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SEX WISH: LE MEMORIE DI SHAUN COSTELLO

Cinema dell’eccesso: sguardo sociale inquietante e scavo antropologico nell’abisso dell’essere umano. Recitazione isterica, cattivo gusto e parodia volgare e sguaiata.

Il cinema di Shaun Costello, così come quello di Gerard Damiano (in modo diverso, i registi più interessanti dell’hardcore USA assieme ad Alex De Renzy), vive in una dimensione sospesa tra realtà urbana e sogno (o meglio incubo) metropolitano. Un cinema fondato sull’eccesso in cui non c’è alcun controllo né sull’isteria della recitazione né sul cattivo gusto della messa in scena, e che spesso sfocia in una parodia volgare e sguaiata (ma mai banale). Se l’hard core per sua definizione è una continua addizione di materiali eterogenei al grado zero della narratività (l’amplesso in varie forme reiterato, potenzialmente all’infinito), quello realizzato da Shaun Costello né è la rappresentazione più distonica: una sorta di kammerspiel dei corpi, in cui lo spazio attorno ad essi si restringe progressivamente fino al soffocamento in cui le riprese dei genitali sono talmente ristrette da sfociare nell’astrazione quando non nella visionarietà del delirio. Shaun Costello può essere definito un “trasfiguratore”, un regista cioè che altera, deforma e corrompe ogni metro di pellicola che gli passa per le mani. I suoi film – anche i più scalcinati e rabberciati – presentano sempre un lato oscuro, persino inquietante, qualcosa di sfuggente e volatile che destabilizza lo spettatore ne altera la percezione visiva e ribalta l’assunto di fondo del film pornografico: per l’ “incursore” di New York il godimento, diventa quasi sempre sofferenza, si contamina con il grottesco, con la parodia più triviale e con un’irriverenza endemica e iconoclasta che ne fa sicuramente una delle figure più singolari e originali della “Golden Age of XXX Movies”.

THE SHOCK (1923) di Lambert Hillyer

Scavando negli oscuri registri del passato, una spaventosa pagina attira l’attenzione. Chinatown, quartiere del crimine, della paura, dell’odio e del mistero…il Cafè Mandarin, un vortice di vizi e di intrighi.

Anche nel periodo del cinema muto c’è stato (come sempre in tutta la storia del cinema) un cinema medio e popolare di matrice artigianale in grado di coinvolgere grandi masse di pubblico e di emozionare platee sterminate. A distanza di più di un secolo è talvolta difficile reperire questi film e ritrovare nel restauro la possibilità di conoscerli. Da sempre relegate nella categoria (pretestuosa) dei B-Movies, queste pellicole non trovano cittadinanza né sui libri di storia, né tanto meno sulle riviste di critica. Considerate opere minori (come in effetti sono), prive di valore artistico e di interessanti spunti critico-semiologici, realizzate da registi anonimi e spesso sconosciuti, alcune di esse tuttavia contengono elementi sorprendenti e situazioni anticipatrici dei “grandi classici”. The Shock di Lambert Hillyer è pienamente ascrivibile a questa categoria di film, ma a differenza di altri, fruisce della presenza di Lon Chaney nel ruolo di protagonista, di un villain donna difficilmente dimenticabile e della sorprendente e spettacolare distruzione di San Francisco nel finale del film

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Nato nello stato dell’Indiana nel 1889 dall’attrice Lydia Knott specializzata in ruoli western, Lambert Hillyer frequenta il mondo dello spettacolo sin da quando è bambino. Nei primi anni della sua carriera si dedica sia al giornalismo, sia al ruolo di scrittore. A partire dal 1917 comincia a lavorare per il mondo del cinema scrivendo sceneggiature e firmando regie di film di largo consumo: prevalentemente western ma anche melodrammi e polizieschi. La professione di regista la apprende e la perfeziona a Inceville sotto la supervisione del magnate del cinema muto Thomas Ince. A ventinove anni esordisce dietro la macchina da presa, con il film Strife (1917); nel 1919 gira Square Deal Sanderson e per tutti gli anni ’10 lega il suo nome al genere western e al sodalizio artistico con l’attore William S. Hart, che proprio grazie ai film di Hillyer diventa una star. Altri attori lanciati da Hillyer sono divenuti beniamini del grande pubblico come Buck Jones e Tom Mix, ma il regista dell’Indiana ha lavorato nella sua lunga e prolifica carriera anche con Lon Chaney (The Shock, 1923), Boris Karloff e Bela Lugosi (The Invisible ray, 1936). Successivamente alterna la sua produzione dividendosi tra cinema e televisione e nei primi anni ’50 diventa il regista principale della pioneristica serie televisiva western The Cisco Kid. Dopo questa esperienza decide di ritirarsi dalle scene. Muore a Los Angeles nel 1969. Lambert Hillyer non è nulla più che un onesto artigiano, capace e meticoloso, interessato a dirigere opere non particolarmente complesse indirizzate ad un pubblico eterogeneo e copioso, caratterizzate da una sorprendente vivacità della messa in scena e da un montaggio serrato e dinamico decisamente in anticipo sui tempi.

