UN TRANQUILLO POMERIGGIO DI VIOLENZA FASCISTA: IL DELITTO MATTEOTTI
Il delitto Matteotti è crimine barbaro, osceno, spregevole; rappresenta un punto nodale della storia italiana nella scissione netta tra due emicicli culturali responsabili entrambi: fascisti mandanti ed esecutori; antifascisti pavidi, divisi oppositori. L’opera di Florestano Vancini, (l’unica a occuparsi della questione) presenta il delitto Matteotti come il risultato di un concorso di colpa.
Il film, dipinto a tinte fosche di una società di canaglie e galantuomini, opportunisti e idealisti, teorici e pragmatici, patrioti e rinnegati. Con sguardo rigoroso e oggettivo, Vancini (regista quanto mai inopinatamente sottovalutato) con Il delitto Matteotti (1973) raffigura ruoli e connivenze: industriali compiacenti, Vaticano asservito e pavido, classe politica liberale e socialista imborghesita; solo sullo sfondo si intravede un popolo vittima, carnefice di se stesso. Le uniche immagini del film che raccontano scene di vita quotidiana sono quelle della lenta e silenziosa processione sul lungo Tevere Arnaldo Da Brescia per deporre i fiori su una croce nera dipinta sul parapetto sul luogo dell’agguato al deputato socialista. Nonostante esca di scena dopo circa un quarto d’ora di film,
Giacomo Matteotti (Franco Nero, monumentale) emerge in tutta la sua forza ed efficacia: un gigante della democrazia al cospetto dei nani del fascismo e dell’opposizione costituzionale (e anche qui il film è perfetto: ha valore educativo perché cancella in un colpo solo le poche righe dedicate dai libri di scuola all’On. Matteotti a fronte delle pagine e pagine su Mussolini; di chi la colpa?).
Matteotti è un martire della libertà; se il suo, a prima vista, può sembrare un sacrificio inutile: le sue ultime parole, rivolte a De Gasperi dopo il discorso alla Camera (andrebbe studiato nelle scuole) sono: «E allora preparatemi un bell’elogio funebre!»; quello del 30 maggio ‘24 è un atto estremo, lungimirante che smaschera la menzogna del potere, svela il vero volto del fascismo. Dopo morto è spettatore di una partita impari e obliqua in cui le opposizioni plaudenti al suo discorso, soccombono miseramente a causa della loro incapacità di leggere il momento storico; Mussolini trionfa perché cinico e risoluto ad approfittare delle impreviste, confuse, grottesche conseguenze (i mandanti che fanno arrestare i mandatari) del delitto da lui suggerito.
Il discorso del 3 Gennaio del 1925 è perfetta lente di ingrandimento per leggere l’efferato crimine di sei mesi prima: compiuto da un gruppo di balordi, criminali di stato capeggiati da Amerigo Dumini al libro paga di Cesare Rossi e Giovanni Marinelli. Scarto questo che è presentato al termine del primo sommario sulle testate dei quotidiani dell’ 11 giugno 1924: un cambiamento sonoro, che da marziale si fa minaccioso, la macchina da presa inquadra il corsivo (non firmato) dello stesso Mussolini dal titolo “Krilenko Matteotti”. In cui è contenuta la famosa frase sotto forma di messaggio in codice (suggerisce la necessità del delitto): “L’On. Matteotti ha tenuto un discorso mostruosamente provocatorio che meriterebbe qualcosa di ben più tangibile dell’epiteto di masnada lanciato dall’On. Giunta”.
