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Anni Settanta

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HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Prima

L’infernale paradiso di …Kristen

 

Paul Schrader ha più volte dichiarato di aver fatto i conti con il suo passato e sublimato il rapporto con il padre anagrafico con il film Hardcore (1979). A ben vedere però, il film in questione, non è solo un viaggio autobiografico alla ricerca della propria identità (negata dalla famiglia), ma è anche un ritratto caustico, bruciante e irriverente di un microcosmo religioso (che in America conta per lo 0,1% della popolazione ma che ha dato al paese ben due presidenti: Martin Van Buren e Theodore Roosevelt), quello della declinazione calvinista della Chiesa Riformata d’Olanda. Il viaggio all’ “inferno” di Jake VanDorn, non è solo la discesa negli antri oscuri dell’essere umano di un padre alla ricerca disperata della figlia, ma è la traversata destinata a qualunque comunità che ponga alla base del suo Credo (religioso e non) la repressione aprioristica e la mancanza assoluta di spiegazioni comportamentali (come sarà, anni dopo, per quella di Das Weisse Band (Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke). La stessa, traversata, vissuta sulla propria pelle dal regista fino al compimento dei 17 anni, momento in cui varca contemporaneamente la soglia della sala oscura e quella della libertà e del suo “mistero”.

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L’incipit in voce-off del film del 1990 The comfort of strangers (Cortesie per gli ospiti) racconta di un passato e di un padre, in cui non si può non vedere i tratti autobiografici alla luce anche del taglio del protagonista di Hardcore e delle sua “trasformazione caricaturale” californiana (l’uomo di cui si parla, sembra quello chiuso nel Motel del Cinema intento a ricevere aspiranti porno-attori in Hardcore): “Mio padre era un uomo imponente. Tutta la vita ha portato dei gran baffi neri. Quando ingrigivano li tingeva di nero con uno spazzolino di quelli che usano le donne per truccarsi gli occhi, per darsi il mascara. Avevano tutti paura di lui: mia madre, le mie quattro sorelle. Quando eravamo a tavola nessuno poteva parlare a mio padre se non veniva prima interpellato da lui. Ma adorava me. Io ero il suo preferito”. La scelta della caricatura per tratteggiare visivamente un uomo “fuori posto” come è Jake VanDorn in California, evidentemente coincide con la necessità, per l’autore, di raccontare una storia privata annegandola nei meandri più oscuri e inconfessabili della sua giovinezza, all’interno della quale la pornografia ha avuto un ruolo fondamentale nel processo di “redenzione” auto-percorso dallo stesso Schrader. Il Jake VanDorn di Grand Rapids (Michigan) non è diverso dal Jake VanDorn esule a Los Angeles, San Diego, San Francisco: quello che cambia è il suo abito, il suo atteggiamento; così, almeno, crede lui, mentre invece è egli stesso a subire una trasmutazione irreversibile, al punto da chiudere il suo viaggio con questa battuta rivolta alla figlia ritrovata: “Adesso portami a casa tu”.

WILLIAM FRIEDKIN’S SORCERER (IL SALARIO DELLA PAURA, 1977)

Odissea infernale verso la morte

 

