Padre Nostro che sei nei cieli… dacci il nostro inferno quotidiano…

 

“Ho scelto quel titolo per suggerire come la strada intrapresa nel 1776 sia diventata col passare degli anni un vicolo cieco” (Richard Yates)

Sam Mendes firma la sua opera migliore con una regia misurata, tutta basata sul principio di sottrazione, meticolosa e puntuale nel sottolineare le crepe di una famiglia, una società e una nazione. Asseconda la meravigliosa sceneggiatura di Justin Haythe e traduce sullo schermo tutto l’impatto emotivo del romanzo di Richard Yates, con un rigore fino ad ora sconosciutogli, e costruisce una struttura narrativa scevra da ipocrisie, furberie e velleità. Attraverso Revolutionary Road, con il contributo determinate di Leonardo Di Caprio e Kate Winslet (nuovamente sul set insieme ad 11 anni di distanza dal Titanic), Sam Mendes mette in scene un racconto amaro e lancinante sul crollo delle illusioni. Sviscera il complesso emotivo-“rivoluzionario” degli anni ’50, ne mette in mostra una visione cruda e reale, ne esalta le contraddizioni, le ipocrisie e lo spaesamento post-bellico, ne denuncia il materialismo, il conformismo e la solitudine degli individui. Come il romanzo, anche il film manda in pezzi l’American dream attraverso una visione del futuro infantile e utopica, legata ad egoismi individuali, frutto più di frustrazione quotidiana che di desiderio di cambiamento. I personaggi di Revolutionary Road non sono bidimensionali (per la prima volta in Mendes): sono uomini e donne complessi, psicologicamente instabili, umani nelle loro sofferenze e nella loro rabbia repressa; perdenti consapevoli della disfatta imminente, anarcoidi sui generis legati ad un conformismo di convenienza e opportunità, ipocriti nel mostrarsi e bugiardi nel relazionarsi con gli altri (e tra loro).

“Revolutionary Road” è un romanzo scritto da Richard Yates, pubblicato nel 1961, osannato dalla critica e ignorato dal pubblico, fino a quando nel 2005 non viene inserito, dalla rivista Time, tra i migliori cento romanzi in lingua inglese dal 1923 ad oggi. Uno dei tanti monologhi presenti nel libro offre la migliore chiave di lettura per analizzare il film. Monologhi che servono allo scrittore prima e al regista poi per formulare una sorta di autocoscienza individuale in cui raccontandosi o esprimendo le loro opinioni, i personaggi si producono in una sorta di autoanalisi permanente. Frank Wheeler afferma: “Al diavolo la realtà! Dateci un bel po’ di stradine serpeggianti e di casette dipinte di bianco, rosa e celeste; fateci essere tutti buoni consumatori, fateci avere un bel senso di Appartenenza e allevare i figli in un bagno di sentimentalismo – papà è un grand’uomo perché guadagna quanto basta per campare, mamma è una gran donna perché è rimasta accanto a papà per tutti questi anni – e se mai la buona vecchia realtà dovesse venire a galla e farci bu!, ci daremo un gran da fare per fingere che non sia accaduto affatto”. Il crollo delle illusioni e la ricerca inesausta di un futuro che non c’è sono collocati in un momento ben preciso, quello compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio dell’era della modernizzazione, coincidente con la nascita e la diffusione del computer. La macchina che coadiuva l’individuo e che con il tempo lo fagociterà fino a tradurne oggettivamente la solitudine dell’individualismo. La perdita della dimensione collettiva in favore dell’egoismo personale, dell’affermazione carrieristica, della, meticolosamente, orchestrata, destrutturazione della famiglia, hanno come unico risultato possibile quello dell’aborto. Aborto che come bene denuncia il film di Mendes non è solo quello materno, bensì rappresenta ogni forma di cancellazione della personalità, della forza di volontà, della determinazione e delle emozioni, in favore di un bieco e rassicurante conformismo coatto.

