Afflizione, la parabola dell’uomo qualunque… ovvero del dolore e delle pene…

 

Affliction, tra i film di Paul Schrader, è il più intimista. Una parabola religiosa che riflette sul limite che separa il Bene dal Male e su come questo si manifesti primariamente all’interno della famiglia. I personaggi del film sono di matrice letteraria, visto che provengono dal romanzo “Tormenta” di Russel Banks. Nel film non ci sono personaggi né positivi né negativi, ma solo persone profondamente umane con il loro bagaglio esistenziale di pregi e difetti e il loro dolore di vivere. Uomini e donne che abbracciano, loro malgrado, la Croce di Cristo, ne portano il peso per lunghi tratti della loro esistenza e l’abbandonano nel momento in cui esauriscono le forze per combattere. L’impostazione letteraria, permette al regista di costruire un intricato sviluppo di eventi, di cui è egli stesso a decidere quali portare a conclusione (e soluzione) e quali lasciare volutamente sospesi. Affliction, fa del dolore e dei sentimenti, il proprio perno, attorno a cui ruota, suo malgrado, un’umanità spaesata e avvilita, persa nella ricerca di una realizzazione esistenziale (pressochè impossibile) distaccata dalle proprie radici e dalle proprie tare ereditarie. Paul Schrader costruisce un film “statico”, un lungo susseguirsi di quadri che richiamano le stazioni della via crucis, alternati a campi lunghi di paesaggi innevati e spersonalizzati sullo sfondo di una cittadina del New Hampshire, che nel tempo diventerà un immenso complesso residenziale e commerciale. C’è la tentazione nel regista di dipingere (mai come in questo caso i pochi movimenti di macchina sembrano delle pennellate) il ritratto di una provincia morente e di celebrare uno degli ultimi atti della vita “di paese” attraverso la rappresentazione di un microcosmo variegato (apparentemente solidale), che progressivamente si rivela essere niente altro che un coacervo di vipere in cui rancori, invidie e suggestioni determinano caratteri e comportamenti.

Affliction, a prima vista, riflette sullo stato d’animo dei perdenti: loosers che nulla hanno di epico e di romantico ma il cui respiro ha il sapore acre e rancido del vino rimasto nel fondo delle bottiglie e i cui rapporti interpersonali sono irrimediabilmente compromessi da una endemica incapacità di amare. Nessuno è esente da colpe, anzi il “senso di colpa” è proprio il motore dei singoli comportamenti. La famiglia non è nucleo primario di sentimenti ed emozioni, ma luogo orribile in cui consumare il proprio astio e in cui sfogare le proprie frustrazioni esistenziali e lavorative. Ogni azione, ogni gesto, in Affliction è compiuto da protagonisti sotto forma di reazione violenta alle difficoltà della vita. Vita che i personaggi, non solo non sono in grado (non ne hanno gli strumenti) di gestire, ma addirittura ne subiscono passivamente e supinamente ogni imprevisto, intendendolo come una nuova sfida da affrontare e come un segno cinico e “bastardo” di un destino avverso che sembra non volergli permettere di trovare pace. L’incompiutezza di questi uomini e queste donne ha un origine ontologica, racchiusa nell’educazione che i padri tramandano ai figli (e in questo da parte di Schrader c’è un chiaro richiamo alla condizione americana), in cui, in passato come nel presente, è negata ogni comprensione e ogni compassione ma c’è posto solo per la violenza e per la vessazione. Affliction è un opera disperata e senza speranza, che, volutamente, non riallaccia i fili dell’esistenza ma che tende a rappresentarne la disgregazione. Le smagliature esistenziali della vita di ogni personaggio (tanto dei primari che dei secondari) sono irreversibilmente dilatate e non trovano ricomposizione perchè gli individui stessi scelgono l’autodistruzione e l’abbandono come unica risposta possibile al dolore straziante che li attraversa.

