Le convergenze del verosimile: la contraddizione architettonica tra il barocco degli ambienti borghesi e la scalcinata modernità dei fatiscenti edifici di periferia.

Il cinema inventa la città: ne prende diversi pezzi, li rimescola e li ripropone in forma filmica; manipola la metropoli ingurgitando strade, edifici, piazze, monumenti, masse, cittadini, abitudini e deiettando un assetto urbanistico che stravolge piani regolatori e articola viabilità impossibili che ignorano la segnaletica orizzontale e verticale.

La città del poliziesco italiano è contemporaneamente riconoscibile (toponimi e toponomastica), irriconoscibile (frutto di mescolanze arbitrarie di strade, vie, piazze), impressionista (evocativa, non reale), immaginaria (basata su suggestioni d’ambiente sospese tra passato e presente). La città nel poliziesco è funzionale, utilitaristica, priva di romanticismo; in essa tradizione e modernità ‒ e separazione tra esse ‒ esistono, esclusivamente, in relazione all’azione.

Mario Lanfranchi spiega così la scelta del capoluogo ligure per girare il suo Genova a mano armata (1976): Avevo in mente di fare un film d’azione, un western metropolitano, in cui l’eroe puro e incontaminato perseguisse una sua idea di giustizia molto personale, senza tener conto dei limiti della legge. Un uomo disposto a sacrificare tutto pur di raggiungere il suo obiettivo, anche al limite del masochismo, sapendo di dover affrontare delle prove durissime. Ma deciso a proseguire in questa specie di missione, anche se poi la missione non era così pura perché c’era anche un compenso in denaro. Era un eroe moderno, in cui s’insinuava un concetto utilitaristico della vita, non certo un eroe wagneriano. Questo film volevo farlo a Genova perché ci ero già stato per motivi sia turistici che artistici e mi aveva sempre impressionato. […] Ero rimasto colpito dalla cinematograficità della città, dalla bellezza straordinaria ma variatissima, con una serie di set naturali diversissimi. Era una città ideale per raccontare una vicenda così spietata, con quella solennità che ha al tempo stesso la turpidudine di certi caruggi e di certi sobborghi… […] Ero rimasto molto colpito dai contrasti violenti, sia come contrapposizione di ambienti diversi tra loro, sia come passaggio dalla luce abbagliante del porto alla semioscurità dei vicoli. 

Il film racconta di un ex agente dell’FBI, radiato dall’Interpol e dalla CIA, che ha aperto un’agenzia investigativa a Genova dove è conosciuto come l’Americano (Tony Lo Bianco), nonostante le sue origini siciliane. Telefonicamente un certo dottor Mayer (si scoprirà solo successivamente che la voce è quella di Marta Mayer) lo incarica di indagare sul sequestro e assassinio dell’armatore omonimo, nonché del recupero di un miliardo di lire versato per la non avvenuta liberazione dell’ostaggio assassinato. L’Americano deve superare una duplice barriera: quella costituita dal commissario Lo Gallo (Adolfo Celi) che ne teme i metodi illegali, e quella di una banda, facente capo in apparenza a Caleb (Howard Ross [Renato Rossini]), che attenta più volte alla sua vita. L’Americano, dopo molteplici peripezie, recupera l’amicizia di Lo Gallo dimostrandogli di essere tuttora un pezzo grosso della Narcotici. Quindi, facendosi ricoverare in una clinica che fa da paravento al traffico di droga, individua nella dottoressa Marta Meyer (Maud Adams) – proprietaria della stessa – l’assassina del padre armatore e la responsabile di un vasto giro di stupefacenti.

Nel film, della città emergono la connessione architettonica interno-esterno e il peso specifico di luoghi rappresentativi come la zona portuale e scorci dai tratti (per l’epoca) iper-moderni. I grattacieli prospicienti alla stazione Brignole, piazza De Ferrari, il Porto di Prà, via Ceccardi sono tutti luoghi che convergono simbolicamente verso la sintesi iconografica della modernizzazione della città: la Sopraelevata. Questa ‒ la cui costruzione è prevista già nel Piano Regolatore Generale del 1959 per collegare ponente e levante ‒ restituisce all’urbe una dimensione internazionale e tentacolare che la trasforma in luogo ideale (persino ontologico) del crimine. A ponente, da corso Francia il serpentone d’asfalto intercetta il porto e l’autostrada Genova-Milano; a levante l’uscita è collocata in zona Foce e si apre sull’ingresso della Fiera del Mare (aperta nei primi anni Sessanta).

