccato originale”, inteso qui come “peccato sessuale” nel film è declinato su coordinate che mettono in parallelo il progresso e la tentazione: la tecnologia legata alla videoregistrazione acquisisce, lungo la durata del film, i caratteri corruttivi del Male. La riproducibilità dell’immagine in Autofocus non è semplicemente legata al desiderio e/o al feticismo del ricordo, ma assume le caratteristiche simboliche di una linea di confine che separa elementi opposti ma complementari: il prima e il dopo, la voce radiofonica e l’immagine televisiva, il corpo vestito e il corpo nudo, fino a sconfinare nei tratti, quasi filosofici, di una separazione di genere, in cui il sesso e la sua riproducibilità per immagini diventano testimonianza tanto di un omosessualità latente (e consentita), quanto di una visione panfocus in cui non è più possibile alcuna distinzione tra realtà e finzione e tra Bene e Male. Non è casuale quindi che ogni svolta narrativa presente nel film sia riconducibile alla visione di immagini da parte dei protagonisti. È attraverso queste ultime che viene svelata tanto l’ipocrisia della vita familiare di Crane, quanto la sua propensione all’anomia (lui resta fermamente convinto della sua “normalità”).

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Paul Schrader non si limita alla banale esposizione delle insidie racchiuse nella composizione ontologica delle immagini, ma cerca (in parte riuscendoci) di mostrare le deviazioni legate alla natura della società dell’apparire: affronta un discorso concettuale attraverso lo strumento-cinema per cercare di enucleare le problematiche inerenti la riproducibilità dell’immagine. A suffragare quest’intenzione, interviene la scelta di mostrare (e riprendere) in modo totalmente differente l’esperienza radiofonica e quella televisiva del protagonista. Fino a quando Bob Crane è una voce alla radio KNX-CBS di Los Angeles, la sua vita è perfettamente normale, incanalata in una serena quotidianità familiare. Nonostante ciò, sin dall’inizio del film Schrader mostra le crepe delle normalità di Crane – che se in principio sono riconducibili esclusivamente ad ambizioni carrieristiche – in seguito giungeranno fino al delirio di onnipotenza agito attraverso il potere della sua immagine pubblica – la prima scena si chiude con queste parole: “Era Gene Krupa alla batteria gente!…E se ci credete…no, era solo il sottoscritto, anche se a volte vorrei essere Gene Krupa. Sono nato nell’epoca sbagliata”. Quando invece diventa Hogan, e la sua immagine va incontro ad un crescente e inarrestabile successo; improvvisamente egli prende coscienza del suo potere mediatico (desiderio da sempre inespresso ma ambito) e perde, istantaneamente, il controllo sulla sua vita abbandonandosi ad ogni pulsione repressa o rimossa (le riviste hard nascoste nel garage di casa, di cui la moglie gli rimprovera la presenza).

di Fabrizio Fogliato

(continua)

 

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