Amore e morte nel giardino degli dei

 

Dal freddo di Grand Rapids nel Michigan, Jake VanDorn, discende verso il caldo della California. Già in questo percorso entra la dimensione della discesa così come quella del “caldo infernale”. Hardcore, però, non è un film costruito sulla facile e sterile contrapposizione tra paese e città, e neanche un film che cerca di mettere in positivo la dimensione della micro-comunità del Nord contro la macro-comunità del Sud. Entrambe le collettività appaiono problematiche, affette da disequilibrio, piene di sfumature e asimmetrie. Sin dai titoli di testa – che scorrono sulle immagini del Michigan innevato – i codici cinematografici secondari assumono un ruolo determinante nell’economia del film: il nome dell’attore protagonista e il titolo del film appaiono neri per essere subito dopo virati di rosso carminio; quelli successivi proseguono su questa tonalità con l’evidente intenzione di sottolineare in modo extra filmico la dimensione “infernale” al centro della pellicola.

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Le immagini candide e asettiche di Grand Rapids innevata con i bambini che giocano felicemente e armoniosamente, stridono fortemente con i tre stacchi a camera fissa che al termine dei titoli di testa ci introducono nell’abitazione di Jake VanDorn, all’interno della quale tutto è sobrio, grigio e compassato. Anche qui ci sono bambini: alcuni suonano il pianoforte e cantano inni religiosi, altri sono seduti di fronte ad un innocuo spettacolo televisivo e natalizio – prima che uno zio intervenga a spegnere la televisione demonizzandola – altri, come il piccolo Hardold Jay, assistono attoniti e spaesati alle discussioni sul peccato capitale e sui salmi, cui sono ipegnati i genitori.

L’immagine del bambino spaesato seduto al tavolo dei grandi, è fortemente autobiografica dell’infanzia di Paul Schrader, il quale descrive la famiglia VanDorn, presumibilmente come riproduzione della famiglia Schrader: l’intimità familiare è oppressiva, la fede è centrale e ineludibile, il pranzo non diventa mai una festa ma è un momento serio e persino “minaccioso” in cui domina il silenzio durante e dopo la preghiera di ringraziamento; mentre riprende la tavola imbandita, la macchina da presa si alza verso la parete a riprendere un quadretto che riporta la scritta: “Seek in the Lord while he may be found”. Di quanto quest’atmosfera sia diventata via via con il passare degli anni una cappa opprimente su giovani e bambini, privandoli della gioia e della libertà perchè considerate (dal calvinismo integralista) qualcosa di sbagliato che ha a che fare con il peccato, se ne ha testimonianza in un piccolo stacco inserito da Schrader dopo la partenza del pullmann per la convention dei giovani calvinisti in California: salutati i genitori, il pullmann parte dalla cittadina del Michigan, una breve inquadratura all’interno di esso mostra Kristen e la cugina Marsha insieme agli altri ragazzi festeggiare quel momento come una vera liberazione in cui musica, movimento, risa e sguaiatezza, diventano sinonimo unico di felicità. Non a caso prima di questa scena, Schrader inserisce quella di un altro interno: in una chiesa gli adulti assistono ad un sermone officiato dal pastore calvinista in cui viene detto che corpo e pensiero appartengono a Dio e non all’uomo e pertanto l’uso che quest’ultimo ne può fare è inevitabilmente malvagio.

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Prima di sprofondare, suo malgrado, nell’abisso della pornografia più gretta e triviale, Jake VanDorn vive a Grand Rapids come se fosse un esule dal mondo, al punto da considerare un colore troppo vivace utilizzato per dipingere lo stand della sua impresa, come sbagliato e inopportuno. È interessante vedere come si sviluppa il dialogo tra Jake e la designer, perchè la scena in questione è una sorta di preludio a ciò che aspetta l’uomo sotto il sole della Califronia. È evidente che il suo atteggiamento è preconcetto e presuntuoso, quasi “eletto” (dalla religione), nei confronti di tutto ciò che è moderno e diverso – al punto che quest’episodio, apparentemente insignificante, diventa fondamentale nell’economia del film per comprendere le motivazioni della scelta estrema di Kristen. All’interno della fabbrica Jake si rivolge alla designer: “Cosa ne pensa di quel blu? Mi sembra un po’ acceso…”; la donna replica: “Non direi. Lo vuole più spento?”; poco convinto l’uomo incalza: “Ho assunto una designer perchè mi fido del suo gusto…forse, però, potremmo riproporre la tinta, su un pannello magari”. A questo punto, come per ingraziarsi la donna e convincerla del suo giudizio sul colore, Jake fa uno strano riferimento al suo fidanzato, sottolineandone la religiosità e la serietà, “un bravo ragazzo da tenersi stretto”; poi cambiando improvvisamente discorso afferma senza possibilità di replica: “Forse potremmo spegnerlo un po’… è un po’… soffocante”. La scena, non a caso, è inserita subito prima che l’uomo apprenda della scomparsa di Kristen e decida di prendere un aereo per la California, accompagnato dal cognato Wesley, per indagare sui motivi della scomparsa.