La Sopraelevata, sin dalla sua ultimazione, inghiotte il cinema. Nel 1969 La legge dei gangsters di Siro Marcellini ‒ con una Rolls Royce che la percorre accompagnata, nei titoli di testa, dalle note di Piero Umiliani ‒ ne immortala l’iconografia eleggendola a luogo mitico dell’inseguimento su grande schermo.

La città di Colombo è geograficamente marginale per il suo decentramento regionale, cinematograficamente centrale per la cronaca nera e criminale che ne definisce l’aura mitologica di crogiuolo degli effluvi delinquenziali: di transito (i Marsigliesi) e di endemica malavita locale, tanto di piccolo quanto di grande cabotaggio. Il fascino, antico ed esotico, del centro storico si coniuga/scontra con la periferia proletaria e industriale di Cornigliano e Marassi, replicando sul piano urbanistico la contraddizione della locazione geografica: stretta tra montagne e mare, tra le colline di Sampierdarena e il porto. Se nel labirintico dedalo dei caruggi si agita un’umanità perduta che flirta pericolosamente con la morte, le grandi arterie del traffico, l’angiporto e gli squallidi capannoni dell’Italsider delineano una metropoli da cui l’uomo è stato espulso, segregato in spazi angusti e chiusi, per lasciare il posto all’automobile che diventa veicolo e traduttore dell’espansione delinquenziale.

La Genova lacerata del film di Lanfranchi è verosimile in quanto ne traduce tutti gli aspetti più evidenti e riconoscibili sublimandoli nella contraddizione architettonica tra il barocco degli ambienti borghesi e la scalcinata modernità dei fatiscenti edifici di periferia. La città che, nella realtà, è progressivamente invasa dal cemento, dal vetro e dall’acciaio dei grattacieli che ne violentano il paesaggio naturale, nel film è icasticamente restituita ‒ tra riconoscibilità e irriconoscibilità ‒ tramite l’immagine simbolica della Sopraelevata: vera e propria cesura, ferita, tra tradizione e modernità, mare e collina, centro storico e periferia, vita e morte. Genova diventa così autorivelazione filmica, visceralmente parziale e soggettiva, punto d’incontro tra memoria e presente, terreno germinale e fecondo in cui si sussume l’appropriazione della metropoli da parte della macchina da presa. L’urbanistica del capoluogo ligure ‒ al pari di quella di Torino, Milano, Roma, Napoli, Palermo, fino alle province frequentate dal genere come Bari e Macerata o genericamente violente (Provincia violenta [1978] di Mario Bianchi si svolge ad Aversa, in provincia di Caserta) ‒ si piega alle esigenze del pubblico che vuole, attraverso lo spettacolo, esorcizzare la cronaca, meglio se spietatamente surrogata nell’inverso della realtà: denuncia civile di comportamenti abietti sanzionati con la forza e con i calci nei coglioni.

Genova a mano armata, che dal titolo denuncia la sua natura filmica ‒ rispetta alcuni ovvi tòpoi di genere: l’inseguimento, le sparatorie, le scazzottate, la dimensione urbana, e le esaurisce tutte e subito nei primi 30 minuti: offre allo spettatore esattamente ciò per cui ha pagato il biglietto. Tolto il dente procede per altre strade dando però sempre, allo spettatore, la sensazione (anzi la certezza) di trovarsi all’interno di un classico poliziesco all’italiana, sfruttando in tutte le sue prerogative di apparenza il concetto di verosimiglianza.