In Affliction non c’è posto per la felicità: questa è definitivamente sepolta sotto la neve e neanche l’arrivo dell’imminente primavera può farla rifiorire. I titoli di testa, quadri statici e imperturbabili, glaciali nella loro fissità e, sconvolgentemente, candidi nella loro purezza innevata, certificano l’immobilità di questa comunità (paradigma delle migliaia di altre simili sparse nei cinquanta stati dell’unione) divisa tra lavoro e bar, caccia al cervo e chees-burger, nella quale emergono prepotentemente tutte le contraddizioni e le crepe di un mondo in disfacimento (la provincia americana), che non è stato capace (e non ne ha avuto la forza) di opporsi all’avanzare del consumismo e del mercimonio dei valori, abdicando a se stesso scegliendo la strada più facile. Nel film, c’è una piccola scena, quasi anonima, che diventa significativa per illustrare questo discorso. Un dialogo tra Wade e i gestori della tavola calda di Lawford, in cui Wade sottolinea il suo disagio di fonte alla nuova insegna luminosa che dice “cucina casereccia” e in cui Margie gli risponde che è meglio ora che prima, perchè prima non c’era nulla. Prima il locale era un luogo come tanti capace di sopravvivere grazie al contributo della comunità e dei suoi abitanti che lo frequentavano in virtù del loro senso di appartenenza, mente ora è più impersonale, aperto a clienti di passaggio e provenienti da fuori, che sicuramente faranno aumentare gli incassi, ma che difficilmente ci torneranno. Ecco allora spiegato il disagio di Wade, quel “casereccia” suona ipocrita agli occhi della clientela abituale, ma è necessario come simbolo pubblicitario per richiamare i clienti, non più quelli di Lawford, oramai divenuti inutili e poco remunerativi a causa del rapporto di reciproca conoscenza interno alla comunità (e in base al quale è più facile fare favori e/o crediti), ma quelli che nel giro di pochi anni trasformeranno il paese in un enorme Walmart.

Scendendo in profondità si avverte che il film di Paul Schrader, è una pessimistica riflessione sulla natura umana, influenzata dalla dottrina calvinista di cui il regista è portatore, in cui l’abituale trappola coincide con la famiglia e in cui il sacrifico necessario è quello del padre (inteso in senso lato e non solo come genitore), ma dopo il quale non è possibile alcuna redenzione. Il film è diretto verso una meta ben precisa saldamente controllata dalla sapiente regia di Schrader, ma opera continuamente delle cesure e delle aperture che attraversano sia il tessuto narrativo che quello figurativo spiazzano lo spettatore mediante un vorticoso cambiamento di moduli espressivi: il dramma esistenziale si confonde con il thriller, poi se ne allontana per inseguire le coordinate della tragedia greca e infine si chiude nella staticità emotiva del dolore intimista. Sapientemente Paul Schrader elimina ogni punto di riferimento e ogni possibile appiglio narrativo per lo spettatore, cortocircuitando ogni volta ogni singolo evento illustrato e ritornando apparentemente sempre al punto di partenza, con l’obiettivo di spiegare solo ciò che è necessario e lasciare in sospeso ciò che non lo è. L’istanza narrante ha in Afflction una forza dirompente, frutto della grande personalità dell’autore, al punto che riesce a seguire il discorso narrativo tra numerose digressioni, improvvisi flashback, manipolazioni narrative e imponderabilità della parola recitata, agendo come l’occhio distaccato e glaciale dell’entomologo ma al contempo regalando allo spettatore una gamma di emozioni variegata per intensità e sfumature. Ecco dunque, che i perdenti di Afflction, non sono solo tali, bensì sono dei predestinati cui un destino “sporco” ha riservato solo dolore e afflizione. Secondo la dottrina protestante, lo status esistenziale è determinato dal successo economico, e nonostante le buone intenzioni di Wade e degli altri, la società in cui essi vivono appare dominata dai corrotti e pertanto a loro preclusa. Aflliction, con un ossimoro, può essere definito come un film “modernamente antico”, in cui la lentezza della regia corrisponde alla lentezza del dolore che si insinua sotto la pelle dei personaggi e in cui la tragedia è immanente sin dal primo fotogramma. La derivazione letteraria e il dubbio che ne animano lo sviluppo e la certificazione dei fatti raccontati, contribuiscono a rendere “universale” questo affresco dolente e pessimista, scevro da ogni presunzione autoriale fine a se stessa, ma stretto in un rigore di matrice bressoniana che toglie il fiato.

