Saggio in due parti: iconografia del potere, fantasmagoria e suggestioni storiche in Vincere di Marco Bellocchio

 

Enigma Dalser

Nella vicenda Dalser, c’è qualcosa di indefinito e poco chiaro. Qualcosa che ha a che fare con gli aspetti più intimi e oscuri dell’animo umano ma anche con il groviglio di relazioni di potere che legano un capo e i suoi sottoposti. Sarebbe troppo facile e superficiale liquidare gli avvenimenti come un susseguirsi di eventi e di azioni determinate dalla volontà di Benito Mussolini. Ma come si può credere che colui che in quegli stessi anni è impegnato a “trasformare l’Italia”, possa occuparsi in prima persona di una vicenda privata (anche se non marginale) visto che in gioco c’è la sua credibilità e l’onorabilità della sua coerenza. È evidente che l’animatore della famiglia autarchica e numerosa non possa rischiare di passare per bigamo, soprattutto dopo la stipula dei Patti Lateranensi dell’11 Febbraio 1929 e di una ritrovata riconciliazione con il Papa e con la Chiesa oltre Tevere. È altrettanto evidente che il comportamento – impulsivo, al limite dell’isteria, tenuto in più occasioni da Ida Dalser, possa, in quell’epoca, essere facilmente considerato come folle – nonostante che lo stress e l’angoscia a cui la donna è sottoposta con scientifica continuità e premeditazione possa apparire come giustificazione più che ragionevole per i suoi comportamenti eccessivi, animati da un evidente, e mai sopita passione indomita per il duce del fascismo.

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I “delitti”, perchè di questo si tratta, che hanno per vittime Ida Dalser e Benito Albino Mussolini hanno come movente quello della necessità di eliminare due persone scomode – sono privi di un colpevole o più colpevoli identificabili, visto che il numero di persone coinvolte in entrambe le vicende sfiora il centinaio. Dai fatti, inoltre, emergono tutta una serie di ambiguità: dai medici non medici che stilarono le diagnosi, dalla segretezza con cui per anni sono state custodite le cartelle cliniche, dal coinvolgimento diretto de Il Popolo d’Italia come trait-d’union tra ordini superiori ed esecuzioni locali. È comunque, altrettanto vero che non può essere escluso a priori il coinvolgimento diretto di Benito Mussolini il quale è sicuramente imbarazzato dal fatto che in Italia una donna possa essere libera di dichiararsi sua moglie e un giovane ragazzo possa utilizzare il suo cognome come legittimo. Inutile ora, a distanza di anni cercare una strada alternativa per risolvere la questione, così come cavillare sull’intreccio di fatti, ordini e casualità che portarono agli esiti nefasti della vicenda. Quello che rimane nella memoria è la testimonianza indelebile di eventi delittuosi, di matrice politica, in quanto determinati da una o più scelte e mossi da una collettività eterogenea (che talvolta inconsapevolmente) agisce in un’unica direzione. Alla luce di tutto ciò, appare pertanto opportuno considerare come un solo film non possa contenere al suo interno tutte le sfaccettature, le cause e le conseguenze di questa triste vicenda. Vincere, di Marco Bellocchio, opera di fatto una scelta ben precisa: quella di ritrarre, liberamente, il profilo di una “eroina” da romanzo d’appendice, declinandolo su tinte fosche e plumbee, le stesse che attraversano come un basso continuo il susseguirsi degli anni nel ventennio fascista.

Vincere, pone in secondo piano tanto Benito Mussolini, quanto il figlio di Ida, per concentrare tutta la sua attenzione su una donna che non è solo una semplice ribelle testarda e impulsiva ma è l’incarnazione di un’emancipazione femminile ante litteram, incapace di adeguarsi al facile ruolo della massaia silenziosa obbediente e angelo del focolare (la donna fascista), fino al punto di sacrificare consapevolmente la propria vita sull’altare di un principio tanto astratto quanto utopistico: quello della legittimità sentimentale. Ida Dalser è nell’economia del film di Bellocchio una “signora in nero” (perchè condannata sin dal primo fotogramma in cui appare) che con disinvoltura, sensualità e passione circuisce il cervello e il corpo di un “contadino” che improvvisamente sembra sentirsi immortale (come testimonia la prima sequenza del film). L’uso consapevole che Ida fa del suo corpo deriva dal suo essere cosmopolita. In fondo lei è una donna che più che essere sedotta, seduce, e di conseguenza non può (e non vuole) essere abbandonata. Nella prima parte del film di Marco Bellocchio, Ida appare come il completamento necessario per Benito Mussolini: uomo e donna sono le due facce, entrambe venate in chiaroscuro, di uno stesso individuo ambizioso e ingenuo, passionale e spietato, sensuale e crudele. Per evidenziare questo aspetto, la messa in scena di Bellocchio, con il proseguire del film si fa via via più asettica e spettrale. Ad una prima parte di circa quaranta minuti – immersa in tonalità vellutate e giocata su un contrappunto (quasi) musicale tra rigore ed eleganza – in cui Ida e Benito sono presenti in carne e ossa, corrisponde una seconda parte – quella a partire dall’uscita di scena, “fisica” di Mussolini – in cui un’atmosfera rarefatta e sospesa circonda i personaggi. La fotografia marmorea di Daniele Ciprì, alterna l’uso di colori desaturati con una gamma di blu e di neri corposi e profondi, dando sin dai primi fotogrammi l’ “impressione” di un’epoca.