È un film di polizia ma senza polizia; il commissario Lo Gallo ha solo un vice e viaggia su una Fiat  131 verde; l’inseguimento è breve, si svolge (come da copione) sul tratto terminale della Sopraelevata ma c’è qualcosa che non torna: l’Americano viaggia su un maggiolone truccato, improbabile e decisamente incompatibile con il suo tenore di vita, e dice a Lo Gallo: «Non ho neanche una pistola». Eppure, dall’inizio del film non fanno niente altro che sparargli addosso. Lui si difende pestando come un fabbro e riceve in cambio botte da orbi e i suddetti calci nei coglioni: più che un poliziotto appare come un turista del mestiere, poco interessato al successo (anche quello lavorativo, come dichiara egli stesso) e refrattario alla disciplina professionale. Ancora: il suo antagonista è una donna-strega che fa di tutto per portarlo dalla sua parte ma che, al contempo, fa da cartina di tornasole alla sua misoginia e alla sua dissimulata omosessualità. Al porto, luogo criminoso per antonomasia, non succede praticamente nulla, il traffico di droga si sviluppa tra sedicenti circoli filologici, studi di registrazione e scuole di danza, tutti ambienti puntualmente dileggiati ‒ nella loro presunta intellettualità ‒ da una regia scostante. L’Americano è estraneo a questo mondo in quanto yankee ‒ glielo rinfaccia apertamente Lo Gallo ‒ ed è l’intruso in un mondo che non gli appartiene: tutti lo vogliono cacciare, polizia e criminali. Infine non si può non rilevare come il regista opti per la dissacrazione delle fondamenta del genere, a partire dall’inseguimento automobilistico. Lo si evince dal fatto che le fughe, nel finale ‒ prive di sviluppo e sistematicamente stroncate sul nascere ‒ sono messe in scena facendo ricorso a scalcinati furgoni, autobus e ape car, mezzi ridicoli e decisamente improbabili in tale contesto.

Sin dai titoli di testa si denota la natura di straniero/turista di quello che sarà il protagonista del film (senza nome, indicato solo con lo stigma dello straniero), il quale entra in città e si confonde con il caotico affollamento del centro storico: frenetico, dinamico, multiculturale, vibrante di tensione in cui il “vecchio” si mescola con il “nuovo”, su un piano tanto urbano quanto antropologico. Da qui in poi, per tutto il film, si respira un’aria esotica, mediorientale, che si traduce in atmosfera straniante. A prevalere ‒ contraddicendo l’ariosità della città di Colombo (e la natura stessa del genere) ‒ è la similitudine del naufrago: rischio continuo di soffocamento, acqua alla gola che impedisce il passaggio dell’aria e che intacca la lucidità del cervello, ben rappresentata dal progressivo chiudersi degli spazi intorno al protagonista. L’azione è compressa in luoghi chiusi: appartamenti poveri in edifici vetusti, bagni pubblici, corridoi, strettoie, container dell’autoporto Pescarito ‒ così che anche gli esterni aumentano la claustrofobia. Anche l’inseguimento in Sopraelevata è tutto racchiuso dentro gli abitacoli di due automobili. In un breve ma significativo passaggio il naufragio metaforico della città è reso esplicito dalle parole di Marta Mayer, la quale volgendo lo sguardo verso il porto afferma: Hanno costruito tutto questo pensando che durasse in eterno. Guardi tutte quelle navi ferme… è la fine di un’epoca”. Il richiamo è alla storica crisi del settore navale che colpisce Genova negli anni Settanta ed è solo il primo di una serie di rimandi (più o meno velati) alla condizione industriale della città, di cui, ad esempio, si evoca anche l’abbandono dei moli (come L’Etiopia) ormai in disuso da anni. Inoltre nel film l’intero porto è deserto, privo di operosità e di folklore; le navi ancorate ai moli, immobili, sono divenute covi criminali, i container improvvisate abitazioni per disperati. Tutto è spento, neanche le sirene suonano più: è una Genova da incubo che dietro la riconoscibilità urbanistica nasconde l’orrore e la crisi sociale.

Mario Lanfranchi traduce il «verosimile filmico» di Della Volpe associando all’adrenalinica prima mezz’ora che tiene fede al titolo e al genere il progressivo rallentamento dell’azione: lo spettatore, abbagliato dalla “Genova a amano armata” ‒ ennesimo capitolo delle città violente ‒ non si accorge della brusca sterzata del film nei territori del noir intellettuale. La virata è prima di tutto scenografica: al pauperismo e alla riconoscibilità urbana degli ambienti si sostituisce l’anonimato lussuoso e barocco di palazzi antichi dai soffitti affrescati e dal mobilio sofisticato, ricchi di storia e di opulenza anacronistica. L’impianto diventa teatrale e assume imprevisti (e imprevedibili) connotati psicologici. L’Americano ‒ nella prima mezz’ora efficiente, risolutivo, capace di anticipare le mosse degli avversari ‒ entra in uno stato di torpore: perde colpi, si fa fregare come un principiante, inizia a muoversi confusamente e a non portare a compimento alcuno dei suoi obiettivi. Il poliziotto adrenalinico e scattante, misogino e svagato, cinico e spietato (picchia furiosamente criminali, disabili e donne), lascia il posto al fantoccio imbambolato che cade nella rete tesa dall’ammaliante Marta, la quale non nasconde la sua anima da maliarda che tenta il sortilegio. Dopo il fallito tentativo di uccisione gli dice, buttandogli le braccia al collo e sfiorandolo con le labbra: “Sono felice di vederti vivo… Perché sono una donna. E tu sei proprio un poliziotto eh? Lo sei qui [indica il cervello, nda] qui [il cuore, nda], e qui” [i genitali, nda]. Solo una volta tornato all’esterno l’Americano riacquista la necessaria lucidità per contrastare un nemico così infingardo, tant’è vero che il secondo tentativo della donna di circuirlo è destinato al fallimento. Nel furgone ‒ dopo che i suoi uomini l’hanno catturato ‒ gli dice: “Tu sei quello che chiamano un duro ma l’epoca dei duri è passata, oggi non serve più”.Salvo poi dover ammettere, al momento della resa dei conti: “Tu mi hai insegnato una cosa: ciò che conta non è il denaro o il potere di per sé… Ma l’emozione che queste cose possono procurarti… E io queste emozione l’ho provata con te”.