JADE (1995) di William Friedkin

Fetish of evidence: i feticci della società dell’immagine.

La prima metà degli anni ’90 segna l’esplosione cinematografica del thriller-erotico, e contemporaneamente l’affermazione multimiliardaria dello sceneggiatore Joe Eszterhas, il quale con i suoi script (Basic Instinct su tutti) costruisce un breve filone di successo, capace nel giro di pochi anni di dare vita ad una serie di epigoni minori (dei quali il migliore rimane The Last Seduction di John Dahl (1993)). L’autore delle sceneggiature di Basic Instinct (di Paul Verhoeven, 1992), Sliver (di Philip Noyce, 1993), e Jade (di William Friedkin, 1995), è un abile manipolatore e un furbo venditore di se stesso che, attraverso una serie di script scadenti e velleitari, riesce a far credere a Hollywood di essere il nuovo Re Mida del cinema. Di quanto esiguo, sia il contributo del suo lavoro per la riuscita o meno di un film, è dimostrato dal fatto che l’unico dei tre succitati, Sliver (che mortifica il romanzo omonimo di Ira Levin), girato non da un “autore” – ma da un abile mestierante come Philip Noyce – risulta debole, improbabile e lacunoso, anche sul versante del cotè erotico – a differenza degli altri due in cui la sapiente mano di Verhoeven in un caso e quella di Friedkin nell’altro riescono a sorvolare su dialoghi risibili e scontati, per costruire tutto l’impatto dei due film solo ed esclusivamente attraverso la regia e la messa in scena.

HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Seconda

Amore e morte nel giardino degli dei

 

Dal freddo di Grand Rapids nel Michigan, Jake VanDorn, discende verso il caldo della California. Già in questo percorso entra la dimensione della discesa così come quella del “caldo infernale”. Hardcore, però, non è un film costruito sulla facile e sterile contrapposizione tra paese e città, e neanche un film che cerca di mettere in positivo la dimensione della micro-comunità del Nord contro la macro-comunità del Sud. Entrambe le collettività appaiono problematiche, affette da disequilibrio, piene di sfumature e asimmetrie. Sin dai titoli di testa – che scorrono sulle immagini del Michigan innevato – i codici cinematografici secondari assumono un ruolo determinante nell’economia del film: il nome dell’attore protagonista e il titolo del film appaiono neri per essere subito dopo virati di rosso carminio; quelli successivi proseguono su questa tonalità con l’evidente intenzione di sottolineare in modo extra filmico la dimensione “infernale” al centro della pellicola.

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Le immagini candide e asettiche di Grand Rapids innevata con i bambini che giocano felicemente e armoniosamente, stridono fortemente con i tre stacchi a camera fissa che al termine dei titoli di testa ci introducono nell’abitazione di Jake VanDorn, all’interno della quale tutto è sobrio, grigio e compassato. Anche qui ci sono bambini: alcuni suonano il pianoforte e cantano inni religiosi, altri sono seduti di fronte ad un innocuo spettacolo televisivo e natalizio – prima che uno zio intervenga a spegnere la televisione demonizzandola – altri, come il piccolo Hardold Jay, assistono attoniti e spaesati alle discussioni sul peccato capitale e sui salmi, cui sono ipegnati i genitori.

HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Prima

L’infernale paradiso di …Kristen

 

Paul Schrader ha più volte dichiarato di aver fatto i conti con il suo passato e sublimato il rapporto con il padre anagrafico con il film Hardcore (1979). A ben vedere però, il film in questione, non è solo un viaggio autobiografico alla ricerca della propria identità (negata dalla famiglia), ma è anche un ritratto caustico, bruciante e irriverente di un microcosmo religioso (che in America conta per lo 0,1% della popolazione ma che ha dato al paese ben due presidenti: Martin Van Buren e Theodore Roosevelt), quello della declinazione calvinista della Chiesa Riformata d’Olanda. Il viaggio all’ “inferno” di Jake VanDorn, non è solo la discesa negli antri oscuri dell’essere umano di un padre alla ricerca disperata della figlia, ma è la traversata destinata a qualunque comunità che ponga alla base del suo Credo (religioso e non) la repressione aprioristica e la mancanza assoluta di spiegazioni comportamentali (come sarà, anni dopo, per quella di Das Weisse Band (Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke). La stessa, traversata, vissuta sulla propria pelle dal regista fino al compimento dei 17 anni, momento in cui varca contemporaneamente la soglia della sala oscura e quella della libertà e del suo “mistero”.

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L’incipit in voce-off del film del 1990 The comfort of strangers (Cortesie per gli ospiti) racconta di un passato e di un padre, in cui non si può non vedere i tratti autobiografici alla luce anche del taglio del protagonista di Hardcore e delle sua “trasformazione caricaturale” californiana (l’uomo di cui si parla, sembra quello chiuso nel Motel del Cinema intento a ricevere aspiranti porno-attori in Hardcore): “Mio padre era un uomo imponente. Tutta la vita ha portato dei gran baffi neri. Quando ingrigivano li tingeva di nero con uno spazzolino di quelli che usano le donne per truccarsi gli occhi, per darsi il mascara. Avevano tutti paura di lui: mia madre, le mie quattro sorelle. Quando eravamo a tavola nessuno poteva parlare a mio padre se non veniva prima interpellato da lui. Ma adorava me. Io ero il suo preferito”. La scelta della caricatura per tratteggiare visivamente un uomo “fuori posto” come è Jake VanDorn in California, evidentemente coincide con la necessità, per l’autore, di raccontare una storia privata annegandola nei meandri più oscuri e inconfessabili della sua giovinezza, all’interno della quale la pornografia ha avuto un ruolo fondamentale nel processo di “redenzione” auto-percorso dallo stesso Schrader. Il Jake VanDorn di Grand Rapids (Michigan) non è diverso dal Jake VanDorn esule a Los Angeles, San Diego, San Francisco: quello che cambia è il suo abito, il suo atteggiamento; così, almeno, crede lui, mentre invece è egli stesso a subire una trasmutazione irreversibile, al punto da chiudere il suo viaggio con questa battuta rivolta alla figlia ritrovata: “Adesso portami a casa tu”.

FEMMES DE SADE di Alex De Renzy (1976)

Il carnevale infinito della società liberata

 

Il cinema di Alex De Renzy è un inno alla libertà. Il regista della west-coast costruisce film dopo film un mondo irreale, onirico, fantasmagorico, in cui tutto è possibile e in cui anche i lati più biechi e oscuri della natura umana diventano accettabili e giustificati. Definito a suo tempo dal New York Times come “Il Cecille B. De Mille dell’hardcore”, il regista di San Francisco, sin dal suo esordio affronta il lato perverso e “contronatura” della sessualità: in Animal Lover (id., 1971) attraverso uno pseudo-documentario delirante e irriverente cerca di dare spiegazione logica e “naturale” alla zoofilia, mentre il film che chiude il suo periodo più artistico e fecondo Long Jeanne Silver (id., 1977) ha come protagonista una bionda con una gamba amputata che usa il moncherino per regalare piacere sessuale ai suoi partners. Alex De Renzy, è un ottimo regista uno dei pochi nel genere in grado di sostenere con successo anche la regia di film “normali” (e non è casuale che nei suoi film l’hard abbia, in proporzione, sempre uno spazio ridotto rispetto alla narrazione), e uno dei pochi ad ottenere una recitazione misurata e credibile dai suoi performers. Aspetti questi che elevano il suo cinema, la cui cifra stilistica è quella del bizzarro spesa all’interno di una idea di società impossibile ma che prende forma e consistenza proprio grazie a quella “macchina dei sogni” che è il cinema. Nel suo cinema è negato il lato oscuro e problematico del sesso (in questo è l’esatto contraltare di Gerard Damiano), ma è presente solo una visione libertaria, ridanciana e carnevalesca dell’accoppiamento corporeo in ogni forma e declinazione indipendentemente dal genere e dalla quantità, e ogni violazione di questa regola deve essere sanzionata. Nel programmatico Femmes de Sade, le violenze perpetrate dal villain di turno vengono irrimediabilmente punite dalla società stessa in cui egli si è introdotto come un corpo estraneo violandone le regole e profanandone la “sacra” libertà, mediante un rito/orgia collettivo che si conclude con deiezioni di gruppo sul corpo del malcapitato lasciato a terra esanime e ricoperto di escrementi mentre una società colorata, multiforme e godereccia si allontana da lui facendo il trenino e cantando beffardamente “Bye Bye Rocky”.