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Vincere è un film che sfrutta tutte le potenzialità filmiche, visive, e pittoriche dell’avanguardia futurista: dall’uso eccessivo e ridondante dei collage di colori, al lettering, utilizzato come forma di comunicazione intrinseca al sottotesto di realtà storica, passando per gli eccessi visivi e sonori della musica di Carlo Crivelli, fino all’utilizzo di un montaggio che è a metà strada tra quello delle attrazioni e quello discontinuo di godardiana memoria. Proprio l’uso disinvolto, rischioso e provocatorio del montaggio, riesce a mantenere lungo tutta la visione del film una tensione costante e, al contempo, a delineare il carattere complesso e intricato della sua protagonista. In Vincere, il nero (inteso sia come colore che come simbolo) diventa spazio “dell’esistente” a partire dai drappi neri che evocano la morte dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, passando per l’oscurità in cui si manifestano le visioni di Benito Mussolini, fino al compimento, sintetico, del non-colore come forma di espressione politica, immerso nelle divise fasciste dei protagonisti della seconda parte del film. Sempre il “nero”, diventa in Vincere strumento comunicativo in grado di relazionare immagine filmica e cinematografica (con cui si intende quella presente nei tanti film che attraversano la pellicola), come nelle scene in cui gli scontri nella sala cinematografica sono mostrati in silhouette proiettate metaforicamente sul contenuto delle immagini che, contemporaneamente, passano sullo schermo. La figura di Benito Mussolini, passa dalla rappresentazione fisica ed erotica della prima parte del film ad una progressiva “estinzione”, mostrando l’immagine dei cinegiornali LUCE, le fotografie appese negli uffici pubblici, il feticcio di marmo nel collegio di Moncalieri (sintesi dell’ossessiva rappresentazione del suo potere), fino alla distruzione della sua immagine bronzea dopo l’8 Settembre 1943. La trasformazione da uomo ad icona, serve a Marco Bellocchio per raccontare l’impressione di un’epoca (pertanto non la realtà), intrecciando la vicenda di Ida Dalser, con tutta una serie di eventi storici che vedono come motore delle vicende la figura di Benito Mussolini. Il paradosso è che in Vincere ad una progressiva pietrificazione della figura del duce (che non casualmente corrisponde al periodo di ascesa politica), si contrappone un’esasperazione visiva e tattile del suo corpo (nella prima parte, riguardante le vicende private), che esula dalla semplice caratterizzazione di un personaggio per ambire a rappresentare visivamente un carattere controverso e complesso come è quello dell’uomo venuto da Predappio.