Lo schermo nero, poi una dissolvenza svela il volto di un demone scolpito nella pietra; improvvisamente dalla sinistra, il titolo del film entra come una lama: Sorcerer, ovvero Stregone. Il motivo, per cui il remake di Le salaire de la peur (Vite vendute, 1953) di Henri-Georges Clouzot, ha questo titolo, è da ricercare nel percorso artistico di William Friedkin. Il regista, quattro anni prima ha diretto The Exorcist (L’esorcista), e il tema della possessione continua  – in questo cult maledetto –  a contagiare i personaggi e la storia. Sorcerer è il delirio di onnipotenza di un autore giunto all’apice del suo successo, che crede di poter sfuggire alle regole e alle dinamiche di Hollywood lanciandosi in una produzione colossale girata lontano dagli studios, senza rinunciare al sottotesto d’autore, ma integrando la messa in scena con una potentissima metafora spettacolare. Lo stesso Friedkin dichiara: “Apocalypse now, Aguirre, Furore di Dio e il mio Il salario della paura sembrano in effetti aver sofferto dello stesso male. Sapete, la maggior parte dei registi ha un solo desiderio: quello di vivere sul filo del rasoio. Sapendo che un regista non ha sempre un controllo assoluto sulla propria creazione è evidente che egli ha forzatamente voglia di andare vicino al punto di rottura di una situazione data per provare al mondo di essere in grado di ritornare, all’ultimo minuto, padrone del suo destino”. (In Roy Menarini, William Friedkin, Il Castoro Cinema, pag. 56). Le difficoltà realizzative sono enormi: Universal e Paramount, sono al timone di una produzione da venti milioni di dollari, quasi interamente girata nella Repubblica Domenicana, con collaboratori che si ammalano di malaria, risse furibonde tra regista e attori sul set e in cui le scene più incredibili e difficoltose (come quella del ponte vengono girate più volte) tra intemperie e set distrutti dalle forze della natura. Per traslato, si potrebbe persino dire che il film stesso è posseduto da un demone, ma in realtà la “follia calcolata” di Friedkin, utilizza un viaggio verso la morte ribaltandolo di senso e trasformandolo in un viaggio iniziatico in cui il Male è sostituito al Bene e viceversa.

In uno sgangherato Stato dell’America Latina, nonostante la miseria che vi regna, la dittatura, il terrorismo politico, si rifugiano persone che per ragioni diverse in patria hanno conti aperti con la legge o con la criminalità organizzata. E’ il caso di Jackie Scanlon (Roy Scheider) che, unico superstite di un quartetto di rapinatori, è ricercato dalla mafia perché nel corso della rapina è stato ucciso un sacerdote, fratello di un boss. Victor Mason (Bruno Cremer), invece, è un banchiere parigino responsabile del fallimento della propria banca e causa del suicidio del fratello; Kassem (Amidou), invece, è fuggito da Israele dopo avere preso parte a un sanguinoso attentato a Gerusalemme. Angerman è un aguzzino nazista che verrà presto eliminato dall’ebreo Nilo (Francisco Rabal). Oltre che privi di denaro, i quattro (che nell’ordine si fanno chiamare: Juan Dominguez, Serrano, Martinez e Marquez) sono perseguitati dalla corrotta polizia del villaggio per via delle leggi di immigrazione. Disperati, i quattro accettano di trasportare su due autocarri antidiluviani delle casse di nitroglicerina, indispensabile per arrestare l’incendio di un pozzo petrolifero. Il “salario della paura” è di 8 mila pesos per ciascuno dei quattro (Marquez viene sostituito dal suo “giustiziere” Nilo). L’impresa è pazzesca, dovendosi percorrere 200 miglia di foresta su di una pista infame e con un carico in condizioni pessime. Serrano e Martinez finiscono in un burrone. Nilo muore per le ferite infertegli da guerriglieri. Juan Dominguez giunge alla meta e si assicura tutto il compenso ma nel villaggio sono giunti i killers che la mafia ha sguinzagliato per eliminarlo.

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ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri (prefazione di Davide Pulici)

Cineclandestino.it – Recensione a cura di Riccardo Nuziale

Ad oltre un anno dalla sua uscita – e in attesa del secondo volume – continua il grande successo di critica e di pubblico di “ITALIA: ULTIMO ATTO. L’altro cinema italiano” di Fabrizio Fogliato.

