Il cinema di Gaspar Noé: atmosfere surreali e lisergiche, le coordinate Anémic Cinéma

Il punto di vista soggettivo che percorre tutto il film, è la rappresentazione filmica del flusso di coscienza: ecco perchè la soggettiva non è tale, perchè subendo un lieve spostamento che la rende una pseudo-soggettiva, lo sguardo sulla realtà del protagonista non collima con lo sguardo dello spettatore. Non si tratta dunque di un film in soggettiva che ammicca al modello (dichiarato dallo stesso Noè) di Lady in the Lake (1947) di Robert Montgomery, bensì di una operazione in cui lo spettatore vede di più (ma non necessariamente meglio) di Oscar. Nonostante il ricorso al facile espediente del battito delle ciglia aggiunto allo scorrere delle immagini per aumentare l’aderenza tra lo spettatore e il personaggio, il film non riesce mai (e questo è sicuramente il limite più grande del film) a rendere credibile l’artificio narrativo, perchè l’assenza di un controcampo (in presenza di una finta soggettiva) da una sensazione di indeterminatezza e di straniamento che mette a disagio. Quello che per tutti è un limite, paradossalmente, per Noè diventa la norma, perchè come nel caso di Irreversible, anche in Enter the Void, l’intento del regista nei confronti dello spettatore non è quello di catturarlo bensì di destabilizzarlo.

Chi si ostina a definire puerile e inutile il cinema di Gaspar Noè, evidentemente non comprende l’apparato teorico del regista e non riesce a distaccarsi dalla superficie del suo cinema (sicuramente imperfetto e irrisolto), anche perchè forse non ha la sensibilità (intesa qui come rinuncia la proprio ruolo di (re)censore) per lasciarsi andare alla fluttuazione delle immagini e al flusso indistinto di suoni e cromatismi, ma ricerca, inutilmente appigli nel tessuto narrativo (volutamente sempre assente) dei suoi films. L’obiettivo, utopistico e meritorio, di Gaspar Noè quello di tracciare con le immagini un reticolato di coordinate spazio-temporali, come dimostra Enter The Void sin dall’inizio, con i suoi mirabolanti titoli di testa “sparati” al ritmo incessante di frame stroboscopici montati su una martellante colonna sonora techno, con l’obiettivo dichiarato di fare astrazione della narrazione per abbandonarsi ad atmosfere surreali e lisergiche secondo le dinamiche di un “Anémic Cinéma” psicotronico e psicotropo. Enter The Void, rivisita, a livello teorico e concettuale, l’opera di Marcel Duchamp del 1926, ed è duchampianamente composto da una serie di riprese rotanti, fatte di movimenti circolari a spirale e non concentrici, ed ambisce ad essere l’archetipo di un “cinema anemico”, svuotato di ogni senso letterale ma ricolmo di forma e colore.

La droga è l’artificio che permette questa operazione, mentre il sesso è il mezzo per il raggiungimento naturale (in contrapposizione a quello lisergico) di uno stato sensoriale iperbolico e sospeso: il trip e l’orgasmo, infatti, secondo Noè, rappresentano le uniche possibilità concrete e terrene per provare a vivere, in anticipo, la vita dopo la morte. Il ricorso ad un susseguirsi, presso chè ininterrotto, di piani sequenza (alcuni reali, altri (ri)creati in CGI), serve al regista per tenere assieme e legare l’esistenza presente, passata e futura di un gruppo ristretto di individui il cui comportamento è determinato, di volta in volta, da quanto avvenuto/scelto in passato (il tutto è mostrato in un percorso a ritroso, fatto di sogno, nel sogno, nel sogno…) Il “The Void” del titolo, oltre ad essere il nome del locale in cui viene ucciso Oscar, è anche quello che compare a caratteri “impact” al posto della scritta “The End” nella chiusura del film: dunque il vuoto è l’esistenza terrena di una città/mondo ri(con)dotta a modellino di se stessa. E se le anime fluttuanti che vagano sui tetti di Tokyo, e che popolano la fantasmagoria acida di Noè, appartenevano a uomini in carne ossa che stupidamente e inutilmente si sono fatti uccidere, è perchè i loro sentimenti sono edipico-incestuosi e la loro massima ambizione sembra essere quella di inseguire una felicità fittizia e artificiosa.