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Ordalia del potere

Vincere si apre con una sequenza ambientata in un luogo imprecisato (nella realtà storica l’episodio si svolse a Ginevra durante la trasferta elvetica di Mussolini nei primi anni del ‘900), in cui Benito Mussolini – contrapposto ad un rappresentante del clero – partecipa ad una conferenza sull’esistenza di Dio. Quando Mussolini prende la parola compie uno di quei gesti enfatici e ridondanti che lo renderanno famoso con il passare del tempo. Chiede un orologio e, rivolto agli astanti, afferma provocatoriamente: “Io sfido Dio! Gli do cinque minuti di tempo per fulminarmi. Se non mi fulminerà sarà la dimostrazione che non esiste”. Sin da subito egli ritiene di essere sottoposto solo ed esclusivamente al giudizio divino, non a quello degli uomini e neanche a quello della Storia. La scelta di aprire il film con questo episodio, si capisce meglio al termine della sequenza, in cui vengono contrapposti (in campo e controcampo) i volti in primo piano di un Benito Mussolini ghignante e di una complice Ida Dalser seduta tra il pubblico. La doppiezza complementare della coppia è accentuata dall’illuminazione dei volti, in cui luce e ombra sono perfettamente divise a metà, ma in maniera opposta l’uno rispetto all’altra. Il seguente montaggio alternato mostra – attraverso le immagini – il dipanarsi della vicenda tra passato, presente e futuro. Il passato è rappresentato dall’incontro/scontro di Trento nel 1907, in cui Ida viene letteralmente travolta da Mussolini in fuga dagli austriaci; scena in cui si può leggere la metafora di quella che sarà la sua vita: travolta dall’irruenza impetuosa di un uomo che la amerà e poi la ripudierà. Il presente è rappresentato dalle manifestazioni anti-interventismo di Milano del 1914, guidate da Benito Mussolini socialista incallito e teorizzatore della violenza; vedendolo, Ida si intromette negli scontri per infilargli in tasca il biglietto con il suo indirizzo. Il futuro è rappresentato in maniera quasi subliminale dalla mano insanguinata che Ida toglie dal capo di Mussolini ferito; il sangue è quello che, seppur indirettamente, ella sarà costretta a versare sacrificando la propria vita per il solo fatto di aver amato quell’uomo. Dopo l’intreccio esistenziale e la messa in scena del giudizio divino, il film scende ad un livello terreno: quello della carne, del sesso e della passione.

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La “politica della carne” è una scelta ben precisa, perché è attraverso essa che Bellocchio delinea il senso di dominio e la smisurata (infantile) ambizione di Mussolini, e la sensualità emancipata e totale di Ida Dalser. Aspetti che trovano la loro sintesi nella scena del primo amplesso all’interno della sartoria: Mussolini, inquadrato dal basso, e con una particolare angolazione appare immerso nelle tenebre, attraverso le quali emerge lo sguardo luciferino e demoniaco dei suoi occhi mentre Ida appare schiacciata dal peso insostenibile di un uomo che la possiede e le dona piacere ma che la domina senza renderle possibile alcun movimento. Proprio la scelta di rappresentare la fisicità di Mussolini con gli stessi stilemi con cui viene rappresentato il demonio nel cinema muto italiano, appare dettata dalla necessità di metaforizzarne il corpo, inteso come “arma” attraverso cui esercitare l’autorità ed il dominio. Non a caso, dopo l’amplesso, egli vede la guerra e il suo futuro quando, nudo, esce sul balcone nella notte milanese, mentre il controcampo ci mostra le immagini reali di Piazza Venezia durante la dichiarazione di guerra del 1940. Mussolini viene dipinto, come una figura dai contorni messianici e demoniaci, un uomo che, dopo le dimissioni da direttore de L’Avanti!, si rivolge a Ida dicendo che fonderà un nuovo giornale che chiamerà Il Popolo d’Italia, perché “la fortuna passa davanti alla porta di ogni uomo almeno una volta nella vita. Bisogna aprire la porta in quel momento e farla entrare”, ma che non si ricorda di allacciarsi le scarpe, come le ricorda la stessa Ida durante il primo congedo e come la stessa donna chinandosi ai suoi piedi sottolinea in quel momento.