In una cittadina del New Hampshire, Lawford, Wade Whitehouse (Nick Nolte) fa il poliziotto, e ogni giorno è per lui un confronto con se stesso e con gli altri. Nel frattempo altri accadimenti si intrecciano con le vicende del poliziotto, e sconvolgono l’apparente tranquillità della cittadina innevata. Wade è in lite con tutti: la moglie lo ha lasciato, in ufficio con Lariviere, al bar, ovunque, alza la voce: a consumarlo è l’inesorabile conflitto con il padre Glen (James Coburn), anziano ma ancora vigoroso. Un padre arcigno e quasi sempre ubriaco, che psicologicamente agisce, anche a distanza, sui comportamenti di Wade. Mentre l’altro fratello Rolf (Willem Dafoe) si è allontanato, Wade porta con sé le scorie di un’adolescenza in cui il padre ha trattato i figli con brutalità e intimidazioni. Un giorno Wade prende sua figlia, la porta a casa ma il suo nervosismo incute nella bambina grande timore. Allora Margie (Sissy Spacek), la ragazza che vive con Wade, la porta fuori a passeggiare. Margie ha deciso di lasciare Wade. Poco dopo Glen raggiunge Wade nel granaio e, con tono derisorio, prima sbeffeggia e poi colpisce alla testa il figlio…

Le parole che aprono il film sono le seguenti, che immaginiamo pronunciate da Rolf il fratello più giovane di Wade: “Questa è la storia dello strano comportamento e della sparizione di mio fratello più grande; noi che gli volevamo bene non parliamo più di Wade. E’ come se non fosse mai esistito. Raccontando la sua storia, come sto facendo, rompendo il silenzio intorno a lui, sto raccontando anche la mia storia. Gli eventi importanti, quelli che danno corpo al racconto, sono accaduti durante una sola stagione di caccia al cervo, in una piccola cittadina del New Hampshire, dove Wade è cresciuto e dove sono cresciuto anch’io. Una notte qualcosa cambiò, e il mio rapporto con Wade non fu più lo stesso. Io avvertii questo cambiamento dal tono della sua voce, durante una telefonata, la notte di Halloween, qualcosa che non avevo mai sentito prima. Immaginiamo che una sera di Halloween, intorno alle otto, arrivi una Plymouth azzurro chiaro con la sirena della polizia sul tetto. Un uomo dalla faccia quadrata, con una giacca da poliziotto, è al volante. Accanto a lui è seduta una bambina che indossa una maschera di plastica che raffigura una tigre”. Un incipit fatto di concretezza e ipotesi (quell’immaginiamo è un chiaro richiamo alla possibilità, non di certo alla certezza, relativa ai fatti raccontati), in cui Schrader si interroga sulla “menzogna” ontologica del racconto cinematografico. Non a caso lungo tutto il film la parola più inflazionata nel rapporto tra fratelli è “verità”. Il fatto che la ricerca della verità sia legata ad un aspetto marginale della vicenda, come la morte di Evan Toumbly durante una battuta di caccia, non fa altro che complicare le cose, perchè non solo questa verità non viene accertata, ma anche gran parte degli altri fatti del film restano sospesi in uno spazio inerte in attesa di conferme e/o smentite. In definitiva, dunque Affliction vive di paradossi: è un film-menzogna che parla di verità, è un film di superfici che nasconde l’abisso della coscienza, e un film di emozioni ma le nega aprioristicamente ai suoi personaggi, è un film sull’imponderabilità del destino sapendo che il disegno sulla comunità di Lawford è già scritto (come spiega l’ultimo piano-sequenza), è un film letterario che della sua matrice, valorizza solo il dubbio e l’incertezza. Tutto quanto è chiuso nei 108 min. del film, piaccia o non piaccia, in definitiva, riguarda ognuno di noi.

di Fabrizio Fogliato

[continua]

La seconda parte la troverete, tra qualche giorno, su questo blog.

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