Suspance ininterrotta, inganno delle apparenze e codificazione di uno stile. Il cinema triangolare di Alfred Hitchcock tra erotismo, tensione, e parodia.

 Alfred Joseph Hitchcock nasce a Leytonstone a Est di Londra, il 13 agosto 1899. Cresce sotto una ferrea educazione di stampo cattolico e, a cinque anni – secondo un suo stesso racconto (di dubbia certezza) – dopo una innocente marachella viene portato dal padre in commissariato dove il poliziotto di turno viene invitato dal genitore a rinchiudere il bambino in cella per pochi minuti. L’episodio – nelle testimonianze del regista – è alla base delle sue fobie e dei suoi temi cinematografici così come è esplicito dell’avversione verso la giustizia, verso i suoi metodi e verso ogni tipo di uniforme.

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Incallito cinefilo, Hitchcock approda al mondo del cinema nelle vesti di sceneggiatore e, nel 1923, in seguito all’allontanamento del regista Graham Cutts dal set del film Always Tell Your Wife, esordisce alla regia sostituendolo e garantendosi un contratto per il successivo Number 13 (vero esordio cinematografico) – film di cui oggi non rimane più traccia a causa del fallimento della società produttrice durante la lavorazione che ha come conseguenza la distruzione del negativo girato. Anche del suo secondo film The Mountain Eagle non rimane quasi nulla se non i pochi fotogrammi pubblicati nel libro-intervista di Francois Truffaut.

Nel periodo che va dal 1923 al 1926 Hitchcock dirige anche The Pleasure Garden (1925) – girato in parte sul Lago di Como – e portato a termine nonostante le manie e i vizi di Virginia Valli, diva capricciosa e presuntuosa. Il film ricostruisce – nella località lacustre – l’atmosfera e la luce dei tropici. Per Hitchcock rappresenta l’opportunità di sperimentare la ripresa di spazi ampi e ariosi in cui è immersa una vicenda sentimentale da feuilletton (anni dopo ritroverà la stessa atmosfera in un progetto particolare come Under Capricorn (Il peccato di Lady Considine, 1949), di cui The Pleasure Garden sembra anticipare temi e stile). Il milieu culturale che attraversa questo film, da un lato ammicca ai contenuti moralistici del romanzo d’appendice e dall’altro si insinua in fermenti narrativi di tradizione esotica offrendo al giovane regista la possibilità di contrappuntare il racconto con didascalie feroci e sarcastiche e di esibirsi in peculiarità stilistiche per l’epoca sorprendenti, come l’utilizzo praticamente ininterrotto, del montaggio parallelo.

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Carmelita Geraghty in Alfred Hitchcock’s THE PLEASURE GARDEN (1926). Courtesy: BFI/Park Circus Films

Grazie al contributo determinante del suo operatore, il barone Ventimiglia, il giovane Hitchcock – alle dipendenze del produttore-dittatore Erich Pommer – scopre la forte valenza simbolica dei dettagli e applica al meglio le lezioni sulla luce impartite dall’espressionismo tedesco. Il 1926 è un anno cruciale nella carriera di Alfred Hitchcock: il 2 Dicembre sposa Alma Reville facendone la compagna-complice di una vita intera – già sua collaboratrice e aiuto regista sul set di The Lodger: A Story of the London Fog (quello che a tutti gli effetti egli considera il suo primo vero film): “Avevo visto un lavoro teatrale intitolato “Chi è?”, tratto dal romanzo di Belloc-Lowndes, “The Lodger”. L’azione si volge nella casa di un affittacamere e la proprietaria si chiede se il nuovo inquilino sia conosciuto come il vendicatore. Ho trattato questo soggetto in modo molto semplice, interamente dal punto di vista della donna, la proprietaria. The Lodger è il primo film nel quale ho messo in pratica ciò che avevo appreso in Germania. Il mio rapporto con questo film è stato del tutto istintivo; per la prima volta ho applicato il mio stile. In realtà possiamo dire che The Lodger è il mio primo film. Quando è stato proiettato per la prima volta erano presenti alcuni addetti alla distribuzione e il capo della pubblicità. Hanno visto il film, poi hanno fatto una relazione per il direttore generale: “Impossibile presentarlo, è troppo scadente, è un pessimo film”. (…) Allora hanno messo il film da parte e annullato i contratti di noleggio che avevano fatto grazie al nome di Novello. Qualche mese più tardi, dopo aver rivisto il film hanno proposto dei cambiamenti. Ho accettato di farne due e da quando il film è stato messo in circolazione è sempre stato accolto con molto favore e ritenuto il miglior film inglese realizzato sino ad allora”. (Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock Pratiche Editrice, Milano 1997, pag 42-43).

