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Fabrizio Fogliato

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MS. 45 (L’angelo della vendetta, 1981) di Abel Ferrara – Capitolo 3

Zoë Tamerlis Lund: biografia metacinematografica

Ferrara, non si limita solo a rivisitare Buñuel, uno dei suoi autori preferiti, ma – oltre a chiudere il film con un animale simbolico (il cagnolino Philly che ritorna (in Ms.45) e la cavalla Lozana che si rialza (in Susana)) per evidenziare la non completa malvagità delle protagoniste – ricalca l’espediente linguistico del maestro spagnolo, in cui Susana vuol dire “castità”, mentre Thana rimanda a “Thanatos” (con l’aggiunta qui che l’attrice si chiama Zoë cioè vita). Luis Buñuel, mette in bocca a Feliza la frase che al meglio descrive Susana (e per rimando anche Thana): “Quella non è decente neppure con indosso una veste da suora”.

MS. 45 (L’angelo della vendetta, 1981) di Abel Ferrara – Capitolo 2

Il fallo armato e le corrispondenze buñueliane

Nicodemo Oliverio scrive la sceneggiatura per episodi, in funzione del fatto che la protagonista principale è muta e che, soprattutto, gli altri personaggi servono solo da contorno – visto che sono (volutamente) poco più che macchiette che non hanno nulla da dire. Ferrara, utilizza, in parte, la stessa tecnica del film precedente – sia nel concentrare in una scena di accumulo gran parte degli omicidi di Thana, sia nel riprendere le scene tra la folla della 5a Avenue (in cui passeggiano Thana e il fotografo) attraverso l’utilizzo della hidden camera. Nonostante le continue negazioni da parte di Abel Ferrara, non si può prescindere dal notare come il film sia influenzato dalle teorie femministe, secondo cui lo stupro è solo l’espressione più diretta dell’aggressività del maschio all’interno di ogni relazione eterosessuale, e secondo cui, quindi, tutti gli uomini sono colpevoli e punibili con la morte: non a caso Thana rivolge le sue attenzioni omicide anche verso innocenti la cui unica colpa sembra essere quella di appartenere al genere maschile – così come il primo stupro si conclude con la frase, intimata all’orecchio dal violentatore: “Devo fare presto, ma tornerò perché ti piace, ti aspetterò io…e ti piacerà ancora, ti piacerà..”.

Ms. 45 (L’angelo della vendetta, 1981) di Abel Ferrara – Capitolo 1

New York Calibro 45

Il film – più conosciuto con il titolo internazionale di Angel of Vengeance (L’angelo della vendetta) – esce nelle sale americane il 24 aprile 1981, in realtà con un titolo molto meno sensazionalistico e ben più incisivo. Il titolo originale infatti, è Ms. 45 ovvero “Sig. calibro 45” (Ms è la forma neutra che si usa quando non si vuole distinguere tra “Miss” e “Mrs”). È un film che solo apparentemente si inserisce nel filone rape and revenge, tanto in voga in quel periodo, poiché sotto la struttura di film di genere il regista newyorkese affronta temi ben più profondi e importanti.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 6

La pulsione di morte anima il ‘68

In Cálamo Massimo Pirri riprende lo spazio in ottica antonioniana – non come semplice rappresentazione architettonico-paesaggistica – come luogo che amplifica e determina tanto il carattere dei personaggi, quanto il contenuto delle situazioni che si sviluppano in esso. Riccardo nella villa – come negli altri ambienti chiusi – è sfasato rispetto allo spazio in cui si muove ed è perennemente in dissidio con quanto gli accade attorno; negli spazi aperti è spaesato, perduto, persino passivo – come dimostra la sequenza iniziale in cui è “un uomo che guarda” il sesso della donna, e in cui è totale la mancanza di contatto: la realtà si consuma attorno a lui.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 5

Il saprofita nel càlamo

Riccardo quindi è una figura cristologica dimezzata (perché incompiuta), realmente incapace di vivere in maniera piena da solo ma sempre a rimorchio di qualcuno: la sorellastra, il gruppo, la vocazione. Una vocazione che se in un primo momento appare forzata e di comodo – per sfuggire alla famiglia e alle sue imposizioni e ipocrisie – in un secondo istante, dopo aver preso consapevolezza della scelta a seguito dell’amplesso con Marina/Càlamo, assume i toni dell’anticonformismo maturo, sincero, sacrificale. La figura del prete, in quanto “servo del Signore”, assume in Riccardo i crismi dell’unica scelta possibile per opporsi strenuamente alla “vanità” che lo circonda.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 4

Favola del XX° secolo

Riccardo intraprende un viaggio – via crucis che a tappe forzate (e a ritroso) lo porta a confrontarsi con il passato e il presente di un’Italia fatta di cimiteri di automobili, case dismesse e cascine semi-abbandonate. Luoghi e volti – quelli che incontra il giovane – retaggio di un progresso che produce solo rifiuti, di un lavoro che non c’è, e di una cultura contadina in progressivo decadimento e abbandono. Il “viaggio” di Riccardo è dunque finalizzato a porre una riflessione – cinica e spietata – sul contesto sociale in cui maturano le istanze rivoluzionarie e in cui crescono e diventano adulti questi giovani che sono sì colpevoli ma, inevitabilmente, anche vittime. In quest’ottica entra il concetto di possesso non inteso come accumulo di beni materiali bensì come contratto delle coscienze e dei piaceri.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 3