Il linguaggio fascista si esprime attraverso una velocità futurista basata sul motto icastico, l’estrema sintesi dell’invettiva e del vituperio in grado di far presa tanto sulle folle plaudenti nelle piazze, quanto tra gli scranni di Montecitorio («Si è detto che io avrei fondato una Ceka? Dove? Quando? In qual modo!»; «Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo: fuori il palo; fuori la corda!»). Le minoranze sono spazzate via a causa della loro ignavia e presunzione. Quella dell’astensione dai lavori parlamentari è una scelta suicida: Mussolini chiude subito la Camera e neutralizza sul nascere ogni velleità di rivolta, costringendo gli uomini di potere a costituire interminabili riunioni dentro stanze lussuose e fumose. I vari Turati, Modigliani, Treves, Gronchi, Lussu, Di Cesarò, utilizzano un linguaggio politicheggiante, articolato, incapace di giungere al cuore del problema. Le riunioni dell’Aventino, nel film sono rappresentate con l’iconografia di politici tronfi, ingrigiti, sprofondati dentro gigantesche poltrone, seduti attorno ad un grande tavolo dentro una stanza dall’arredamento barocco, opprimente. Un ritratto della scena politica di inizio ‘900 basato su una ricostruzione meticolosa degli eventi e delle scelte, ma trattato volutamente con una discrasia di scrittura che fa emergere titanica la figura di Giacomo Matteotti e, contemporaneamente, condanna senza appello ad un’esplicita inferiorità il resto della classe politica.
Il mimetismo degli attori contribuisce a costruire una pinacoteca di ritratti in cui ogni carattere risulta approfondito e studiato; la cronaca storica e filologica del contesto politico dell’epoca è restituita con la ricostruzione ineccepibile dei fatti reali. La sequenza del sequestro dell’On. Matteotti presenta una breve, fondamentale cesura: il controcampo sul raccordo di sguardo mette l’uno di fronte all’altro Matteotti e Dumini. Breve inserto che testimonia come il deputato sia (volutamente) andato incontro al proprio destino – realizzando il suo pensiero secondo cui solo il sacrificio di uno dei leader dell’opposizione avrebbe potuto rinvigorire un antifascismo radicale. Vancini pone altre figure di rilievo al centro della lotta: personaggi, galantuomini dai modi gentili, moralmente intonsi e rigorosi che si pongono come barriera insormontabile di fronte all’avanzata fascista. Essi sono soli, abbandonati alla loro battaglia, isolati dal contesto in cui si trovano ad agire: come Mauro Del Giudice (interpretato da uno strepitoso Vittorio de Sica), il magistrato che si occupa delle indagini sul delitto Matteotti, uomo integerrimo, fermo, arcigno nel rispetto della legge, impavido e leale di fronte alla prepotenza fascista.
Il Delitto Matteotti (1956) di Nelo Risi è un cortometraggio di rara bellezza capace di unire l’esperienza letteraria del poeta, la lezione del pedinamento neorealista di Zavattini, l’impegno civile, per dipanare l’intricata matassa di quei tristi giorni di primavera del 1924. L’opera di Nelo Risi è un piccolo capolavoro capace di unire – attraverso una sintesi rigorosa – linguaggi diversi, immagini d’archivio, foto d’epoca e riprese appositamente effettuate. I luoghi sono illustrati, non come spazi in cui si verificarono i fatti, ma come ambienti abitati dalla presenza invisibile dei protagonisti, immersi in un silenzio parlante che funge sia da commento alla narrazione sia da spazio di riflessione per lo spettatore. Il corto è composto da una serie di non-luoghi altrettanto rappresentativi e simbolici: il lungo Tevere Arnaldo Da Brescia, popolato da una folla immensa in processione che rende omaggio a Matteotti sul luogo del rapimento, trasformando quel tratto di strada sterrata e polverosa in un mausoleo della democrazia; il presunto tragitto della Lancia nella campagna romana lungo la Flaminia e la folle corsa dell’automobile verso un luogo imprecisato: improvvisamente l’auto si ferma dietro a un cespuglio, spegne i fari e lo schermo diventa nero: tre stacchi con il senso dell’avvenuta tragedia; la soggettiva della bara che discende dal treno nella stazione di Fratta Polesine, in cui il movimento della macchina da presa simula la discesa del feretro dal vagone del treno merci e al contempo, il carrello rivolto verso le fronde degli alberi, mostra l’ingresso di Matteotti in un ipotetico paradiso, restituendo allo spettatore il senso di pacificazione e misericordia che le immagini portano con sé.