Tag

Apocalypse now

Browsing

THE ATROCITY EXHIBITION (2000) di Jonathan Weiss

La filosofia dell’atrocità secondo James G. Ballard: il controllo del tempo, la realtà pervasiva dei media, automobili come oggetti-feticcio sessualizzati e l’ossessione delle psicopatologie.

The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss, a partire dal suo completamento non è quasi mai stato proiettato. Il regista ha lavorato con risorse molto limitate, e ha dovuto gestire continue interruzioni produttive a causa della carenza di fondi che hanno portato lo sviluppo del processo creativo a prolungarsi per alcuni anni. Il director’s cut originale ha una durata di 105′, mentre una versione decurtata fino a 90′, e non ancora ultimata, è stata proiettata a Rotterdam nel 1998 e allo Slamdance Festival del 1999. Il senso dell’operazione è racchiuso nelle parole dello stesso regista: “Chi pensa che il mondo rappresentato nel libro di Ballard sia ormai superato, rimarrà fortemente deluso. I contenuti sono di una attualità sconcertante: non viviamo in un paesaggio dove la realtà pervasiva dei media controlla il nostro tempo? Non siamo ossessionati e consumati da psicopatologie che creano e determinano le nostre relazioni con noi stessi, la nostra famiglia e gli amici, i nostri modelli, i nostri governi? Non è che le nostre automobili e altri veicoli sono diventati degli oggetti-feticcio sessualizzati?” (Simon Sellars, ballardian.com)

atrocity_cover

Il film diretto nel 2000 dall’australiano Jonathan Weiss e scritto in collaborazione con Michael Kirby, non è mai uscito nelle sale, ma ha ricevuto la gratificazione dell’entusiasmo dello stesso Ballard, che dopo la visione ne ha suggerito l’aggiunta dell’introduzione iniziale. Il “corridoio della paura” percorso dalla macchina da presa che si avvicina con un lento carrello alle spalle del Dott. Traven all’inizio del film (che è complementare allo stesso corridoio percorso dalla steady cam nel finale del film) ha come geometrica direzione universale quella del bianco totale che appare sullo sfondo dello schermo: una sorta di visione astratta della morte.

WILLIAM FRIEDKIN’S SORCERER (IL SALARIO DELLA PAURA, 1977)

Odissea infernale verso la morte

 

Lo schermo nero, poi una dissolvenza svela il volto di un demone scolpito nella pietra; improvvisamente dalla sinistra, il titolo del film entra come una lama: Sorcerer, ovvero Stregone. Il motivo, per cui il remake di Le salaire de la peur (Vite vendute, 1953) di Henri-Georges Clouzot, ha questo titolo, è da ricercare nel percorso artistico di William Friedkin. Il regista, quattro anni prima ha diretto The Exorcist (L’esorcista), e il tema della possessione continua  – in questo cult maledetto –  a contagiare i personaggi e la storia. Sorcerer è il delirio di onnipotenza di un autore giunto all’apice del suo successo, che crede di poter sfuggire alle regole e alle dinamiche di Hollywood lanciandosi in una produzione colossale girata lontano dagli studios, senza rinunciare al sottotesto d’autore, ma integrando la messa in scena con una potentissima metafora spettacolare. Lo stesso Friedkin dichiara: “Apocalypse now, Aguirre, Furore di Dio e il mio Il salario della paura sembrano in effetti aver sofferto dello stesso male. Sapete, la maggior parte dei registi ha un solo desiderio: quello di vivere sul filo del rasoio. Sapendo che un regista non ha sempre un controllo assoluto sulla propria creazione è evidente che egli ha forzatamente voglia di andare vicino al punto di rottura di una situazione data per provare al mondo di essere in grado di ritornare, all’ultimo minuto, padrone del suo destino”. (In Roy Menarini, William Friedkin, Il Castoro Cinema, pag. 56). Le difficoltà realizzative sono enormi: Universal e Paramount, sono al timone di una produzione da venti milioni di dollari, quasi interamente girata nella Repubblica Domenicana, con collaboratori che si ammalano di malaria, risse furibonde tra regista e attori sul set e in cui le scene più incredibili e difficoltose (come quella del ponte vengono girate più volte) tra intemperie e set distrutti dalle forze della natura. Per traslato, si potrebbe persino dire che il film stesso è posseduto da un demone, ma in realtà la “follia calcolata” di Friedkin, utilizza un viaggio verso la morte ribaltandolo di senso e trasformandolo in un viaggio iniziatico in cui il Male è sostituito al Bene e viceversa.

In uno sgangherato Stato dell’America Latina, nonostante la miseria che vi regna, la dittatura, il terrorismo politico, si rifugiano persone che per ragioni diverse in patria hanno conti aperti con la legge o con la criminalità organizzata. E’ il caso di Jackie Scanlon (Roy Scheider) che, unico superstite di un quartetto di rapinatori, è ricercato dalla mafia perché nel corso della rapina è stato ucciso un sacerdote, fratello di un boss. Victor Mason (Bruno Cremer), invece, è un banchiere parigino responsabile del fallimento della propria banca e causa del suicidio del fratello; Kassem (Amidou), invece, è fuggito da Israele dopo avere preso parte a un sanguinoso attentato a Gerusalemme. Angerman è un aguzzino nazista che verrà presto eliminato dall’ebreo Nilo (Francisco Rabal). Oltre che privi di denaro, i quattro (che nell’ordine si fanno chiamare: Juan Dominguez, Serrano, Martinez e Marquez) sono perseguitati dalla corrotta polizia del villaggio per via delle leggi di immigrazione. Disperati, i quattro accettano di trasportare su due autocarri antidiluviani delle casse di nitroglicerina, indispensabile per arrestare l’incendio di un pozzo petrolifero. Il “salario della paura” è di 8 mila pesos per ciascuno dei quattro (Marquez viene sostituito dal suo “giustiziere” Nilo). L’impresa è pazzesca, dovendosi percorrere 200 miglia di foresta su di una pista infame e con un carico in condizioni pessime. Serrano e Martinez finiscono in un burrone. Nilo muore per le ferite infertegli da guerriglieri. Juan Dominguez giunge alla meta e si assicura tutto il compenso ma nel villaggio sono giunti i killers che la mafia ha sguinzagliato per eliminarlo.

maxresdefault