Istantanea ad un millimetro dal baratro…

 

Certe battute nei due film del 1968 avevano un certa pregnanza contenutistica, mentre nella replica riproposta dieci anni dopo altro non sono che parodia di se stesse che di Leo sottolinea immergendole in un contesto ironico e dissacrante. In Brucia ragazzo brucia Margeherita, per presentare la sua libertà dice a Clara: “Bere quando non si ha sete e fare l’amore tutte le stagioni… è ciò che ci distingue dalle bestie”; nel 1978 “il nazariota” usa più o meno la stessa battuta solo più per rimproverare Lia che gli dice che non ha voglia di fare l’amore “a comando”: “Eh… ma cara figliola, bere quando non si ha sete, mangiare quando non si ha fame e fare l’amore quando non si ha voglia,…è proprio questo che ci distingue dalle bestie no?”.

Se in Amarsi male (dove, va notato che il sound che accompagna la scena in discoteca è la versione beat di “Avere vent’anni” di Spadaccino/ di Leo, ma dieci anni prima che il film esca), si ricorda il celebre scambio di battute tra Lucio Dalla e una giovane e avvenente bionda al bancone del bar, con l’uomo che chiede: “Hai letto La Rivoluzione sessuale?” e la bionda che replica: “No, l’ho fatta” e lo bacia con trasporto prima di allontanarsi, segno evidente di una liberta raggiunta e maturata, in Avere vent’anni la stessa battuta è ambienta nel cesso della comune. Una disinibita Lilli Carati vestita di solo camicione bianco, a piedi nudi e con bombetta in testa alla Charlot, apre la porta del cesso e trova “riccioletto” intento a defecare mentre legge un giornaletto porno. Lo scambio di battute tra i due è folgorante. “Che sei sessuofoba?”, “Sessuochè?”, l’uomo incalza: “Conosci Whilelm Reich?” e lei: “Chi è…un cantante?” , lui: “Uno scrittore. Hai letto la rivoluzione sessuale?”, la donna stizzita e rabbiosa: “Sì… e io l’ho fatta!”.

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Sin qui la superficie del film, ma la profondità di Avere vent’anni non è così evidente, è slabbrata, discontinua, frammentata così come lo è il film. Perché questo non voleva essere e non è un film come tanti: è l’autoritratto di un paese fotografato un millesimo di secondo prima del collasso (il 1978 è l’anno della strage di Acca Larentia, è l’anno dei tre papi, è l’anno del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro). Che si tratti di questo è esplicitato nella prima sequenza ultra-simbolica: sulla spiaggia all’alba si risveglia un gruppo di persone, alcuni in abiti borghesi si allontanano oltre le dune di sabbia verso il conformismo, privo di libertà, che hanno scelto, una coppia nuda si allontana verso il mare mano nella mano per non fare mai più ritorno, perché loro sono quei pochi che il 1968 l’hanno tenuto dentro, infine si incontrano Lia e Tina che sono “giovani, belle e incazzate” ma senza una meta, un’idea, che non sanno né cosa fare né dove andare e che vogliono solo prendere dalla vita tutto quello che offre, rosicchiando la carne sino all’osso, anche a costo di spaccarsi i denti. Sono convinte di essere libere ma fanno parte di una società maschilista e “fascista” che non vuole né libertà né emancipazione, si credono eroine senza sapere di essere già vittime, vogliono vivere con leggerezza ma si muovono in un mondo greve e pesante come un macigno che non vede l’ora di schiacciarle come mosche.

Nell’Italia (perché Roma rappresenta l’intero paese come mostrano le parti “sulla strada” in apertura e chiusura di film) di Avere vent’anni, Tina e Lia sono due intruse, due metastasi in grado di produrre il cancro, due anomalie incontrollabili che rischiano di diventare modelli (come dimostra la sequenza dove le due cantano e ballano sulla scalinata di Piazza di Spagna e camminano per Roma accompagnata dalla chitarra di Silvio Spadaccino), mentre uomini e donne le guardano incuriositi e attratti.