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Anche in questo caso, come in altri all’interno del film, è la musica extradiegetica della colonna sonora di Jack Nitzsche a sottolineare il cambio di prospettiva dell’uomo. Come l’inizio innevato è sottolineato dalle note natalizie di “Guardian Angel” di Mink De Ville – evocando la presenza di un angelo guardiano per proteggere il cammino di Jake – così, più volte, all’interno del film la musica e le canzoni diventano elemento di sottolineatura cinica e ironica nei confronti dei comportamenti dell’uomo. Emblematico a tal proposito l’utilizzo di “Hellpless” (che significa confusione, disorientamento) di Crosby, Still, Nash e Neil Young, nel momento in cui, sbarcato a Los Angeles Jake peregrina di notte nel quartiere a luci rosse, per poi entrare in un peep-show alla ricerca del super-8 hard in cui ha visto la figlia. Come la musica, anche l’elemento del formato corrisponde sia a una precisa scelta stilistica, sia ad evidenziare un significante intrinseco ad esso.

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Il loop, infatti, è lo strumento, clandestino prima, legale poi, attraverso cui la pornografia costruisce il suo sottobosco. La caratteristica fondamentale di questo strumento (cioè un filmato di pochi minuti che mostra un atto sessuale) è quella dell’anonimato, come ricorda lo stesso Andy Mast nel film: nessuno lo interpreta, nessuno lo dirige, nessuno le vede, non esiste chi lo fa né chi lo utilizza, esiste solo il prodotto, una merce come tante, spendibile tanto nei negozi specializzati, quanto nei cinemetti scalcinati di periferia, quanto per oscure visioni domestiche. Proprio per il mistero che circonda questi prodotti, girati in fretta e male, in ambienti squallidi, senza nessuna regola né estetica né narrativa, il loop diventa lo strumento attraverso cui veicolare le perversioni più estreme e bizzarre dell’animo umano (non a caso il più famoso è Dogorama interpretato da Linda Lovelace). Attraverso i loops passa la pornografia violenta, sadica, spesso legata all’utilizzo di prostitute e talvolta di minorenni, diventando il prototipo perfetto della merceficazione e della distruzione del corpo. Nel loop infatti, non contano né la bellezza di attori e attrici, né tantomeno il loro volto, poiché tutto è concentrato sull’atto sessuale mostrato in primo piano senza nessuna connotazione né spaziale né temporale. Paul Schrader dunque sceglie questo strumento per veicolare l’immagine di Kristen riprodotta davanti agli occhi del padre nella saletta di Grand Rapids, perchè come dice Andy Mast: “Un film come questo, una pellicola da 8 mm costa sui trecento dollari. Viene venduta in un negozio, lo mostrano nelle macchinette. È impossibile risalire alla fonte”.

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La scena in cui Jake si confronta con l’immagine hardizzata della figlia è oltremodo significativa. Nella saletta domina il silenzio, il padre è solo di fronte ad un piccolo schermo, circondato da sedili vuoti mentre in sottofondo si sente il rumore del proiettore. Dopo pochi istanti sul suo volto si disegna la disperazione e l’incredulità verso ciò che sta guardando, ma abilmente, dopo pochi stacchi sul loop, Schrader ne nega la visione concentrandosi su ciò che avviene sul volto di Jake. Un lento zoom a stringere mentre l’uomo supplica Mast di interrompere la proiezione, mostra le immagini riflesse sul suo volto, che improvvisamente diventa di un bianco abbacinante, perchè il loop è finito, ma egli – quasi non se ne accorgesse – continua a chiedere di interrompere la proiezione. L’immagine del filmino riflesso sul volto di Jake, viene duplicata subito dopo dall’immagine deformata dell’uomo nello specchio convesso all’interno del cinema: egli ha appena saputo della scelta di sua figlia ed è ignaro del fatto che dovrà ricorrere ad una “trasformazione” per provare a riportarla a casa. Trasformazione, che Schrader concentra in un’unica panoramica durante un momento di riposo in motel. Jake a Los Angeles, viene continuamente scambiato per poliziotto, quando si reca nei locali a luci rosse, a causa del suo abbigliamento troppo sobrio ed elegante, così che, subito dopo, lo vediamo disteso sul letto mentre il movimento di macchina mostra prima ciò che sta guardando in televisione (cioè la riproduzione di una funzione ecclesiastica), poi i suoi vestiti appesi, un panorama grigio piovoso di Los Angeles (dove sul muro di una casa compare il manifesto di Star Wars, quasi un richiamo al paradosso rappresentato dalla presenza di Jake in California) ed infine il volto pensieroso e tumefatto dell’uomo. Lo stacco successivo si apre su un cielo azzurro su cui si staglia un manifesto con la scritta “For those THINK PINK, Hustler magazine”, mentre da sinistra entra a mezza figura Jake vestito con abiti da pornografo. La “trasformazione” è dunque avvenuta, il passaggio dalla chiesa mostrata sullo schermo televisivo a quello del manifesto di Hustler, è condensato nel rapporto “impossibile” tra fede e pornografia. Ironicamente questa commistione viene ripresa durante il soggiorno a San Diego dalle parole che Niki rivolge a Jake: “Quanto credi sia importante il sesso? (l’uomo risponde che non è importante), vedi che ci somigliamo? Tu pensi che non sia importante al punto da non farlo. Io penso che non sia importante da farlo con chiunque”.