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Date le premesse, non si può che considerare The Lodger: A Story of the London Fog, come il film della raggiunta maturità tecnica e stilistica e come il contenitore di una serie di innovazioni e di tutti i temi cari alla poetica del regista. La scrittura cinematografica di The Lodger: A Story of the London Fog elimina, provocatoriamente, l’indagine poliziesca per concentrarsi su una vicenda esistenziale e metaforica – slegata dalla necessità di mostrare qualsivoglia forma di realismo – per puntare dritto ad una messa in scena istintiva e feroce che condanna la città come il crogiolo in cui si annida il coacervo mostruoso della massa ignorante ed isterica: lo dimostrano i ripetuti richiami alle connessioni tra immagine e percezione della stessa che trasformano in simboli ed in segnali semiotici la “normalità” del profilmico (sulla cartina, il triangolo del Vendicatore “contiene” la città, dunque il Male è la città stessa)

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Hitchcock, trasforma l’omicida in una entità astratta (non lo si vede mai neanche al momento dell’arresto), simbolo della metropoli massificata di inizio secolo (come lo stesso sottotitolo richiama), in cui l’individuo (spersonalizzato) vive perennemente sul limite tra normalità e mostruosità: non a caso nel film l’assassino potrebbe colpire ovunque in qualunque momento e potrebbe avere le sembianze rassicuranti e conosciute del vicino di casa. Aiutato dall’esperienza espressionista nella definizione di un immaginario notturno, minaccioso e immanente, il giovane regista allora ventisettenne costruisce il film come un architetto dell’immagine utilizzando in maniera sinergica gli spazi (quelli della casa), eliminando e circoscrivendo il raggio d’azione dei personaggi: scelta che esalta a dismisura il senso di claustrofobia e costrizione che attraversa sulla pellicola.

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Il Male in The Lodger: A Story of the London Fog – un’icona, un’ombra che si muove nella notte e che turba il sonno di tutti i cittadini – è riconoscibile solo attraverso un foglietto di carta su cui è disegnato un triangolo al cui interno è posta la scritta The Avenger. Questo elemento distonico è abbinato ad un voluto disinteresse verso la parola scritta, segno e testimonianza dell’acquisita comprensione dei caratteri polisemici dell’immagine del cinema muto: a didascalie scarne e spesso di scarso interesse, corrisponde un’attenzione maniacale ai movimenti di macchina, ai trucchi della messa in scena, alle sovraimpressioni e al montaggio come produttore di senso narrativo. Elementi che il regista giostra abilmente nella definizione di un’ambiguità costante che attraversa tutta la pellicola in cui il limite tra Bene e Male appare sempre incerto.

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La potenza dell’immagine in The Lodger: A Story of the London Fog è esemplificata dall’ “inquadratura emblematica” che apre il film, che rappresenta al contempo sia un’interrogazione verso lo spettatore che un’immagine perturbante di rara efficacia. Il primo piano del volto della giovane donna bionda il cui urlo disperato richiama la vertigine del quadro di Munch è una sorta di biglietto di presentazione per un regista che sembra, finalmente, aver trovato la via maestra della propria carriera. Lo stesso Hitchcock specifica l’importanza di quest’immagine simbolica attraverso la spiegazione della modalità di realizzazione: “Ho preso una lastra di vetro, ho messo la testa della ragazza sul vetro, ho sparso i suoi capelli in modo che coprissero tutto il quadro, poi l’ho illuminato dal basso in modo che risaltasse la sua chioma bionda” (ibidem). Oltre questo aspetto, l’illuminazione dal basso, distorce i lineamenti e cristallizza l’urlo della donna in una dimensione trascendente che, per traslato, diventa rappresentazione del terrore che attraversa la città.