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In questa contrapposizione tra ambizione e infantilismo emergono tutte le contraddizioni di un uomo inadeguato alla vita (“sento il peso del tempo che passa”) e incapace di coerenza, come ben evidenzia la svolta interventista sintetizzata nell’affermazione che egli fa nella sede dell’Avanti!: “Questa guerra darà col sangue il movimento alla ruota della storia”. Ida Dalser non è diversa da lui: anche lei è un misto di ingenuità e audacia, irruenza e languore, una che non esita a sacrificare inopinatamente tutti i suoi averi (casa, sartoria, gioielli) per recuperare i soldi per permettere a Mussolini di rilevare i locali di Via Paolo da Cannobio e fondare Il Popolo d’Italia, quello stesso giornale da cui partiranno ordini ed indicazioni che segneranno la sua vita. Ida Dalser, non esita ad offrire il suo corpo steso nudo sul letto come premio (o sacrificio) in attesa di una promessa di matrimonio (che non arriverà mai), o anche solo per udire il suo uomo pronunciare le parole “Ti amo”, che egli sì pronuncerà ma in tedesco, come a voler comunque e sempre mantenere una distanza. Entrambi sono ancora ignari del futuro che li attende, un futuro nebuloso e intangibile, come bene evidenzia la scena metaforica dell’uscita notturna dalla sede de L’Avanti!, in cui Ida e Benito, mano nella mano, si apprestano ad attraversare la nebbia milanese. Nella loro vicenda la guerra sembra essere un vero e proprio spartiacque, visto che è davanti ad un Mussolini ferito che Ida si scontra con Rachele e visto anche che il suo ultimo tentativo di seduzione avviene durante l’esposizione futurista del 1917 che rievoca la guerra attraverso l’arte. Qui Ida, ancora una volta, offre il suo corpo come “merce” di scambio per ottenere una vita assieme, ma qui Mussolini dimostra di aver già dimenticato Ida e di essere definitivamente proteso verso l’ascesa politica. A due anni dalla nascita dei Fasci di Combattimento, egli esalta il futurismo definendolo “la scintilla che farà deflagrare il marciume del nostro tempo. Vincere o morire! Questo è l’unico riscatto possibile. Voi l’avete capito. Bravi!”. L’ultimo incontro fisico tra Ida e Benito avviene sotto le finestre degli uffici de Il Popolo d’Italia: è uno scontro a debita distanza, che vede la donna inveire violentemente contro Mussolini e questi rispondere addirittura impugnando una pistola prima che due guardie regie prelevino Ida e la allontanino con la forza. Da questo momento in poi i due non si incontreranno più – se non all’interno di cinematografi durante i cinegiornali che raccontano la veloce scalata al potere del duce. Già in precedenza, all’interno di un cinema, di fronte alle immagini della Grande Guerra, Ida e Benito si sono scontrati violentemente con gli anti-interventisti, in una raffigurazione simbolica che vede le due parti contrapposte divise come le due metà della platea: due Italie l’una contro l’altra, che nella rissa che ne scaturisce anticipano la “guerra civile” che le vedrà contrapposte a distanza di pochi anni.

“Il cinema è l’arma più forte dello stato”

Partendo dalle parole pronunciate sul cinema dallo stesso Mussolini al momento del suo insediamento al governo nel 1922, segno di una lungimiranza in grado di comprendere l’importanza che l’immagine e la sua grammatica andavano assumendo con il passare del tempo, Marco Bellocchio, in Vincere, compie un’interessante operazione linguistica. Oltre ad ambientare una serie di scene significative all’interno di sale cinematografiche – in cui di volta in volta ci si commuove davanti allo schermo, si portano i bambini a divertirsi, si apprendono le vicende storiche che attraversano il paese – il regista utilizza il cinema, inteso come pellicola impressionata, come elemento metaforico, amplificatore delle vicende narrate all’interno del film. In tre casi, in particolare, i film che scorrono sullo schermo all’interno della scena, diventano oltre modo significativi delle vicende descritte in essa: personaggi reali e figure filmiche creano una sorta di interdipendenza in cui di volta in volta si esprimono pietas, commozione e sberleffo.

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Marco Bellocchio, riprende la visione del duce rispetto al cinema inteso come arma di propaganda e la ribalta di significato, costruendo una serie di scene in cui il cinema funge da elemento integrativo della messa in scena – non con intenti propagandistici bensì con l’obiettivo di rendere lo spettatore emotivamente partecipe di quanto raccontato. La prima sequenza che prende in considerazione l’utilizzo del film nel film, è quella ambientata nella chiesa-ospedale, in cui giace Mussolini ferito dopo la battaglia sul Carso. Su un telo teso sul soffitto viene proiettato il Christus di Giulio Antamoro, film del 1916, la cui visione è interrotta dalla formale visita di Vittorio Emanuele III Re d’Italia. La scelta non è casuale, visto che l’intento di Bellocchio – mediante il montaggio alternato – è quello di operare una provocatoria sovrapposizione tra Mussolini/Cristo e Rachele/Madonna. Egli mette in relazione le vicende filmiche con quelle del violento scontro tra Ida e Rachele, due donne di fronte ad un corpo: come Maria e Maria Maddalena di fronte a quello di Cristo. Christus, è prodotto dalla Cines e racconta la vita di Gesù di Nazareth dalla nascita, fino all’Ascensione dopo la morte e Resurrezione, ed è il primo lungometraggio di argomento religioso della storia del cinema italiano. Il film tratto dal poema iconografico di Fausto Salvatori, allievo di Gabriele D’Annunzio – per una lunghezza di 2279 mt. di pellicola – è diretto dal Conte Giulio Antamoro, (che l’ha fortemente voluto), ed è diviso in tre atti: annunciazione e natività, vita e opere, morte e resurrezione. Realizzato attraverso la tecnica dei tableaux vivants, si compone di una serie di inquadrature ispirate a quadri dell’arte rinascimentale, tra cui quelli di Leonardo, Mantegna, Raffaello e trova la sua massima espressione visiva-artistica nella sequenza dell’ultima cena in cui con rigore e abilità sembra suggerire la preparazione e le conseguenze che l’affresco di Leonardo da Vinci fissa nell’istante. Christus si inserisce nel momento di massimo splendore del primo cinema italiano visto che il film (dai costi ingentissimi) viene girato interamente in Egitto con oltre duemila comparse e grandi movimenti di massa, oltre all’utilizzo di artigianali e primordiali (ma efficaci) effetti speciali in grado di entusiasmare e sorprendere il pubblico dell’epoca. Iniziato nel 1914 e terminato due anni dopo, la sua realizzazione va incontro ad una serie di problemi come quelli rappresentati dalle scene rovinate e non utilizzabili in fase di montaggio; scene che vengono nuovamente girate ad opera di Enrico Guazzoni, e che – assieme ai problemi burocratici relativi al fatto che il regista pretende dal produttore, il Barone Fassini, i diritti sul film – portano ad un allungamento inusitato della sua realizzazione.

