Il sesso della rivoluzione…

Tratto da un soggetto dello stesso regista e sceneggiato in collaborazione con Piergiovanni Anchisi, Cálamo è l’opera prima di Massimo Pirri ed è anche il film in cui i riferimenti a Luis Bunuel (per le immagini surreali) e a Michelangelo Antonioni (per il modo di inquadrare lo spazio e il paesaggio) emergono meglio, grazie anche ad una scrittura filmica coerente e meticolosa. Il titolo – che fa riferimento all’immagine di un fiore carnivoro equiparato al sesso femminile depilato – identifica nell’attrice il film stesso: sui titoli di testa infatti, compare l’inconsueta dicitura Cálamo è Paola Montenero. Cálamo è dunque un simbolo, quello della ricerca, meditata e assoluta, della trasgressività, sia a livello di forma sia a livello di contenuti. Cálamo è una pianta carnivora che dona al contempo amore e morte, ed è quindi solo la rappresentazione di un concetto, quello di amore/peccato che tutto travolge e tutto annulla flirtando con una trasgressione fittizia e posticcia che niente ha di reale. Una trasgressione falsa perché agita da rivoluzionari in giacca e cravatta che, nella parole aleatorie e nella proiezione del sesso libero, credono di violare la costrizione (della religione) e di trovare la libertà (intesa come assenza di regole).

Membro di dissestata famiglia alto borghese della Puglia, Riccardo (Lino Capolicchio) studia in un collegio svizzero tenuto da religiosi che lo indirizzano verso una confusa vocazione clericale. La sorellastra Stefania (Valeria Morioni), dopo avere fatto di tutto per farlo passare da giochini erotici a rapporti completi non ottenuti, ora gli annuncia il fidanzamento e il matrimonio. Riccardo, portandosi la tonaca appresso, cerca disperatamente di conquistare l’ormai riluttante sorellastra. Quindi, incontrata sulla spiaggia una comunità hippy, composta da pseudo-contestatori, si congiunge con Marina (Paola Montenero); prende parte alle vacue dissertazioni sulla società da cambiare, si dà alla droga e finisce anche in prigione. Abbandonato anche dalla fatua Marina e dai nuovi amici, Riccardo interviene per difendere la ragazza da uno stupro ma viene selvaggiamente ucciso, sulla spiaggia, da un branco di motociclisti.

Vanità delle Vanità, dice Qoelet, Vanità delle Vanità, tutto è Vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo dove risorgerà.[1] Questo brano dal libro di Qoelet (ma nel film è citato come Ecclesiaste) contiene al suo interno tutto il senso dell’opera prima di Massimo Pirri. “Vanità”, cioè l’essere illusorio delle cose e, per conseguenza, la delusione che esse riservano all’uomo. Cálamo è Vanità: un road movie spirituale che contrappone da un lato il dubbio e il libero arbitrio del seminarista e dall’altro il “gruppo” (=società) con le sue certezze fittizie (e materiali) e le sue ipocrisie.

L’abito del film è quello del travestimento che lentamente disvela l’“Essere” di uomini e donne. In questo Massimo Pirri è diretto sin da subito – già dalla prima sequenza del film – nel mostrare lo scambio dei vestiti tra Riccardo e Stefania; sublimazione simbolica di un rapporto sessuale impossibile. In una società corrotta come è quella rappresentata nel film, il trasformismo non rappresenta l’eccezione bensì la norma. Lo dimostra il fatto che la tonaca da prete di Riccardo diventi oggetto di travestimento, maschera, gioco, persino dileggio da parte di tutti coloro che la toccano – escluso il suo legittimo proprietario. Riccardo, prete-bambino, nel film riveste (e incarna) questo duplice ruolo, agendo sulla sottile linea di demarcazione su cui si legge il libero arbitrio. Egli è un “povero Cristo” (nel senso letterale del termine) costretto – suo malgrado – a intraprendere una via crucis al termine della quale è prevista la redenzione ma è negata la resurrezione.

