L’antropologia sessuale che rifiuta ogni condizionamento ma che, al tempo stesso, pretende di autolimitarsi

L’assunto di fondo, quello di matrice schnitzleriana è disarmante nella sua linearità e (apparente) banalità: l’amore dapprima si esprime attraverso un’irrefrenabile passione, un inesausto desiderio fisico e poi, dopo il coito, si spegne progressivamente nella routine e nell’abitudine. Gli incontri nel film, altro non sono che pura pulsione biologica in cui il momento della seduzione, più che preambolo necessario, risulta essere mero ornamento. Lo sguardo oggettivo di Ophuls è impietoso e imperioso nel tratteggiare una società manipolata e manipolabile che ha rinunciato ai sentimenti e che sembra essere travolta dal vuoto e dall’assenza. A dimostrazione di ciò è interessante notare l’uso della parola nel film: quasi sempre contraddittoria, ipocrita e inautentica, modulata sulla retorica che accompagna l’idea (e non la realtà) di ogni ruolo sociale – trova perfetta sintesi nell’affermazione del conte: “Proprio le cose di cui si parla…non esistono”.

I dieci episodi di La Ronde (id., 1950) seguono un identico impianto strutturale: la casualità di un incontro tra un uomo e una donna e il loro dialogare mirato ad un unione sessuale, l’amplesso (suggerito e mai mostrato) e l’abbandono tra i due repentinamente giunti alla condizione di sconosciuti l’uno all’altra. Quella messa in scena da Max Ophuls è a tutti gli effetti una catena in cui ogni anello è legato a quello successivo attraverso la presenza o dell’uomo o della donna. Così facendo il regista vede ogni personaggio nella duplice veste di “vittima e carnefice”. La Ronde è un film funereo in cui si celebra il “nero” come l’unica forma di riempimento possibile per una società spersonalizzata e imbalsamata. Il “nero” in cui domina l’assenza, quello della dissolvenza che nega la visione del rapporto sessuale e che al contempo esalta il vuoto pneumatico di esistenze allo sbando.

Provocatoriamente Ophuls compensa la miseria morale dei suoi personaggi con un’ostentazione barocca e ridondante dei costumi da loro indossati; posiziona le sue pedine in una città scacchiera – Vienna al tempo della Belle Epoque – volutamente di cartapesta: uno scenario fittizio, un palco, per una recita teatrale di manichini diretti e orchestrati dalla sagacia e dall’arguzia del meneur de jeu. Esplicativo, a tal proposito, è l’epilogo dell’episodio del giovane studente e della signora: un valzer danzato dai due inquadrati dal basso in modo da sembrare quasi sospesi nel loro volteggio, con alle spalle una giostra che ruota a sua volta (ma in senso inverso) su cui sono posizionate in pose plastiche altre coppie borghesi che li guardano, vi si rispecchiano e ammiccano al loro essere ipocriti; poi il meneur de jeu introduce, con malcelata costernazione e alterità, l’episodio successivo.

Il regista elimina quasi del tutto i nomi dei personaggi per lasciare spazio ai ruoli sociali che essi rivestono: archetipi paradigmatici prima ancora che individui. Al centro della società c’è il nucleo familiare, quello composto da marito e moglie. Max Ophuls – che posiziona l’episodio in questione al centro del film – si diverte a sbeffeggiare la morale borghese attraverso lo svolgimento stesso della sceneggiatura. Per il regista l’ipocrisia dominante che accomuna tutta la società – a partire dalla famiglia per giungere alla prostituta – è evidenziata da un’antropologia sessuale che rifiuta ogni condizionamento ma che, al tempo stesso, pretende di autolimitarsi.

di Fabrizio Fogliato

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