April (Kate Winslet) e Frank (Leonardo Di Caprio) sono una giovane coppia americana degli anni cinquanta, con due bambini, che vive una vita apparentemente ordinaria in un quartiere periferico April è un’aspirante attrice, che ha rinunciato alle sue ambizioni per accudire i figli e, nostalgica del suo sogno, partecipa ad una rappresentazione amatoriale di “La foresta pietrificata”, che non ottiene il successo sperato. Dopo una furibonda lite in cui April accusa il marito di averla rinchiusa in un sobborgo e di averle infranto i sogni di gloria come attrice, Frank torna al suo odiato lavoro di impiegato, e April cerca consolazione nei ricordi dei tempi felici: un tempo Frank le aveva detto di voler andare a vivere a Parigi, perché lì la gente vive e sente davvero. Consumato rapidamente un adulterio con la giovane collega Maureen Grube, Frank fa ritorno a casa per trovarvi una moglie nuovamente sorridente. Nel tentativo di dare una svolta anticonformista alle proprie vite, April propone di lasciare l’America e trasferirsi a Parigi, dove lei avrebbe lavorato, mentre il marito avrebbe potuto accudire i figli, fintanto che non avesse trovato un impiego di suo gradimento. Frank accetta riluttante, soltanto per non dover deludere la moglie, che sembra quasi vivere una rinnovata passione persa da tempo. Ma ben presto Frank riceve una importante proposta di lavoro che gli promette soldi e prestigio. Cogliendo al volo l’imprevista gravidanza di April, l’uomo dissuade la moglie dal lasciare l’America. La donna propone l’aborto come soluzione, ma il marito è contrario e tergiversa fino al terzo mese di gravidanza, momento in cui l’aborto non è più praticabile, in quanto potenzialmente mortale per la madre…

Quella dei Wheeler è una fuga da fermo, un semplice desiderio espresso e urlato ad alta voce ma che non produce nulla di concreto. Parigi è un miraggio, una località “immaginaria” in cui poter trovare la felicità (ma sono i loro amici a dirgli che non è necessario andare in Europa per rincorrerla), quella che loro non riescono più a trovare nella vita coniugale, nelle loro giornate così monotone e così abitudinarie: Mendes mostra quest’aspetto attraverso un montaggio alternato che vede Frank dirigersi con il treno in città, mescolato e anonimo nel turbinio della massa monocolore (i vestiti tutti uguali e “grigi”) e semovente che esce dalla stazione e che si riversa nelle strade della metropoli come un fiume ininterrotto; a contrasto la solitudine di April, chiusa nella grande casa vuota e silenziosa, perennemente immersa nel vuoto esistenziale che la attanaglia, mostrato attraverso il suo continuo guardare (fuori) da dietro i vetri: April è chiusa in un acquario, la cui acqua solo apparentemente è linda (i colori pastello) mentre i suoi sorrisi si manifestano solo attraverso i flashback con i ricordi di gioventù. I Wheeler sembrano desiderosi di essere “diversi”, smaniosi di trovare negli “altri” lo specchio in cui riflettersi, generosi nell’offrirsi al prossimo e nel mostrarsi fintamente progressisti (l’accoglienza del malato di mente John, figlio dell’immobiliarista), ma in realtà sono ordinari, conformisti e sterili. In questo sono in netta contrapposizione con la coppia di amici formata da Shep e Milly, a loro modo desiderosi di essere “normali” e terrorizzati da tutto ciò che non rientra neri loro canoni di vita, al punto che paradossalmente Shep e Milly sono realmente, nella loro semplicità e ignoranza, molto più sinceri di Frank e April.

In Revolutionary Road, di “rivoluzionario” è rimasto solo il nome della strada, divenuta vicolo cieco come suggerito dallo scrittore del romanzo, ma anche luogo fintamente idilliaco come prefigurato da Mendes. La casetta bianca, in cima alla collinetta, circondata dal verde, incastonata al fondo di una strada senza uscita è qualcosa di più di un simbolo: è L’American dream di cui è rimasto solo il contenitore estetico mentre il contenuto, la famiglia (si sfalda) i mobili (si accumulano per un trasloco che non arriverà mai), i figli (non sono quasi mai presenti), il lvoro (è in città, lontano) e l’amore (ha cambiato indirizzo). Emerge nel film un nichilismo dei sentimenti modulato sulla reiterazione delle bugie e sul tradimento come atto quotidiano e “normale”; ogni azione dei due coniugi, dal momento della crisi in poi, è guidata dal desiderio di rivalsa sull’altro (ormai divenuto nemico) e dalla necessità della ripicca per affermare la propria personalità e per prevaricare i sentimenti dell’altro.

di Fabrizio Fogliato

[continua]

La seconda parte la troverete, tra qualche giorno, su questo blog.

 

 

 

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