Der Letzte Mann

Die Ribellion (id. 1993) comincia con le immagini del funerale di Francesco Ferdinando nel 1914 a cui seguono le immagini documentarie della prima guerra mondiale. Mentre scorrono i titoli di testa il sonoro alterna audacemente vari inni nazionali: Tedesco, Francese, Americano, Inglese … quasi a voler contestualizzare il momento storico narrato a cornice necessaria agli eventi (cronologicamente successivi) dell’opera di Joseph Roth. Sensazione che si fa concreta in virtù del finale del film stesso, dove un lungo carrello segue il piede di Andreas Pum, con legato all’alluce il cartellino 073, lungo un corridoio dell’obitorio, per poi lasciarlo e seguire Willi uscire dalle camere mortuarie fischiettando. Willi esce fuori e la città inquadrata dall’alto fa da sfondo al cartello, a questo punto beffardo, Die Ribellion, cui seguono i titoli di coda sottolineati dal sonoro dell’allegro fischiettare di Willi. Quest’opera di Michael Haneke si presenta come la più formale dal punto di vista stilistico e interpreta il romanzo di Joseph Roth in modo molto libero e personale. Lo si deduce sia dall’aggiunta di alcuni dialoghi (come ad esempio quelli pronunciati dal tremante Bossi), sia dal tono rassegnato e freddo, quasi cronachistico, con cui Udo Samel interpreta la lettura in voce off dei dialoghi dal testo originale, in controtendenza con il senso di stupore e sorpresa che Roth innerva nella sua narrazione.

Vienna, primo dopoguerra. Andreas Pum (Branko Samarovski) è stato un buon soldato: ha ubbidito, ha lottato per il suo Kaiser e ha perso una gamba per la patria. Ma il riconoscimento da parte della patria non arriva. Andreas Pum ottiene come ricompensa una licenza e un organetto, così da guadagnarsi da vivere nei cortili di Vienna. Conosce una vedova, Katharina Blumich (Judith Pogany) e la sposa. Un giorno, però litiga con un signore elegante disturba la quiete pubblica e colpisce un poliziotto. Andreas Pum viene condannato, perde la licenza e la vedova e, uscito di prigione diventa custode della toilette al Cafè Halali. Solo nel momento della morte si rende conto di essere stato sempre onesto, di aver sempre ubbidito. L’ultima ribellione contro il Giudice ultimo, arriva troppo tardi. Il suo cadavere viene mandato all’Istituto di anatomia.

Die Ribellion di Haneke si presenta come più austero e severo rispetto al romanzo, ma contiene alcune concessioni formali che sembrano contraddire il rigore di fondo. L’utilizzo del bianco e nero virato verso un seppia antico (come quello delle fotografie dei primordi), alternato ad un uso del colore che riproduce i colori delle cartoline sono una concessione estetica che il regista può permettersi in quanto si tratta di un film per la televisione. Sia il seppia che il colore vengono utilizzati e “sporcati” nel loro significato con chiari rimandi all’essenzialità e alla “non cura” di chiara matrice bressoniana. I colori non sono quasi mai vivaci, sempre opachi, immersa in una monotonia cromatica che sembra contraddirne il significato intrinseco e linguistico: all’inizio descrivono i sogni di Andreas, ne sottolineano i brevissimi momenti di felicità e infine (perdendo ogni contrasto) commentano i primi passi della sua “nuova vita”. Il seppia invece domina gran parte del film e appare quasi sempre sfumato e “trasparente”, come a voler sottolineare, anticipando l’istanza narrante, l’ineluttabilità del destino cui è condannato Andreas Pum. Solo in due momenti i contrasti si fanno accesi e il seppia descrive in maniera espressionista con l’utilizzo di ombre e di chiari e scuri momenti cruciali della vita del protagonista: il diverbio sul tram e la reclusione di sei settimane.

