Feroce violenza e fascinazione nello sguardo dell’antimiracolo

Lavorando – con taglio documentario – su esplosivi e violentissimi close-up espressionisti dei volti dei peronaggi, Brunello Rondi ottiene l’effetto di creare, somaticamente, degli archetipi antropologici che si muovono in un paesaggio ombroso e minaccioso (dove il vento e perenne e il sole abbaglia al punto di ottundere la percezione). Negli interni – case o caverne che siano – il Male si manifesta nelle forme più bieche e familiari con vessazioni e pedagogia nera.

Il silenzio e l’attesa sono condizioni permanenti squarciate dalle grida belluine dell’ignoranza che si esprime con violenza e rituali di bassa magia cerimoniale compiuti nel religioso e ossequioso rispetto delle regole. Un terreno fertile in cui non fanno fatica a germinare ribellione e rifiuto del conformismo imperante (quasi un’anticipazione del processo sociale che si verificherà cinque anni dopo).[1] Lo strumento cinema diventa il mezzo – perturbante perché restituisce allo spettatore l’immagine di ciò che si trova al di là dello specchio – per scuotere un paese immobile tutto intento a rimirarsi narcisisticamente nell’effimero benessere economico che impedisce di costruire un orizzonte condiviso. Attraverso la contaminazione del documentario etnografico[2] con la fiction orrorifica Brunello Rondi apre il suo film ad una lettura politica (certo, decisamente indigesta e urticante).

Il demonio si apre con una sequenza che coniuga violazione delle regole filmiche e rigorosa restituzione scientifica della fascinazione. Questa – che comporta la presenza dell’agente fascinatore e della vittima – consiste nel sentirsi/essere dominato da una forza potente e invisibile che priva la persona di ogni possibilità di scelta in autonomia. Il rito di fascinazione è indirizzato a legare (cioè, attaccare a sé) la vittima con il chiaro obiettivo di inibirne psicologicamente il suo volere. Il connubio tra magia ed erotismo si esplicita nella fattura amorosa – soprattutto nel caso in cui l’agente fascinatore sia donna, colei che è impossibilitata, per norme sociali, a gestire sentimenti e passioni, nonché tradizionalmente subalterna all’uomo nel ruolo passivo della relazione sentimentale – come la strada più agevole e percorribile per il genere femminile per legare a sé il maschio. La prima sequenza del film, dal punto di vista rappresentativo illustra – con alcune varianti come il seno al posto del dito e i capelli al posto dei peli – il rito di fascinazione praticato a Colobraro (MT)[3], mentre dal punto di vista della grammatica cinematografica opera tutta una serie di infrazioni volte a coinvolgere lo spettatore in prima persona – per scioccarlo e destabilizzarlo.

di Fabrizio Fogliato ©

[1] “La mia indemoniata era già una contestatrice posseduta da forze irrazionali che i preti tentavano, inutilmente, di domare con l’esorcismo. Con la sua forza squassava il mondo intero, la famiglia, la società. Fu il primo film sull’esplosione irrazionale della coscienza” [Dichiarazione di Brunello Rondi – Umberto Rondi e-mail all’autore – Gennaio 2010]

[2] Il primo a dare forma visiva alle ricerche di Ernesto De Martino è stato il documentarista Luigi Di Gianni con Magia lucana (1958), Nascita e morte nel meridione – S. Cataldo (1959) e Frana in Lucania (1960).

[3] A Colobraro vale come potente filtro d’amore la seguente ricetta: si lega il mignolo della mano destra, lo si punge, se ne fanno uscire tre stille di sangue, si taglia un ciuffo di peli dalle ascelle e dal pube, si impastano i peli con il sangue, si fa seccare al forno, e si ottiene così una polverina che si porta in chiesa per consacrarla durante la messa. Al momento dell’elevazione si mormora: Sanghe de Criste, demonie, attaccame a chiste. Tanto ca lì a legà ca de me non s’avi a scurdà. In tal modo la polverina è consacrata attraverso la potenza magica del momento culminante della messa, ed è quindi pronta per l’uso, alla prima occasione propizia. [Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 2015, pag.22]

1 Commento

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