Nel film la comune è abitata da fantasmi, mentre i quartieri bene sono popolati di cadaveri come dimostra il “bestiario” dei clienti della vendita porta a porta di enciclopedie. Un elenco che comprende il macellaio con il figlio analfabeta, la sola e ricca borghese in cerca di “carne fresca a pagamento” per cauterizzare le ferite dei suoi fallimenti, il professore di filologia romanza che critica le scelte dei referenti in materia per l’enciclopedia e che sbava dietro alla provocante e cinica Tina e infine il pensionato ministeriale che per salvaguardare, ipocritamente, le apparenze ha sacrificato la sua felicità ad una moglie “mostro” che ne ha risucchiato energie e voglia di vivere; insomma, un campionario sintesi del finto intellettuale che ritiene di poter riscattare le sue miserie con l’acquisto del sapere preconfezionato, inutile e truffaldino di queste enciclopedie che da lì a poco riempiranno le librerie degli italiani, non per voglia di sapere ma per desiderio di apparire e di consumare.

E’ evidente, quindi, che di Leo ha già capito tutto, così come è evidente che il grido che lui lancia con il film sia inascoltato, fuggito e respinto al mittente, ed è altresì chiaro che un film fatto con questa (e di questa) urgenza non possa che riuscire imperfetto, mancato, sbagliato. A sostenere questa tesi c’è anche la battuta che Rico rivolge al commissario Zamboni quando questo gli rimprovera di essere in ritardo ideologicamente, e il ragazzo glaciale gli replica: “E lei è in anticipo”. Per capire il senso di quanto affermato da Rico bisogna prendere in considerazione la frase che scatena l’ira del commissario: “Gli spacciatori li conoscono tutti: li conosco io, li conoscono quelli che me la offrono e li conoscete pure voi. Li conoscete benissimo e non fate niente. Non dico voi o lei in particolare, ma il potere”.

Non dimentichiamo che siamo nel 1978 e che un film con Lilli Carati e Gloria Guida alfieri “a petto nudo” della commedia-sexy nello spettatore medio (nell’ “Italiota” di cui da sempre ha parlato di Leo) suscita solo desideri da buco della serratura. Avere vent’anni, invece è un film che vede come interpreti assoluti in due giga-ruoli due donne che con il loro comportamento fungono da specchio per mostrare l’idiozia e il “fascismo” del machismo e del maschilismo imperante; è un film in cui Tina e Lia mettono il maschio spalle al muro e in cui lo fanno non da angeli puri e immacolati ma da puttanelle arroganti e irriverenti; è un film in cui ogni cosa è sovvertita, la commedia-sexy in tragedia-horror, la contestazione nel suo fallimento, la libertà in “oscenità” e la seduzione in aggressione.

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Il finale “fiabesco” con Hansel e Gretel che si addentrano nel bosco e che dopo aver ballato l’ultimo ballo divincolandosi tra i tentacoli del “male” si ritrovano stuprate massacrate e morte di fronte agli occhi impassibili e consapevoli della strega cattiva non è solo una pietra tombale sul decennio e sulle storture illusorie della controcultura, bensì è un punto esclamativo tracciato col sangue da un uomo, Fernando di Leo, che afferma: “In fondo ve l’avevo detto che sarebbe finita così”. Perché non può passare inosservato che Roberto Reale prima dica torvo:“Ste puttane! Hanno fatto tutta quella moina lì nella trattoria. Ma tutta quella moina… sapete cosa voleva dire? Che non volevano maschi, che ci disprezzavano… E ora glielo facciamo vedere noi”, e, soprattutto, che dopo aver stuprato Tina con il bastone con lo sguardo ancora feroce, mentre alza la testa, guardi direttamente in macchina per incrociare gli occhi dello spettatore.

di Fabrizio Fogliato

[continua]

La quarta (e ultima) parte la troverete, tra qualche giorno, su questo blog.

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