Italia, raccontaci un’altra storia! – Recensione di Riccardo Nuziale – 17 Giugno 2016 –

Nella storia del cinema italiano di Fabrizio Fogliato, ad esempio, non c’è spazio per i nomi che…”ci hanno sempre detto” essere la storia del cinema italiano. Niente Rossellini, De Sica, Visconti, Germi, Fellini, Visconti, Antonioni, Ferreri, insomma. Infatti Fogliato ha apostrofato il suo Italia: Ultimo Atto come l’altro cinema italiano. Un altro cinema, che molto difficilmente troverebbe spazio nei corsi universitari standard; e – o meglio, perché – un cinema altro, escluso dai canoni ufficiali in quanto impegnato a cercare strade non convenzionali, forse per la critica troppo poco intellettuali e grammaticalmente ortodosse ma non per questo meno coraggiose e, nei risultati migliori, meno riuscite.

leggi l’intera recensione

INTÉRIEUR D’UN COUVENT (INTERNO DI UN CONVENTO, 1977) di Walerian Borowczyk

Ordinarie trasgressioni di religiose per forza

 

Girato interamente in Italia e prodotto da Giuseppe Vezzani per la Trust International e la Lisa Film, Interno di un convento è forse il caso più rappresentativo del genere sexy-conventuale dell’intera storia del cinema. Nel 1977 Walerian Borowczyk sta lavorando ad un progetto cinematografico da realizzare in Italia con protagonisti Monica Vitti e Michele Placido, ma essendo entrambi gli attori occupati su altri set, il regista polacco decide di realizzare un film completamente diverso. Essendo rimasto attratto dalle poche pagine dedicate agli amori conventuali all’interno de “Promenades dans Rome” (Le passeggiate romane) di Stendhal, Borowczyk chiama sul set Ligia Branice e Marina Pierro e costruisce il film Interno di un convento come una sorta di passaggio di consegna tra le due muse ispiratrici. Considerato osceno e blasfemo, il film viene bocciato in censura e su di esso vengono operati pesanti tagli al momento dell’uscita nelle sale, e viene ritirato per ben tre volte dalla programmazione. Grazie al DVD della tedesca X-Rated, editato con il titolo Unmoralische novizinnen è oggi finalmente possibile vedere il film nella sua forma più integrale e completa, tenendo presente che si tratta dell’opera più controversa del regista polacco. “È stato detto con ironia che, venendo a girare un film in Italia, il regista ci ha dato quello che meritiamo. Una boutade che si può utilizzare, notando che Boro – una vita spesa nel paziente, angelico, travaglio dell’animatore – è assediato dalla produzione che offre mezzi e vuole in cambio film secondo l’immagine “italiana” del “maestro dell’erotismo”. Un meccanismo che non giustifica e che non assolve, specie se si considera Interno di un convento non col metro del moralista ma con quello dello specifico filmico. Grezzo e sbrigativo, pacchiano e immotivato, il film girato nei dintorni di Roma a fine primavera del ’77, si può facilmente liquidare in poche battute”. (Valerio Caprara, Walerian Borowczyk, La Nuova Italia, 1980)

Anno 1829 in un convento marchigiano, malgrado la continua sorveglianza della badessa (Gabriella Giacobbe), le giovani monache si abbandonano ad ogni sorta di piacere erotico: si amano tra di loro, si concedono nottetempo a nobili e contadini, si masturbano. Suor Clara (Ligia Branice) ha un amante (Howard Ross [Renato Rossini]) e quando la badessa la scopre tra le sue braccia e la punisce facendo allontanare il giovanotto dal territorio del convento, la giovane suora si vendica facendo avvelenare la superiora da una conversa. Ucciderà allo stesso modo, temendo di venir scoperta, la sua complice e la nipote della badessa. La verità verrà egualmente fuori, ma per timore di uno scandalo tutto verrà messo a tacere.

MILANO ROVENTE (1973) di Umberto Lenzi

In ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

 

nucleo centrale e rivelatore del film che trasforma Milano rovente da film d’azione in dramma sociale, è contenuto nella scena della confessione di Salvatore Cangemi dopo l’amplesso consumato con Jasmine. Il lungo monologo appare esaustivo delle intenzioni dell’autore e spiega al meglio come, durante la fuga, Salvatore prima dica a Virginia (compaesana avviata alla prostituzione da un mezzano che si spaccia per cugino): “Prendi la bambina e tornatene al paese. Vai via da questa merda fin che sei in tempo” e poi, recatosi al capezzale della madre morente, si senta dire da lei: “No figlio, io non vedrò più il paese, ma tu si… Questa non è vita per te…”. E’ la madre a rivelare a Cangemi la sua natura e quindi la sua inadeguatezza, quella che egli stesso ha sempre voluto mettere a tacere nella speranza di riuscire, costi quel che costi, ad affermarsi e a farsi accettare nonostante il suo essere “terrone”.