Genova a mano armata denota il prevalere di un impianto letterario ‒ desunto e tradotto da suggestioni hard-boiled alla Hammett ‒ che emerge robustamente dal ritmo incalzante e dalla variegata originalità dei dialoghi tra i due poliziotti conterranei, siciliani: vere e proprie raffiche di mitra sferzanti e corrosive. Lo Gallo, questurino di Stato, fedele alla legge e al mandato, solerte riscossore dello stipendio pubblico, e l’Americano, straniero senza nome che sveltisce le procedure e agisce al di là della legge, nascondendosi dietro l’anonimato del poliziotto ribelle e indisciplinato, cacciato dalla polizia. Alcuni passaggi dei loro dialoghi sono illuminanti:

Lo Gallo: “Qui non siamo a New York. In questo posto di merda i poliziotti privati muoiono di fame… Ed è giusto così. Tu non hai bisogno di leggi, di mandati, di giudici istruttori, regolamenti… Niente. Tu non devi rendere conto a nessuno…”

L’Americano: “Tu sei un vecchio, rispettabile funzionario. Sei una scimmietta ammaestrata che fa quello che dice il padrone”.

I due personaggi si punzecchiano come cane e gatto ma sono entrambi disillusi e malinconici nei confronti di un mondo che appare loro sempre più estraneo. Lo Gallo, con graffiante sarcasmo, sottolinea con sorpresa ogni successo investigativo che gli riportano i suoi sottoposti; agisce prevalentemente da solo, senza poliziotti e senza “pantere”, risulta totalmente impotente di fronte al dilagare della criminalità al punto che riversa sull’amico/rivale tutta l’invidia e la frustrazione per il suo agire da “fuorilegge”. L’Americano combatte una rancorosa battaglia personale ‒ che trova risoluzione solo nella vendetta (la spietata e brutale esecuzione di Caleb) e non certo nel successo investigativo ‒ in una dimensione solipsistica in cui assume comportamenti immorali (antipodali alla purezza del commissario del poliziesco italiano), promiscui e deontologicamente discutibili non per perseguire un disegno di giustizia ma solo per raggiungere un traguardo personale sul piano dell’orgoglio e dell’arricchimento. Mette effettivamente in atto quanto gli suggerisce – forse è la prima “fattura” lanciata nei sui confronti ‒ Marta Mayer al momento del loro incontro al circolo velico: “La giustizia è lenta: polizia, indagini, avvocati, ostacoli, amnistie. Forse se qualcuno si sostituisse alla giustizia…”.

L’operazione intellettuale di Lanfranchi è decisamente ambiziosa e inconsueta (non solo per il genere): vuole elevare il Male al rango di Bene. Le tesi dellavolpiane del «verosimile filmico» confluiscono nella contraddizione della natura del poliziesco italiano qui conseguita attraverso una sistematica (fuorviante, fraudolenta per lo spettatore) sovrapposizione tra i codici del genere e una durezza cinematografica intellettuale, estranea alla tradizione nostrana. La vicenda si avvolge in una torbida spirale che soffoca ogni anelito di classificazione e il film, saturo di colori, sapori, tradizione, stereotipi prettamente italiani è, al contempo, snaturato nella sua evidenza poliziesca e si addentra in territori inesplorati di analisi introspettiva e psicologica delle dinamiche di genere e di potere declinate in un’ottica sadomasochista solo fintamente blanda.

di Fabrizio Fogliato ©

Per saperne di più clicca su:

Scrivi un commento