LASSE BRAUN’S “SENSATIONS” (1974)

Sexual Revolution…

“I believe pornography is at the center of the biggest cultural revolution of our century”.Parola di Lasse Braun, ovvero l’italianissimo Alberto Ferro, colui che la rivista newyorkese “Escapade”, nel 1981, ha definito come “ il padre della pornografia moderna”. Come sempre nelle etichette c’è un misto di esaltazione e approssimazione; certo è pero, che, indiscutibilmente, Lasse Braun è stato un pioniere “di qualità” nel campo, un abile “politico” e, a suo modo, anche un rivoluzionario. Alberto Ferro nasce ad Algeri nel 1936, figlio di un diplomatico italiano e proveniente da una ricca e nobile famiglia italiana. Sin da piccolo, per lignaggio, è destinato a seguire le orme del padre, ma è anche, irresistibilmente attratto dalla sessualità. Egli racconta con una certa enfasi ed esagerazione: “La prima scopata fu nell’aprile del 1944, con Wilma, quando nel parco della villa di mio zio, sul lago di Como, si tenne il party per il mio ottavo compleanno. Anche se a spiegarmi tutto sul sesso fu Joe, un soldato nero USA che arrivò a Cernobbio nel ’45. Lo vidi montare mia cugina e poi mi spiegò tutto, svelandomi i misteri del sesso arrivando persino a disegnarmi in terra, con un rametto, quello che succede tra uomini e donne” (intervista a Lasse Braun, in booksblog.it, 8 marzo 2010). Lasse Braun dal 1956 al 1961 è iscritto all’Università Statale di Milano, dove si laurea in Giurisprudenza, e presenta come tesi un lavoro dal titolo “Censura giudiziaria nel mondo occidentale”, che negli anni dell’oscurantismo sessuofobo della DC, viene rifiutata e provoca sdegno nel mondo accademico. Il giovane Braun, inizia così un percorso anti-istituzionale finalizzato ad abbattere la sessuofobia imperante e a smascherare l’ipocrisia repressiva del potere.

BEHIND THE GREEN DOOR (1972) dei Mitchell Bros.

Dietro la porta verde, il mito, il sogno e la disillusione

Behind the green door, è stato il primo lungometraggio hard-core ampiamente distribuito negli Stati Uniti. Il film è l’adattamento di un anonimo racconto omonimo, ispirato ad una leggenda metropolitana, che prende il titolo da “The Green door”, hit del 1956, e che all’epoca venne distribuito attraverso numerose copie carbone. Insieme a Deep Throat (Gola Profonda, 1972), quello dei Mitchell Bros., è il film che ha aperto la “Golden Age of Porn”, cioè quel breve periodo in cui la pornografia è stata fenomeno di massa intergenerazionale e interclasse. Uscito nelle sale americane il 17 dicembre 1972, girato con un budget di $60.000, Behind the green door ha incassato (compresa la distribuzione home-video) oltre 25 milioni di dollari, e negli anni ’70, con il dittico di Damiano Deep Throat e The devil in Miss Jones (id, 1972), è stato uno dei maggiori incassi di tutto il cinema americano. Nel maggio del 1973 è stato proiettato e applaudito al Festival di Cannes. La sua protagonista, divenuta star in seguito al clamoroso successo del film, non è una pornodiva. Marilyn Chambers, all’epoca è la testimonial pubblicitaria di un sapone per bambini Ivory Snow,  venduto con lo slogan: “99 e 44/100 %’ s pure”. I Mitchell Brothers, venuto a sapere di questa sua partecipazione, distribuiscono comunicati stampa in cui il film viene pubblicizzato con lo stesso slogan. L’indignazione dell’industria pubblicitaria, dopo l’uscita del film, è così profonda che la Procter & Gamble, titolare del marchio Ivory Snow decide di ritirare dal mercato tutte le confezioni dei prodotti su cui compare il volto di Marilyn Chambers. Tutta pubblicità gratuita per il film, il cui eco attraversa l’America da costa a costa e giunge persino sugli schermi televisivi dove la vicenda viene schernita con sketch e imitazioni varie, e apre lo stucchevole dibattito se la Chambers, abbia avuto o solo simulato l’orgasmo sul set.