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Posto che nessuna inquadratura di un film di Alfred Hitchcock è gratuita – al suo interno comprende una serie di substrati latenti e polisemici – il regista avverte sin da subito l’urgenza di codificare il suo cinema attraverso la costruzione di una suspance ininterrotta e mediante l’inganno delle apparenze e improntando ogni pellicola (che verrà) su un triangolo equilatero i cui lati interscambiabili sono erotismo, tensione, e parodia. I primi otto minuti del film – con il contributo di un montaggio serrato e vorticoso – introducono i due temi principali su cui esso e strutturato: quello della città e della sua popolazione mostruosa avida di notizie macabre e scandalose e quello del doppio – qui rappresentato attraverso l’immagine distorta dalla deformità di un superficie riflettente che rimanda l’immagine dell’assassino mimata da un cittadino seguendo le indicazioni di una testimone. All’interno della macro-società della metropoli si muove la micro-società della famiglia qui trattata con accenti grotteschi e parodistici come a voler raccontare una dimensione intima che è indistinta da quella pubblica. Elementi che il regista amplifica – nella loro portata simbolica – attraverso il montaggio intensivo interno ad ogni inquadratura che non è mai semplice riproduzione del profilmico ma organismo dinamico in cui si stratificano vari livelli narrativi e di significato.

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L’elemento latente – esplicitato anche in questo caso solo per accenni – è quello di una sessualità perversa e costrittiva legata alle pratiche del feticismo e del sadomasochismo. Non si può, infatti, non notare come il rapporto che si instaura tra Jonathan Drew e Daisy sia regolato dalle dinamiche serva e padrone. Lo stesso uomo – appena preso possesso della stanza – chiede alla padrona di casa di poter staccare dal muro i quadri (mostrati attraverso una panoramica intervallata dai contro campi sul volto del pensionante) che riproducono donne bionde discinte e immagini di tortura di stampo medievale. Lo stesso utilizzo – ludico e scherzoso – delle manette da parte di Joe rimanda sia al possesso che alla costrizione ed offre a Hitchcock l’opportunità per fare dell’ironia sarcastica sul matrimonio – quando fa dire allo stesso poliziotto: “Quando avrò messo la corda al collo del Vendicatore… metterò un anello al dito di Daisy”. Inoltre è lo stesso regista a confermare l’uso simbolico delle manette e la valenza S&M del racconto di The Lodger, quando, a riguardo dell’oggetto in questione, dichiara: “Penso che vi sia anche una segreta relazione con il sesso. (…) Ho notato che nelle aberrazioni sessuali torna spesso, come una costante, l’impiego di strumenti che vincolano, stringono…” (ibidem).