 Le leggi, per noi poveretti, sono come tagliole che intralciano la strada e se anche abbiamo una licenza, un poliziotto sta in agguato ad ogni angolo. Siamo comunque prigionieri e in balia della violenza dello stato, degli uomini con due gambe, della polizia, dei signori sulle piattaforme dei tram, delle donne e dei compratori di somari.[i]

Non a caso questi sono i due momenti più bressoniani di Die Rebellion; situazione in cui l’autore austriaco, grazie alla lezione del suo maestro descrive con l’essenzialità di poche inquadrature non solo l’orrore dell’istante in cui avvengono, ma metaforizza i due eventi come emblematici di dinamiche universali. La scena sulla piattaforma del tram cui segue l’assurdo diverbio tra Arnold e Andreas è concentrata nell’utilizzo esclusivo del campo e del contro-campo, e viene aperta e chiusa dall’inquadratura ravvicinata della ruota del tram (che all’inizio si muove sui binari e al termine si blocca in seguito alla frenata del controllore). Il campo presenta Arnold come un individuo austero e circondato da una piccola folla di persone (quasi a fare da coro) mentre il contro-campo presenta Andreas isolato e solo con sullo sfondo i vetri rigati dalla pioggia: è quindi già chiaro quale sia il rapporto di forza tra i due individui. Il dettaglio della ruota in movimento vuole sottolineare l’avvenuto “riscatto” di Andreas (ha ritrovato l’amore e possiede una licenza che gli garantisce il rispetto del prossimo); l’inquadratura della frenata ne sottolinea invece la definitiva sconfitta della sua breve “ribellione” (perde sia la licenza che l’amore).

Il totale, immerso nella fitta schiera di ombrelli della folla, attraverso cui si vede la discesa dal tram dei due individui e il successivo ritiro della licenza, è solo il suggello all’impossibilità di Andreas Pum di riscattare la propria condizione e segna (in Haneke come in Roth) il suo passaggio da “eroe di guerra” a “vittima della società”. Condizione esasperata successivamente attraverso la descrizione della prigionia dove tutto l’orrore della burocrazia statale e dell’alienazione della vita “dopo la guerra” viene reso paradossalmente attraverso una messa in scena rigorosa e perfetta. Soluzione che, attraverso una reiterata sequenza di atti autoconclusivi, fatta di stacchi brevi e a camera fissa, utilizzando il dettaglio come elemento dirompente della messa in scena, si integra perfettamente con la scelta di commentare l’intera sequenza utilizzando un silenzio “urlato” che ghiaccia il sangue e che richiama (ancora una volta) il cinema di Robert Bresson. Haneke contribuisce a congelare la sequenza utilizzando l’ellissi temporale e con l’espediente della frammentazione: mostrando in sequenza la finestra sbarrata, il piede scalzo di Pum, il cibo lasciato nell’angolo, la feritoia sulla porta e il rilascio dei propri bisogni fisiologici nel tombino, il regista restituisce attraverso pochi stacchi la totalità della condizione umana del prigioniero. Questi non è tale solo dietro le sbarre, ma (ri)vive la stessa condizione nell’alienazione e meccanizzazione provocata dalla vita e dal lavoro in città.

Non a caso quando Andreas Pum diventa guardiano dei gabinetti del Cafè Halali, Haneke sottolinea la sua condizione utilizzando lo stesso stile della sequenza della prigione. Azioni reiterate (pulizia del lavandino, lucidatura del rubinetto, dar da mangiare al pappagallo, buttare la spazzatura) sono riprodotte con lo stesso taglio a camera fissa, con l’unica differenza che al posto del grigio scuro dell’intonaco sbrecciato della cella troviamo il bianco candore delle piastrelle di maiolica. Due prigioni diverse quindi e due paradigmi della falsità del potere e dell’assurdità della burocrazia che, nella visione cinica e pessimista di Haneke diventano elementi in grado di distruggere la vita di un uomo.

[…] Continua.

[i] Joseph Roth, La ribellione, Adelphi, Milano 1989, p. 104

Per saperne di più…. http://www.falsopiano.com/hanekeprima.htm

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di Fabrizio Fogliato 

 

 

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