I LIBRI DI INLAND #6
Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano
di Fabrizio Fogliato con prefazione di Romolo Guerrieri
Bietti Edizioni, 2022

Itinerario n.01: ritorno: La città dell’oro (stralci)

Il cinema nero italiano degli anni Cinquanta si nutre di un immaginario antecedente che è figlio diretto delle aberrazioni indotte nella società dalla guerra e, soprattutto, dal conflitto civile e fratricida che la segue: desiderio sanguinario di vendetta, sadismo, indifferenza verso il valore della vita umana. È come se il paradigma del giovane sopravvissuto agli orrori della guerra fosse quello del serial killer che, nel suo comportamento – come spiega Francesco Bruno12, noto criminologo – agisce contro il mondo e in modo disumano.

La disumanizzazione è una costante ‒ si manifesta anche nei comportamenti quotidiani – in Tombolo, paradiso nero (1947) di Giorgio Ferroni, dove l’umanità rappresentata è realmente un “corpo morto” da cui l’occupante, in questo caso l’esercito americano, determina orientamenti e scelte di una società esausta. Il quadro collettivo che emerge dal film è disarmante perché illustra una verità difficile da accettare: uomini e donne che delinquono per scelta e rifiutano il lavoro per la via facile del guadagno illegale; ragazze che si prostituiscono agli americani per avere in cambio viveri e belletti; la pineta del Tombolo (Livorno) come una zona franca in cui si agita un’umanità perduta e miserevole divisa tra meretricio, furti e clandestinità.

Protagonista è Anna (Adriana Benetti), una brava ragazza – alla quale non sono stati dati gli strumenti per scegliere – incapace di orientarsi tra la legalità (il padre carabiniere) e l’illegalità promossa da delinquenti che la sfruttano e le garantiscono l’illusione di una vita di agi e di lussi. Anna è vittima di una società sadica, deumanizzata, sfinita, isterica e confusa, nella quale la scelta è impossibile perché il bisogno e il desiderio rappresentano una cappa irrespirabile che ottunde la percezione: miseria e disperazione (onestà), ricchezza e benessere (illegalità).

«Venticinque anni e non ho mai avuto niente», afferma una delle protagoniste il giorno del suo compleanno.

[…]

Nel rapporto sadomasochistico uomo (padrone) e donna (serva) di Il testimone, come nel rapporto uomo (padrone/capo) e gruppo (servi/sudditi) di Gioventù perduta, è lampante come una volontà più forte riesca a piegarne una più debole semplicemente agendo dall’esterno – esercitando un fascino perturbante: il legame criminale cresce progressivamente dopo una germinazione debole e indistinta. Pietro Germi descrive la matrice delinquenziale di atteggiamenti quotidiani non da cronista bensì sviscerando – con acume e acribia – gli elementi psicologici e sociologici che innescano l’acquisizione di comportamenti illeciti determinati in un contesto esistenziale e sociale che non è immune da colpe.

Con questi due film Germi inizia un percorso registico-tematico destinato a chiudersi nel 1959 con Un maledetto imbroglio. Egli è consapevole di come l’oggetto della sua analisi sia circoscritto a un lasso di tempo ben preciso in cui le trasformazioni sociali in corso giocano un ruolo decisivo per spiegare l’agire criminale.

Per saperne di più:

www.conlarabbia.it

di Fabrizio Fogliato ©

12 «Gli altri assassini non tengono conto, nei loro atti omicidi, che gli altri siano delle persone come loro, spersonalizzando la vittima. Direi che non si pongono il problema della morte, altrimenti non potrebbero essere in grado di fare quello che fanno […] non c’è umanizzazione, c’è disumanizzazione […] infatti l’assassino cerca di uccidere il mondo, di allontanarlo da sé, […] esso è un malato che non riesce a rapportarsi con il vivente e trae piacere nel corpo morto della vittima, promuovendo per ottenerlo piani e azioni conseguenti»: cfr. intervento televisivo a Rai 3 citato in Manti D., Ca(u)se perturbanti, Lindau, Torino 2003, pp. 49-50.

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