Montaggio erotico per un madrigale surrealista

Il percorso cinematografico di Massimo Pirri negli anni ‘70 dimostra come le quattro tappe dei quattro film realizzati scandiscono l’involuzione dei sessantottini fino alla nemesi e autodistruzione che scorre nelle siringhe di eroina del film omonimo. Si può quindi dire che la sua filmografia traduca in immagini i concetti espressi (a parole) in Càlamo. Attraverso il monologo di Marina sulla spiaggia, Pirri non si limita a denunciare l’ipocrisia borghese e a smascherare l’inconsistenza di velleità reazionarie di una intera generazione (quella del ’68) ma anticipa le tragiche conseguenze della disillusione e il successivo sfociare nel terrorismo politico: “Il mondo deve cambiare, in tutto, se no, meglio crepare che vivere così. Bisogna andare oltre, credimi. Cominciare da dentro: cuore nuovo, vita nuova. E se non ci riuscissi, allora meglio assassina, puttana o dinamitarda”. Ambiguità e ipocrisia sono strutturate da Massimo Pirri – lungo tutta la pellicola – attraverso l’uso insistito del montaggio alternato secondo le dinamiche tentazione/redenzione. Il regista mostra, contemporaneamente, il desiderio che anima il peccato e l’abbandono del corpo ai piaceri della carne sottolineando, continuamente, cause e conseguenze e mescolando, arbitrariamente, libertà e oppressione – il tutto al fine di restituire una visione vertiginosa del libero arbitrio.

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 2

Lo stigma di una generazione…

In realtà i dialoghi talvolta logorroici, talvolta “presuntuosi” di Càlamo, sono invece parte di una scelta autorale consapevole – forzatamente ricercata – finalizzata a mettere in scena il falso come stile di vita e persino come stigma di una generazione. Il film si avvolge attorno alla condanna del gruppo che – come rabbiosamente comprende Riccardo nel finale – alla rivoluzione “non ci ha mai creduto” ma l’ha utilizzata, strumentalmente per nascondere pavidità e velleitarismo. Le parole, dunque, nella sceneggiatura del film diventano puro elemento retorico che denuncia l’ipocrisia dei sessantottini, i quali altro non hanno fatto che approfittare delle circostanze per vivere una stagione simbolicamente libertaria, prima di rientrare nei ranghi del conformismo borghese e rassicurante: non a caso, nel finale una volta indossati gli abiti di circostanza le parole del gruppo si fanno rarefatte e concrete.

Voi cari “sessantottini”, avevate tutto, ricchezza e cultura. […] Voi “sessantottini”, avevate dalla vostra la comprensione e l’ammiccamento complice dei vostri genitori e dei grandi giornali borghesi. “Sun Zueni”, sono giovani dicevano di voi, guardandovi con l’occhio compiaciuto con cui il padre guarda il figlio “tanto vivace”, i vostri genitori borghesi e benestanti…[1]

CÁLAMO (1975) di Massimo Pirri – Capitolo 1

Il sesso della rivoluzione…

Tratto da un soggetto dello stesso regista e sceneggiato in collaborazione con Piergiovanni Anchisi, Cálamo è l’opera prima di Massimo Pirri ed è anche il film in cui i riferimenti a Luis Bunuel (per le immagini surreali) e a Michelangelo Antonioni (per il modo di inquadrare lo spazio e il paesaggio) emergono meglio, grazie anche ad una scrittura filmica coerente e meticolosa. Il titolo – che fa riferimento all’immagine di un fiore carnivoro equiparato al sesso femminile depilato – identifica nell’attrice il film stesso: sui titoli di testa infatti, compare l’inconsueta dicitura Cálamo è Paola Montenero. Cálamo è dunque un simbolo, quello della ricerca, meditata e assoluta, della trasgressività, sia a livello di forma sia a livello di contenuti. Cálamo è una pianta carnivora che dona al contempo amore e morte, ed è quindi solo la rappresentazione di un concetto, quello di amore/peccato che tutto travolge e tutto annulla flirtando con una trasgressione fittizia e posticcia che niente ha di reale. Una trasgressione falsa perché agita da rivoluzionari in giacca e cravatta che, nella parole aleatorie e nella proiezione del sesso libero, credono di violare la costrizione (della religione) e di trovare la libertà (intesa come assenza di regole).

MORTE SOSPETTA DI UNA MINORENNE (1975) di Sergio Martino

Solo violando la norma si può esercitare la legge: Aldous Huxley per rileggere Sergio Martino

Con Morte sospetta di una minorenne (1975), Sergio Martino mette in atto alcune procedure studiate e sistematizzate da Aldous Huxley nel suo saggio L’arte di vedere, declinandone la forma patologica e distorcente. Anton Giulio Mancino – a proposito del film – sottolinea come “deformare le prospettive, specialmente nel poliziesco e nel giallo, vuol dire per il regista sottolineare l’enormità altrimenti inenarrabile delle circostanze evocate.”[1]