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La vicenda narrata nel film è costruita sulle coordinate della claustrofobia fino a raggiungere il climax sull’argomento nella scena del bagno -vera anticipazione di quella che sarà poi la doccia di Psycho (1960) – che si sviluppa mescolando abilmente, erotismo, costrizione e impossibilità di fuga. Alle nudità – neanche tanto suggerite di Daisy – corrisponde una rappresentazione dello spazio circoscritta e stringente che chiude la donna in una autentica trappola venata di sadismo e in cui le ripetute inquadrature (in dettaglio) dei piedi nell’acqua altro non fanno che aumentare il tasso di feticismo interno alla scena che – sviluppandosi sul montaggio alternato tra la donna immersa nella vasca da bagno e Jonathan Drew intento a cercare di entrare da lei – altro non fa che determinate il rapporto tra vittima e carnefice e di conseguenza quello tra padrone e serva. La claustrofobia in cui è costruita la scena serve da elemento aggiuntivo della tensione: il bagno, infatti, è si un luogo intimo della vita quotidiana ma è altrettanto un luogo chiuso da cui è impossibile uscire – se non attraverso l’unico passaggio, cioè la porta (che in questo caso è precluso dalla presenza dietro di essa dell’uomo) – ed è altrettanto un luogo di conclamata vulnerabilità dettato dalla presenza dell’individuo nudo e immerso nella vasca. Che ci sia qualcosa di diabolico e al contempo di perverso nel rapporto tra il pensionante e la giovane donna se ne ha dimostrazione attraverso una scena – apparentemente secondaria ma in realtà esiziale e dal forte valore simbolico – come quella della colazione, in cui l’uomo, scherzando, cerca di colpire la donna con il coltello (simbolo fallico) all’altezza del pube mentre il ghigno sul suo volto viene esaltato dal riflesso della luce sui denti e in cui la risposta femminile (complice e perversa) è riassunta in uno sguardo languido e divertito.

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Quello della perversione sessuale è un virus che si propaga lentamente con il proseguire del film in cui la donna instaura progressivamente una relazione pericolosa con quello che si ritiene essere (e lo stesso regista non fa nulla per deviare la percezione dello spettatore) l’assassino che semina morte in città. Lo stesso virus che ammorba la metropoli la cui popolazione è condizionata e affascinata delle notizie di cronaca nera – come dimostrano: la scena in cui si susseguono folle urlanti che a spintoni cercano di prendere il giornale dalle mani dello strillone; la radio che emette continuamente comunicati sull’argomento; il sovrapporsi di facce-maschere mostruose (in primo piano) che ascoltano, leggono e vivono la notizia.

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Per Hitchcock la cronaca nera è un morbo che condiziona la menti, rende l’uomo feroce e, nell’insieme della collettività, determina l’imbarbarimento della massa e la sete vampirica di giustizia sommaria. A tal proposito è emblematica una delle prime scene del film: quella in cui – tra gli avventori di un chiosco – c’è una donna che racconta al poliziotto ciò che ha visto e cerca di ricostruire l’identikit dell’assassino mentre, nel frattempo, un uomo accanto a lei ne mima i gesti e – alzandosi il bavero del cappotto – ne ricostruisce l’immagine emersa dalle parole della donna. Hitchcock mostra quest’immagine in una superficie riflettente, deformando, trasformando il volto dell’avventore in minaccia e sovrapponendo concettualmente la sua immagine a quella del doppio figurativo che ritorna più volte all’interno del film – come quando una modella simula la stessa immagine ed emergendo dal fuori campo si dirige verso lo schermo con il coltello proteso (spaventando la collega dirimpettaia) o quando, soprattutto, Jonathan Drew si mostra per la prima volta dopo essere comparso come ombra minacciosa che si delinea sulla porta (che riporta il numero 13 come civico), in cui appare, emergendo dalla nebbia, come l’icona dell’immagine dell’assassino descritta precedentemente dalla donna.

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L’uomo entra in scena tra l’esaurirsi della corrente e la sua riaccensione: e, dunque, in quel breve istante di buio che si materializza la presenza ingombrante dello “sconosciuto” che prima diventerà oggetto di scherno da parte dei coniugi Bounting per le sue manie e infine si trasformerà in nemico agli occhi accecati dalla gelosia di Joe. L’invito a togliere i quadri dalla stanza è seguito dall’inquadratura in cui Jonathan Drew, abbassando le imposte, disegna sul suo volto una “croce” simbolica segno della sua conclamata innocenza e, al contempo, dell’imprevisto martirio a cui sarà successivamente sottoposto. La sua è una presenza misteriosa e ondivaga che inquieta la famiglia middle-class londinese – orientata endemicamente verso il sospetto e il pregiudizio di fronte all’inconoscibile – altrettanto avvezza a superare le sue paure di fronte alla copiosa disponibilità economica del pensionante.