I tre locali che compaiono nel film, Il “The Void”, il “Sex Money Power” e il “Love Hotel”, altro non sono che i tre paradigmi di una trinità (quella fatta di droga denaro e sesso) che si è sostituita a quella religiosa (ecco la scelta di uno sguardo “divino e immanente” della ripresa) e sono tre non-luoghi in cui si materializza la fuga dell’uomo contemporaneo da una vita troppo carica di responsabilità e di bisogni per poter essere sopportata senza il ricorso all’uso della droga. Il Love Hotel, teatro della lunga sequenza acida e stroboscopica infarcita di riferimenti huxleyani e di richiami hard, è uno spazio ctonio in cui il sesso si materializza nella sua forma più immaginifica, cioè come una visione infernale/celestiale e fantascientifica, in cui i genitali pulsano di luce colorata e gli amplessi orgiastici appaiono percorsi da squarci allucinatori e psichedelici. La sequenza, che altro non è che una sorta di ampliamento del videoclip hard Protege-Moi girato da Noè nel 2003 per il gruppo rock dei Placebo, mostra gli esseri umani intenti nella consumazione di una sessualità compulsiva e asettica, pornografica perchè svuotata di ogni emozione, e rappresenta il termine del viaggio prima della morte e (ri)nascita. L’ “albergo dell’amore” viene dopo il “go go club del denaro” e il “vuoto della droga”, e i tre locali, altro non sono che la rappresentazione della catena con cui l’individuo è legato al dolore dell’esistenza.

Non a caso nel film, c’è un continuo andirivieni tra situazioni passate, presenti e future tutte a carattere doloroso e traumatico alternate a rari momenti di felicità e di gioia, perchè questa e l’altalenante rappresentazione della vita di ogni individuo, e perchè nell’intento visionario e magniloquente di un opera come Enter The Void (con il senno di poi, quasi una sorta di versione acida di Three of Life) c’è prima di tutto la ricerca del punto di vista definitivo: Oscar, infatti, solo quando muore e l’anima si scollega dal proprio corpo, riesce a diventare puro sguardo (quello divino e realmente e trascendentalmente soggettivo) è può così essere protagonista di un viaggio immaginifico che in 165 min. prova a trasformare il cinema in una grandiosa e iperbolica celebrazione della vita: dalla nascita fino alla morte, mostrando come il ciclo dell’esistenza non si blocca mai: secondo Noè (nomen omen) non esiste la fine ma solo il vuoto, che cosa poi questo sia sta ad ogni spettatore deciderlo.

di Fabrizio Fogliato

 

ENTER THE VOID

Paese: Francia, Germania, Italia, Canada
Anno: 2009
Durata: 161′

Regia: Gaspar Noé
Sceneggiatura: Gaspar Noé, con l’aiuto di Lucile Hadzihalilovic
Fotografia: Benoît Debie
Montaggio: Marc Boucrot, Gaspar Noé, Jérôme Pesnel
Musiche: Thomas Bangalter
Costumi: Nicoletta Massone
Scenografia: Kikuo Ohta, Jean Carrière
Effetti speciali: Franck Bonetto, Olivier Gleyze, Les Versaillaiss
Effettivi visivi: BUF Compagnie *
Line Producer: Suzanne Girard, Georgina Pope, Olivier Théry-Lapiney
Produttori: Pierre Buffin, Brahim Chioua, Olivier Delbosc, Peter Hermann, Vincent Maraval, Susanne Marian, Marc Missonnier
Produttori associati: Philippe Bober, Valerio De Paolis, Nicolas Leclercq, Gaspar Noé

Interpeti: Nathaniel Brown (Oscar), Paz de la Huerta (Linda), Cyril Roy (Alex), Olly Alexander (Victor), Masato Tanno (Mario), Ed Spear (Bruno), Emily Alyn Lind (Linda bambina), Jesse Kuhn (Oscar bambino), Nobu Imai (Tito), Sakiko Fukuhara (Saki), Janice Sicotte-Béliveau (madre), Sarah Stockbridge (Suzie, madre di Victor), Yemi (Carol)

 

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