Il bambino, invece, si manifesta in Riccardo attraverso sia le sue impulsive reazioni infantili sia con la sua mancanza di conoscenza dell’universo femminile. Più volte, infatti, lungo il film – da parte di tutte le donne che incontra – gli viene chiesto (intimato) di crescere. Cosa che mette in evidenza tanto la sua impotenza (non quella sessuale) quanto la sua estraneità alla società in cui è inserito, perché, questa, non prevede la possibilità di rimanere innocenti, ingenui e puri – pena l’annientamento violento. Cálamo è, quindi, una via crucis esistenziale e dimezzata (perché interrotta) e una riflessione autodistruttiva sul concetto di libertà. Il film si presenta come un coacervo di immagini, prospettiche e illusorie, nel tentativo vano di affermare la realtà materiale degli eventi. Ad emergere è invece il lato spirituale e religioso della “scelta”, generato e alimentato dal libero arbitrio. Il racconto è quello di “un’apparenza di società” che ben presto si rivela invece come “società dell’apparenza”.

“E’ un film che parla di giovani e dell’impossibilità materiale di comunicazione fra i due grandi gruppi in cui essi si dividono. Nel primo, quelli pienamente realizzati o che hanno già individuato strade e strumenti per raggiungere i loro obiettivi; nel secondo, coloro che questi strumenti non li posseggono, per diversi motivi, e che dunque non riescono a realizzarsi. Lo scontro o l’incontro di questi due blocchi, che reciprocamente si attirano e si affascinano, provoca un “corto circuito”. Ci sono implicazioni politiche, ma mediate da questi elementi: il mio esame si compie attraverso un occhio che non divide in fazioni, ma che diviene, però, “fazioso” quando individua le strutture che ingabbiano molti giovani, occultando loro i mezzi che possono aiutarli a definirsi, a prendere coscienza di se stessi. Strutture come un certo tipo di borghesia, quella disimpegnata, […] quella dell’accettazione passiva dei compromessi; ed è proprio questa classe sociale a partorire la figura del protagonista, un uomo che vive da vittima, tutte le contraddizioni del suo tempo, fino al scrificio”.[2]

Il processo risolutivo costruito da Pirri, si attua attraverso la maschera che, in Cálamo, diventa archetipo dell’apparire. Il prete, quando indossa abiti borghesi, sprofonda nel vizio e nella corruzione e perde ogni aura di spiritualità: è un “uomo che guarda” la violenza, la sopraffazione e la perversione, senza agire, mantenendo un distacco iconico e ambiguo. Il gruppo di borghesi – rivoluzionari en travesti – profetizza un mondo migliore ma, dopo l’ebbrezza del divertimento e dell’abbandono (sesso libero, droghe e vagabondaggio), si riveste dei comodi panni eleganti e conformisti e ritorna trionfante nel mondo che disprezza (a parole) ma che vuole (nei fatti). Quello dello smascheramento è un processo che origina un’interpretazione e quindi, demistifica l’immagine (anche quella filmica) e ne fa emergere l’essenza, costruendo un percorso che ribalta le apparenze: il prete quando torna ad essere tale, muore; il gruppo deposto l’abito “rivoluzionario” torna a mimetizzarsi nel conformismo. Una delle accuse che vennero all’epoca rivolte al film di Pirri é proprio quella di girare a vuoto, di essere inutilmente prolisso e pretenzioso – come conferma la seguente recensione a firma Maurizio Porro:

Opera prima di Massimo Pirri (trent’anni, ingegnere, assistente di Emmer e di Quilici). Càlamo si perde, nonostante le buone intenzioni di partenza, nel racconto di un esistenzialismo di maniera. Il che provoca, in più di un’occasione, un’inverosimiglinza che, senza diventar grottesca, rompe la presunta drammaticità dell’insieme. E’ un film dalle molte e inutili parole, dove i ritmi del cinema rimangono sepolti da una datata retorica sulla gioventù, al quale non giovano neppure i professionali ammiccamenti della Moriconi e di Capolicchio, né alcune altre beltà sparse nel sole della Puglia”[3]

di Fabrizio Fogliato ©

 

[1] Qo, 1; 2-5

[2] Massimo Pirri in Materiali Cineteca Nazionale

[3] Maurizio Porro, Corriere della Sera 02 Aprile 1976

 

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