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I dodici minuti che chiudono il film sono fortemente simbolici, perchè mostrati attraverso colori monocromatici che richiamano la dimensione infernale, una strada in discesa che conduce ad un locale in cui Jake viene accolto da tre “schiave” di nome Faith, Hope and Charity, dopo aver assistito alla proiezione di uno snuff-movie mostratogli da Tod. Nella continuità dei duplicati lo snuff-movie, un loop in bianco e nero scadente – presumibilmente girato a Tjuana in Messico – replica il loop Schiava d’amore in cui vi è la presenza di Kristen. Attraverso la distruzione del locale sadomaso – in cui Jake scatena, nei confronti di Tod, tutta la sua rabbia repressa, ma che è prima di tutto rivolta verso se stesso – Schrader mostra simbolicamente la fragilità dell’”impero” del sesso. I muri dell’appartamento, vengono trapassati durante la fuga: muri di polistirolo, scenografie necessarie alla rappresentazione del sesso, ambienti inesistenti, costruiti sulla richiesta del desiderio e delle aspettative dei clienti. Una volta distrutto questo mondo, a Jake non resta altro che re-incontrare la figlia.

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Il luogo è un locale chiamato El Matador, e la ragazza è diventata, nel frattempo la compagna di Ratan, l’artefice degli snuff-movie, l’uomo violento, privo di scrupoli, insensibile alla vita umana al punto da filmarne la morte e mercificarla: perfetta antitesi del padre di Kristen, e paradossalmente suo duplicato, in quanto, come racconterà successivamente la ragazza, quelle persone le vogliono bene. Ratan, costretto alla fuga, viene ucciso da Andy Mast: il “cattivo” è vestito di bianco, e termina la sua vita sotto la scritta “Love act” dentro le vetrine di un locale chiamato, non a caso “Garden of Eden”. Mentre il padre “eletto” muore, quello naturale incontra la figlia all’inferno (nei sotterranei de El Matador). Un incontro incandescente in cui la ragazza si rivolge così all’uomo: “Non mi hanno costretta. Volevo andarmene di casa. Non toccarmi testa di cazzo. Non ti è mai fregato un cazzo di me, prima. Mai! Quindi non toccarmi adesso. Non ci stavo nel tuo fottuto mondo, non ero abbastanza carina e brava. Hai sempre disapprovato i miei amici, li hai allontanati da me. Ora sono con persone che mi vogliono bene. Mi hai derubato della mia vita”. Prima della redenzione, e della riunione, è l’uomo a dover ammettere la sua fragilità e con sofferenza a mettere da parte il suo orgoglio, mettendo a nudo se stesso e dicendo: “Dio, tesoro, ti voglio così bene…non ho mai saputo mostratelo. È molto difficile per me, nessuno me lo ha insegnato”. Al termine del viaggio l’inferno è stato attraversato, Schrader ha chiuso i conti con il suo passato, e l’epilogo ha valenza morale e non moralistica: il paradiso non è Grand Rapids, non è la California, non è il sesso e non è la pornografia, l’unico paradiso possibile è quello di una vita normale nell’armonia familiare riconciliata.

di Fabrizio Fogliato

HARDCORE
ANNO: 1979
REGIA: Paul Schrader
PAESE: USA
DURATA: 108 Min
SCENEGGIATURA: Paul Schrader
FOTOGRAFIA: Michael Chapman
MONTAGGIO: Tom Rolf
MUSICHE: Jack Nitzsche
PRODUZIONE: JOHN MILIUS E BUZZ FEITSHANS PER LA “A TEAM” – “COLUMBIA”
DISTRIBUZIONE: CEIAD (1979) – COLUMBIA TRI STAR HOME VIDEO
ATTORI: Marc Alaimo, Leslie Ackerman, Larry Block, Peter Boyle, Ilah Davis, Leonard Gaines, Season Hubley, Paul Marin, Charlotte McGinnis, Gary Rand Graham, Dick Sargent, George C. Scott, William Walker, Dave Nichols

 

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