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Nonostante ciò il film interpretato da Leda Gys nel ruolo della Madonna, Alberto Pasquali in quello di Cristo, e Amleto Novelli in quello di Ponzio Pilato, è un enorme successo non solo in Italia ma in tutto il mondo e in Francia viene proiettato per un anno intero. Si tratta quindi di una pietra miliare della nostra cinematografia, che Marco Bellocchio, oltre ad utilizzare come elemento coevo delle vicende narrate nel film, utilizza anche come strumento di contrapposizione cinematografica: il Mussolini ferito degente e immobile nel letto è provocatoriamente equiparato al Cristo sofferente e morente sulla croce, mentre Rachele nella sua furia orgogliosa di rivendicare il ruolo di moglie, assume su di sé tutta la dolcezza del volto di Maria ai piedi della croce. Successivamente, nell’isola-manicomio di San Clemente a Venezia, Ida Dalser si commuove di fronte alle immagini dolci e strazianti del film The Kid (Il Monello, 1921) di Charles S. Chaplin. Immagini che raccontano il momento in cui il bambino viene allontanato dal padre putativo da parte dell’autorità. Ida piange davanti alle immagini che “cinematograficamente” ripercorrono l’allontanamento da lei di suo figlio Benito Albino Mussolini da parte delle autorità fasciste. Il film di Chaplin – che racconta la storia di una ragazza madre che abbandona il proprio bambino vicino a un mucchio di spazzatura per poi diventare ricca e famosa e riaccogliere (nell’improbabile finale), il figlio e il “nuovo padre” in casa con lei – si chiude appunto con un falso happy ending, dettato più da un intento fiabesco, in cui tutto si ricompone, più che da esigenze reali. Allo stesso modo, Ida Dalser, comprende che nella sua vicenda il “vissero felici e contenti” non è possibile, per cui la contrapposizione tra le immagini di The Kid e il suo momento esistenziale appaiono contraddittorie e stridenti.

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La scelta del film di Chaplin appare dettata dalla volontà di Bellocchio di amplificare, con macabra ironia, l’immenso dolore che scuote il cuore e il cervello della donna. Nel momento in cui un adulto Benito Albino Mussolini, rincontra suo zio Riccardo Paicher, i due si trovano all’interno di un cinema in cui viene proiettato il film di Alessandro Blasetti Vecchia Guardia. Quest’opera del 1935, è il film di propaganda che ricorda i tempi dello squadrismo e – come appare scritto sul manifesto – vuole essere “il film della vigilia fascista”. La scena utilizzata da Bellocchio è quella in cui una ragazzina si prende gioco del maturo assessore socialista e rappresenta l’ultimo momento di gioia di Benito Albino, prima dell’internamento in manicomio. Il regista vuole così denunciare come una regime che non esita a mettere in scena la violenza squadristica sotto forma di goliardia e di scherno, non possa non voler annientare un individuo giovane e ingenuo, che non si rende conto dell’ipotetico pericolo che rappresenta. Benito Albino Mussolini, infatti, poco prima, inscena un imitazione esagitata e isterica del discorso di suo padre tenuto nel porto di Taranto e udito per radio. Scena che prelude al finale allucinato in cui la follia “provocata” in Benito Albino si sovrappone a quella consapevole del padre che fa sprofondare l’Italia nel baratro della guerra e della distruzione.

(Continua)

 di Fabrizio Fogliato

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