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Michael Haneke

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FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 7

L”obiettivo può essere raggiunto solo attraverso una libera e completa adesione dei due giocatori: il carnefice e la vittima.

Il crescere progressivo dell’interazione tra le due parti al di qua e al di la dello schermo, arriva al punto di svelare il meccanismo cinematografico. Paradossalmente questo avviene in netto contrasto con il volere dello spettatore perché, quando Anna uccide Paul, è il momento in cui trionfa la giustizia. Ma questo avviene nelle regole della società mentre cinicamente Haneke le sovverte e “resuscita” Peter: il gioco deve continuare e un elemento così importante non può essere eliminato. Haneke riesce anche nell’intento di far esultare lo spettatore per un omicidio, mettendo così a nudo la sua “propensione” al male e il suo sadismo voyeuristico.

Ci inganna promettendoci una verità, mentre poi la trasgredisce in un gioco quasi perverso tra l’attesa e la delusione dell’attesa, tra l’enunciazione delle regole e la loro infrazione.[i]

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 6

Il gioco comincia con una scommessa: le vittime designate non rimarranno in vita più di dodici ore.

Funny Games si alimenta dell’indeterminatezza e dell’imprevedibilità del gioco. Quando si inizia a giocare non si sa né quali saranno gli sviluppi futuri né quando il gioco terminerà. Ci sono delle regole, si seguono quelle e si vede che cosa succede. Funny Games costruisce delle sue regole personali che – per quanto assurde possano sembrare – sono in realtà molto tangibili e concrete. La tensione e la crudeltà presenti nel film sono talmente particolari che non svelano mai il carattere teorico e di rappresentazione di ciò che è mostrato.

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 5

The End: il loop che sancisce l’assoluta reversibilità dell’atto di morte

La tensione che lentamente si insinua nei due film agisce su di un set/architettura che è riproposizione del vivere quotidiano. I corridoi, le porte, gli stipiti attraverso cui osserviamo l’agire dei protagonisti sono passaggi virtuali in cui si muovono “mostri” annidati nell’ombra. L’utilizzo insistito del sonoro fuori campo anticipa tutta una serie di aspettative e condiziona inevitabilmente il desiderio di vedere ciò che è successo dall’altra parte. Questa dimensione angosciante e perturbante e data dalle barriere che dividono gli spazi che costituiscono un’interdizione tra sentito/mostrato e tra desiderio di conoscere la soluzione dell’atteso/inatteso. L’attrazione/repulsione che ne scaturisce è innescata dal sonoro mentre il mostrato resta ineluttabilmente fuori. Questo accade non solo per lo spettatore ma anche per i protagonisti che non vedono mai ciò che accade nell’altra stanza.

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 4

Fame chimica del post orgasmo: quando l’aggressione si trasforma in sadismo

Quello che colpisce è come in Kazan, la violenza sia animata non solo dalla repressione del risentimento ma anche da un inusuale, per dei militari, senso di invidia. Più volte i due fanno presente a Bill che: “Hai fatto i soldi”,oppure “Hai delle persone che fanno le cose per te” restituendo appieno il malessere, il disagio e la difficoltà di integrazione di cui furono vittime tutti i reduci del Vietnam. In entrambe le pellicole, l’aggressione si trasforma in sadismo. Questo registro estremo, che appare più accentuato in Funny Games, vive sul principio ambiguo e malsano secondo cui una volta accettato il dolore e viceversa quando questo viene perseguito, c’è sempre una tendenza al piacere. Il miraggio di un bene successivo è connaturato all’idea stessa del sadico (ma anche della vittima), che è consapevole che l’attraversamento del dolore è necessario per giungere al paradiso o all’orgasmo. Non è casuale quindi che The Visitors termini con uno stupro (plastica reiterazione di ciò che è avvenuto in Vietnam) e che Funny Games finisca con la morte della donna (nell’acqua) pronta per una ri-nascita spirituale.

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 3

La morte ha fatto l’uovo: à rebours, corrispondenze con il passato

Nel 1971 il regista americano Elia Kazan dirige un piccolo film con un cast fatto tutto di esordienti (tranne Patrick, McVey), con un budget risicato e una piccola troupe. Il film è The Visitors (I Visitatori) ed è girato in 16 mm con stile semi amatoriale, ed è imperniato su un piccolo nucleo di persone chiuso dentro uno spazio di una casa isolata immersa in un paesaggio innevato. Kazan – che ha 62 anni ed è al suo penultimo film – costruisce un kammerspieldrammatico che (quasi in diretta) inscena la falsa coscienza e la crisi del riflusso post-Vietnam. Il film è scritto dal figlio Chris Kazan e l’episodio che è alla base del soggetto ispirerà il successivo Casualities of War (Vittime di Guerra, 1989) di Brian De Palma.