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Alfred Hitchcock in The Lodger: A Story of the London Fog, definisce i codici e le regole della suspance– Lo dimostra la sequenza (in montaggio alternato) in cui Jonathan Drew esce dalla sua stanza di notte e la madre di Daisy si sveglia e ripercorre passo passo i movimenti dell’uomo sia al momento della sua uscita sia a quello del suo rientro. Nella stessa scena trova spazio anche un’altra inquadratura simbolica, quella che mostra con la camera a plongée il pensionante che scende le scale – rappresentazione del baratro oscuro (la tromba delle scale è immersa nell’oscurità) verso cui egli, inconsapevolmente, si sta dirigendo. La celebre sequenza del soffitto di vetro – in cui viene mostrato l’incedere nervoso dei passi dell’ospite soprastante la famiglia che avverte la sua presenza attraverso l’ondeggiare del lampadario – è volta ad una rappresentazione contigua degli spazi e trasforma (letteralmente) l’abitazione in un organismo vivente in cui è possibile creare continuità tra il “sopra” e il “sotto” riproducendo gli stessi aspetti (a livello di classi “alte” e “basse”) presenti e contigue nella massa indistinta che insegue il pensionante per farsi giustizia da sé.

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Il finale del film è patetico e stucchevole – la riproposizione ironica e beffarda del quadretto familiare non è nelle corde del regista d’oltremanica – e affonda nel sentimentalismo più trito e mieloso. Ma il tutto appare come posticcio e tirato via, forse opera della produzione, anche perchè Hitchcock, avrebbe voluto allinearsi di più al romanzo di Marie Adelaide Belloc-Lowndes in cui il pensionante è realmente colpevole ma, come spiega lo stesso regista, questa è una strada impercorribile: “Il protagonista Ivor Novello era una vedette del teatro in Inghilterra, allora era un nome molto importante. Ecco uno dei problemi che dobbiamo affrontare avendo a che fare con lo star system; capita spesso che la vicenda sia compromessa perché il divo non può recitare la parte di un delinquente. In una storia di questo tipo avrei preferito che il personaggio scomparisse nella notte in modo che non se ne sapesse più niente. Ma non è possibile quando un divo interpreta la parte del protagonista: bisogna per forza dire: “è innocente!”” (ibidem)

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La mostruosità della massa si mostra in tutta la sua ferocia e ignoranza nel “vero” finale del film quando, dopo aver inseguito il “falso” colpevole lo raggiunge – anche a causa del fatto che Jonathan Drew rimane intrappolato proprio per colpa delle manette – e con ferocia e brutalità selvaggia cerca di linciarlo. Lo stesso regista che compare tra la folla bardato con abiti sdruciti e con barba incolta, si mostra in primo piano tra gli aguzzini (prima era la sua sagoma si era intravista di spalle nella redazione del giornale) e – oltre ad inaugurare la consuetudine delle sue celebri comparsate in situazioni più o meno esplicite – sembra assumere su di se il peso della colpa (e la conseguente espiazione) per aver imbastito una storia sull’ossimoro dell’innocente-colpevole e, autobiograficamente, esorcizzare così l’episodio dell’infanzia che lo vide chiuso in prigione per volontà del padre.

di Fabrizio Fogliato

 

The Lodger: A Story of the London Fog (Il pensionante)

Paese: UK

Anno: 1926

Durata: 74′ (National Film Archive), USA: 90′ (TCM)

Regia: Alfred Hitchcock

Sceneggiatura: Eliot Stannard dal racconto omonimo di Marie Belloc Lowndes

Fotografia: Gaetano di Ventimiglia, Hal Young

Montaggio: Ivor Montagu

Art Direction: C. Wilfred Arnold, Bertram Evans

Titoli: Ivor Montagu, E. McKnight Kauffer

Produttori: Michael Balcon, Carlyle Blackwell

Interpreti: Marie Ault, Arthur Chesney, June, Malcolm Keen, Ivor Novello

Casa di produzione: Gainsborough Pictures

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