“Io invece le vedo tutte, perché vedo…en ronde”.

È curioso vedere, come i personaggi nei film alle buone intenzioni iniziali facciano repentinamente seguire scelte dissolute e libertine – quasi come se essi stessi rifiutassero di riconoscere la loro natura tragica e distruttiva. Emblematico è l’episodio in cui Emma – recatasi a casa del giovane studente – tenta in ogni modo di convincersi a non concedersi all’uomo (indossando persino una doppia veletta), confidando ad Alfred la volontà di fermarsi solo per pochi minuti. Successivamente, invece, si scopre che non solo non ha preventivamente indossato il busto ma che ha portato con sé un allacciascarpe, in modo da non perdere tempo ulteriore al momento di rivestirsi.

È in questi piccoli scarti caustici ma eleganti, che Max Ophuls personalizza e piega alle sue esigenze artistiche il testo teatrale di Arthur Schnitzler. Scarti narrativi, che il regista orchestra attraverso una messa in scena circolare in cui il “meneur de jeu” è al contempo narratore interno ed esterno, suggeritore per lo spettatore e personificazione del punto di vista del regista all’interno del film. Lo spettatore in La ronde è introdotto e accompagnato (durante tutta la durata del film) dalla presenza costante del “meneur de jeu”, figura enigmatica che, in avvio di film, spiega essa stessa il suo ruolo: “E io? Che sono in questa storia? La ronde? L’autore? Il commento? Un passante?…Io sono voi. Proprio uno qualsiasi di voi. Sono l’incarnazione del vostro desiderio di conoscere tutto. Gli uomini conoscono solo una parte della realtà. E perché? Perché vedono un solo aspetto delle cose. Io invece le vedo tutte, perché vedo…en ronde. E sono dappertutto in una volta sola…”.

Il prologo è una dichiarazione programmatica: l’eternità scorre inesorabile e ininterrotta davanti ai nostri occhi i quali possono solo vedere la superficie delle cose, perché nessuno può mettere il piede giù dalla giostra – la quale diventa una sorta di meccanismo infernale (e non a caso nel film rumoreggia, sbuffa, fuma ed è percorsa da ombre sinistre) che accompagna storie (apparentemente) frivole e di poco conto, trasformandole in tante piccole morti (l’amplesso, ovvero la “petit morte”). Personaggi perdenti, sconfitti prima che dalla vita da loro stessi, dalla loro incapacità di vivere e di essere sinceri – come dimostra l’episodio che vede protagonisti i coniugi Breitkopf, quello centrale in La Ronde, il fulcro attorno a cui, in senso antiorario ruota la prima parte del film e in senso orario la seconda parte (ecco spiegata la presenza insistente dell’orologio al centro dell’inquadratura). Emma e Charles sembrano non accorgersi del loro fallimento come coppia ma, dalle parole del marito, sembra emergere la presenza di un vuoto ontologico innato nella relazione matrimoniale, quello della fedeltà cerebrale prima ancora che fisica, come dimostra il suo ragionamento sulle “pause dell’innamoramento”.

La sequenza è interamente costruita, paradossalmente, sul concetto di simmetria, una separazione speculare delle parti (sin dai letti vicini ma non attaccati) volta ad evidenziare l’ipocrisia reciproca (entrambi tradiscono e vengono traditi). Il movimento di macchina introduttivo con il carrello ad avanzare che mostra i letti da dietro la testiera è un chiaro riferimento all’anonimato di questi due individui-archetipi e, contemporaneamente, una negazione della loro fisicità. Non a caso, per gran parte della sequenza, i coniugi appaiono come due “pietre” incastonate nella scenografia della camera da letto che, non solo li sovrasta nella sua grandezza ma – attraverso la regia di Ophuls – li cancella progressivamente dal quadro fino a schiacciarli nell’angusto spazio del piccolo arco sotto l’orologio: scelta che definisce l’isolamento e la separazione che regnano all’interno del matrimonio borghese (e non).

Come afferma all’inizio il “menu de jeu” aspetto centrale della vita e della messa in scena è il concetto di vedere, poiché è quello attraverso cui si manifesta il desiderio: desideriamo ciò che vediamo. Lungo tutta la durata de La Ronde ci si trova di fronte ad un numero pressoché infinito di specchi, vetri, superfici riflettenti in cui “guardare dentro” o attraverso cui “vedere oltre”. Max Ophuls, dunque, costruisce una messa in scena voyeuristica a 360° in cui lo sguardo è onnisciente e in cui l’aspetto “pornografico” dell’amplesso è volutamente (non solo per questioni censorie) tenuto fuori campo nello spazio indefinito e pregnante dell’assenza.

Nel penultimo episodio il discorso sul “vedere” diventa esplicito, quando l’attrice – durante i preliminari del coito – dice al conte: “Possiamo quasi immaginare che sia notte e che nessuno possa vederci…”, ma la m.d.p. si alza e con un breve movimento di macchina va ad inquadrare lo specchio posto sul letto, per cui, non solo “loro” si possono vedere ma possono essere visti da tutti gli spettatori. Max Ophuls utilizza qui il fuori campo dell’amplesso per insertare un breve segmento ironico con il “meneur de jeu” che taglia la pellicola dicendo “censura…”, poi torna al centro della scena con i due che si rivestono.

Questo breve passaggio, è però fondamentale nell’economia del film e nella definizione delle regole dello spettacolo (tema centrale in tutto il cinema di Ophuls), perché spiega al meglio le parole iniziali e il ruolo del “meneur de jeu”. “Girano girano i miei personaggi, la terra gira giorno e notte, l’acqua piovana diventa nuvole e le nuvole ricadono come pioggia. Donne oneste, tenere sartine, aristocratici o soldati… Quando arriva l’amore a sorprenderli, girano, danzano con lo stesso passo. Adesso inizia la ronde, è l’ora calma in cui muore il giorno…”

 di Fabrizio Fogliato

 

LA RONDE

Lingua: francese

Paese: Francia

Anno: 1950

Durata: 95′

Regia: Max Ophüls

Soggetto: Arthur Schnitzler (dalla commedia Der Reigen)

Sceneggiatura: Jacques Natanson, Max Ophüls

Fotografia: Christian Matras

Montaggio: Léonide Azar

Musiche: Oscar Straus

Produzione: Films Sacha Gordine

Costumi: Georges Annenkov

Trucco: Carmen Brel

Scenografie: Charles Merangel, Henri Vergnes

Suono: Pierre-Louis Calvet

Operatore: Alain Douarinou

Adattamento musicale: Joe Hajos

Assistente alla regia: Tony Aboyantz, Paul Feyder

Assistente al montaggio: Suzanne Rondeau

Production Design: Jean d’Eaubonne

Production Manager: Ralph Baum

Produttori: Ralph Baum, Sacha Gordine

Interpreti: Anton Walbrook (Il presentatore), Simone Signoret (Léocadie- la prostituta), Serge Reggiani (Franz, il soldato), Simone Simon (Marie – la cameriera), Daniel Gélin (Alfred- lo studente), Danielle Darrieux (Emma Breitkopf), Fernand Gravey (Charles- marito di Emma), Odette Joyeux (La “grisette”), Jean-Louis Barrault (Robert Kuhlenkampf- il poeta), Isa Miranda (Charlotte, l’attrice), Gérard Philipe (Il conte) • Produzione: Films Sacha Gordine

 

Scrivi un commento