Due soldati dell’esercito americano, il portoricano Antonio Rodriguez (Chico Martinez) e lo yankee Mike Nickerson (Steve Railsback), dopo avere scontato due anni di prigione, vengono rilasciati. I due hanno subito una condanna per stupro e il relativo omicidio di una ragazza avvenuto durante un’operazione di rastrellamento in Vietnam. Antonio e Mike vanno a trovare Bill Schmidt (James Woods allora esordiente), il commilitone che li aveva accusati e spediti di fronte alla corte marziale. Bill vive con la moglie Martha (Patricia Joyce) e il figlioletto Hal, in una grande casa di proprietà del padre di lei, lo scrittore western Harry Wayne (Patrick McVey). A poco a poco i rapporti si fanno tesi e lentamente affiorano violente tensioni represse che conducono a svolte tragiche e imprevedibili.

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 2

Perché quelle mani guantate di bianco come Mickey Mouse?

Peter e Paul entrano in scena educati e gentili, con un’aria rassicurante e con un atteggiamento quasi ingenuo. Sono vestiti di bianco, ordinati e puliti: si presentano alla porta di casa della famiglia Schober con modi raffinati e cortesi. Haneke introduce qui un altro elemento di distonia che stride fortemente con la situazione formale. Rolfi, il cane lupo degli Schober abbaia insistentemente e sbatte violentemente contro la zanzariera dietro cui si trovano Peter e Paul – che hanno le le mani guantate di bianco come Mickey Mouse – creando una tensione tanto assurda quanto reale. Il regista austriaco introduce i suoi due protagonisti attraverso le vesti dell’inganno consegnandoli da subito come l’incarnazione del Male. Secondo lo studioso dell’aggressività Friederich Hacker, l’inganno più efficace del Demonio è far credere che egli non esiste e, se esiste, è negli altri e non in noi stessi. Haneke prende alla lettera la teoria del medico tedesco e fa di Peter e Paul gli archetipi del Male assoluto, che in Funny Games agiscono secondo le loro regole: provocatoriamente in contrasto con quelle comunemente accettate dalla società. Il gioco segue un disordine logico secondo cui la violenza perpetrata dai due è inversamente proporzionale a quanto di tale violenza ci viene mostrato.

FUNNY GAMES (1997) di Michael Haneke – Capitolo 1

Giocare con il male: un sadismo ludico che vede come agenti provocatori due angeli sterminatori.

La signora von Dunajew potrà non solo punire a sua discrezione il proprio schiavo per ogni sua minima inavvertenza o colpa, ma avrà anche il diritto di maltrattarlo secondo il suo capriccio o per mero passatempo come più le piaccia, o addirittura di ucciderlo, se le aggrada; in breve, egli è sua proprietà assoluta.

(Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch)

Una famiglia tipo, composta dalla madre Anna (Susanne Lothar), dal Padre Georg (Ulrich Mühe) e dal figlio Georgi (Stefan Clapczynski), arriva nella casa di villeggiatura in riva al lago. La situazione di idillio familiare e ambientale viene turbata da due giovani misteriosi e sconosciuti che riescono ad entrare in casa presentandosi come educati e molto formali. Paul (Arno Frisch) e Peter (Frank Gering) gettano subito la maschera, ed i n seguito ad una banale discussione, aggrediscono violentemente e sistematicamente i membri della famiglia. La violenza non risparmia niente e nessuno e deliberatamente segue una escalation programmatica di sadismo gratuito. Peter e Paul propongono alla famiglia di partecipare ad una scommessa, come quelle televisive, i cui termini sono quelli di vita o di morte nelle successive 12 ore. Il gioco ha così inizio.

HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Seconda

Amore e morte nel giardino degli dei

 

Dal freddo di Grand Rapids nel Michigan, Jake VanDorn, discende verso il caldo della California. Già in questo percorso entra la dimensione della discesa così come quella del “caldo infernale”. Hardcore, però, non è un film costruito sulla facile e sterile contrapposizione tra paese e città, e neanche un film che cerca di mettere in positivo la dimensione della micro-comunità del Nord contro la macro-comunità del Sud. Entrambe le collettività appaiono problematiche, affette da disequilibrio, piene di sfumature e asimmetrie. Sin dai titoli di testa – che scorrono sulle immagini del Michigan innevato – i codici cinematografici secondari assumono un ruolo determinante nell’economia del film: il nome dell’attore protagonista e il titolo del film appaiono neri per essere subito dopo virati di rosso carminio; quelli successivi proseguono su questa tonalità con l’evidente intenzione di sottolineare in modo extra filmico la dimensione “infernale” al centro della pellicola.

hardcore

Le immagini candide e asettiche di Grand Rapids innevata con i bambini che giocano felicemente e armoniosamente, stridono fortemente con i tre stacchi a camera fissa che al termine dei titoli di testa ci introducono nell’abitazione di Jake VanDorn, all’interno della quale tutto è sobrio, grigio e compassato. Anche qui ci sono bambini: alcuni suonano il pianoforte e cantano inni religiosi, altri sono seduti di fronte ad un innocuo spettacolo televisivo e natalizio – prima che uno zio intervenga a spegnere la televisione demonizzandola – altri, come il piccolo Hardold Jay, assistono attoniti e spaesati alle discussioni sul peccato capitale e sui salmi, cui sono ipegnati i genitori.

HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Prima

L’infernale paradiso di …Kristen

 

Paul Schrader ha più volte dichiarato di aver fatto i conti con il suo passato e sublimato il rapporto con il padre anagrafico con il film Hardcore (1979). A ben vedere però, il film in questione, non è solo un viaggio autobiografico alla ricerca della propria identità (negata dalla famiglia), ma è anche un ritratto caustico, bruciante e irriverente di un microcosmo religioso (che in America conta per lo 0,1% della popolazione ma che ha dato al paese ben due presidenti: Martin Van Buren e Theodore Roosevelt), quello della declinazione calvinista della Chiesa Riformata d’Olanda. Il viaggio all’ “inferno” di Jake VanDorn, non è solo la discesa negli antri oscuri dell’essere umano di un padre alla ricerca disperata della figlia, ma è la traversata destinata a qualunque comunità che ponga alla base del suo Credo (religioso e non) la repressione aprioristica e la mancanza assoluta di spiegazioni comportamentali (come sarà, anni dopo, per quella di Das Weisse Band (Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke). La stessa, traversata, vissuta sulla propria pelle dal regista fino al compimento dei 17 anni, momento in cui varca contemporaneamente la soglia della sala oscura e quella della libertà e del suo “mistero”.

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L’incipit in voce-off del film del 1990 The comfort of strangers (Cortesie per gli ospiti) racconta di un passato e di un padre, in cui non si può non vedere i tratti autobiografici alla luce anche del taglio del protagonista di Hardcore e delle sua “trasformazione caricaturale” californiana (l’uomo di cui si parla, sembra quello chiuso nel Motel del Cinema intento a ricevere aspiranti porno-attori in Hardcore): “Mio padre era un uomo imponente. Tutta la vita ha portato dei gran baffi neri. Quando ingrigivano li tingeva di nero con uno spazzolino di quelli che usano le donne per truccarsi gli occhi, per darsi il mascara. Avevano tutti paura di lui: mia madre, le mie quattro sorelle. Quando eravamo a tavola nessuno poteva parlare a mio padre se non veniva prima interpellato da lui. Ma adorava me. Io ero il suo preferito”. La scelta della caricatura per tratteggiare visivamente un uomo “fuori posto” come è Jake VanDorn in California, evidentemente coincide con la necessità, per l’autore, di raccontare una storia privata annegandola nei meandri più oscuri e inconfessabili della sua giovinezza, all’interno della quale la pornografia ha avuto un ruolo fondamentale nel processo di “redenzione” auto-percorso dallo stesso Schrader. Il Jake VanDorn di Grand Rapids (Michigan) non è diverso dal Jake VanDorn esule a Los Angeles, San Diego, San Francisco: quello che cambia è il suo abito, il suo atteggiamento; così, almeno, crede lui, mentre invece è egli stesso a subire una trasmutazione irreversibile, al punto da chiudere il suo viaggio con questa battuta rivolta alla figlia ritrovata: “Adesso portami a casa tu”.