QUESTO SPORCO MONDO MERAVIGLIOSO (1979) di Luigi Scattini e Mino Loy

In LUIGI SCATTINI INFERNO E PARADISO (a cura di) Fabrizio Fogliato

 

QUESTO SPORCO MONDO MERAVIGLIOSO (1970) di Fabrizio Fogliato

Uscito nelle sale italiane il 21 Aprile 1971 il film – girato a quattro mani con Mino Loy – si rivela subito un clamoroso insuccesso. Neanche il divieto ai minori di 18 anni – all’epoca vero e proprio motivo di attrazione per il pubblico – riesce a convogliare nelle sale un numero di spettatori necessario per coprire le spese.

RIVELAZIONI DI UNO PSICHIATRA SUL MONDO PERVERSO DEL SESSO [1973] di Renato Polselli

Tutti i segreti del cinema “freak” di Renato Polselli. Prossimamente sul secondo volume di ITALIA: ULTIMO ATTO

 

Definire cosa è stato il cinema italiano degli anni’70 è praticamente impossibile e probabilmente non ha neanche senso tentare di farlo. La già avventurosa storia del cinema italiano, in quel doppio lustro diventa “fantasmagorica” attraverso l’accumulo, pressochè infinito, di materiali eterogenei e disfunzionali attraverso i quali si costruiscono migliaia di film di ogni genere (alcuni addirittura inventandoli da zero), magari complessivi di un pugno di pellicole, dalla qualità discutibile, con l’unico fine immaginabile di soddisfare ogni esigenza (dalla più rara alla più turpe) di un pubblico “affamato” ma non stupido, pronto a spendere poche centinaia di lire per evadere, almeno per un paio d’ore, dagli anni di piombo. Inevitabile (come ho appena fatto) chiudersi in stereotipi e luoghi comuni per dare spiegazione plausibile a quel periodo storico-cinematografico, come è altrettanto inevitabile non soffermarsi sull’unico aspetto pervasivo e indistintamente comune a tutti i generi: il sesso.

1968… MODI PER MORIRE… e oltre

In Italia: ultimo atto. L’altro cinema italiano. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

 

Nel 1968 la nostra industria cinematografica sforna oltre 250 titoli e una regione come il Piemonte ha in funzione oltre 800 sale cinematografiche (all’incirca una ogni cinquemila abitanti) tra prime, seconde e terze visioni. Il cinema dunque è, per chi lo fa, medium di canalizzazione della contestazione capace di dare vita ad una serie di nuovi autori (alcuni destinati a lasciare il segno, altri capaci di “ballare” per un solo film) mentre, per chi lo vede, da semplice passatempo, assume i crismi della rappresentazione di un orizzonte nuovo e suggestivo nonchè strumento di discussione.

1968… MODI PER MORIRE

In Italia: ultimo atto. L’altro cinema italiano. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

 

Quello del 1968 è un paradosso straordinario: l’anno che vuole cambiare il mondo, nel cinema italiano diventa l’anno in cui la rivoluzione è negata. I film del biennio 1968-1969 – finora poco storicizzati e affrontati in ordine sparso – visti nel loro complesso disegnano oscuri presagi sul futuro a medio e lungo termine e sono attraversati da un pessimismo, appiccicoso e intransigente, nei confronti di tutto ciò che è cambiamento. La cifra contenutistica è quella della disillusione, già sublimata prima ancora che l’illusione stessa si compia. E’ come se il cinema, tra i medium, fosse l’unico a fare i conti con l’immaturità endemica e le frustrazioni dell’italiano medio, e a mettere in scena la nemesi stessa del “sogno”, anticipando persino i tempi dell’attesa e sospendendo ogni illusione in uno stato di sospensione come è quello della “permanenza del possibile”.