Antropologia di una nazione: un dialogo politico con la società italiana

Perché a distanza di cinquant’anni “Profondo rosso” (1975) di Dario Argento continua a turbare e a suscitare interesse? Perché scrivere ancora su un film su cui è già stato detto tutto e il contrario di tutto? Perché parlare di un film che oggi (ancor più di ieri) è esperienza acusmatica incisa nelle note immortali dei Goblin? Certo per celebrarlo, ma anche perché, in realtà, c’è ancora molto da scoprire e da dire.

Partiamo da due citazioni dialogiche del film. Entrambi riguardanti il dialogo – davanti alla fontana, dopo il primo delitto – Carlo (Gabriele Lavia) a Marcus Daly (onomastica come da titoli di coda – David Hemmings): «Certe volte quello che vedi realmente e quello che immagini si mischia nella memoria come un cocktail, del quale tu non riesci più a distinguere i sapori. No Marc, tu credi di dire la verità, e invece dici soltanto la tua verità». La seconda, ancor più decisiva: «Sai Marc? La differenza tra noi due è una differenza politica. Tutti e due suoniamo piuttosto bene, ma io sono il proletario del pianoforte, tu invece sei il borghese. Tu suoni per l’arte, […] io lo faccio per sopravvivere». Due citazioni che si legano ad una dichiarazione dello stesso Argento: «I personaggi erano pensati così. La giornalista era anche rappresentante di un certo tipo di donne degli anni’70 […]. Anche l’omosessualità era una cosa che veniva riscoperta […] Nel film c’è anche un travestito, che è l’amico del pianista».

La realtà che si confonde è quella dell’Italia degli anni’70 – del 1974, l’anno in cui il film è stato girato – l’appartenenza di classe è in linea con l’espressione del periodo e, infine, la città spettrale che fa da sfondo al film è il sintomo della paura. Un’Italia che esce dall’austerity figlia della crisi petrolifera del 1973; che vede esplodere le bombe neofasciste di Brescia (28 maggio) e San Benedetto Val di Sambro (BO) – treno Italicus – (4 agosto); che affronta con mobilitazione di massa il referendum sul divorzio (12-13 maggio). “Profondo rosso” è, quindi, – anche, se non soprattutto, un film politico – perché come ci ricorda Marc Ferro per ogni film è necessaria la sua lettura Storica in parallelo alla lettura cinematografica della Storia. Un film è quindi sintomo di una società nelle sue multiformi apparenze. Queste nel capolavoro di Argento sono (nell’ordine e legate da nessi evenemenziali): la città, l’identità e la famiglia, tutti letti da una prospettiva “contro” determinata dalla paura, dal Male.

La città di “Profondo rosso”, architettura e toponomastica tra Roma e Torino (ma anche Perugia – per il cimitero ebraico) che rimanda al cocktail evocato da Carlo è buia, carica di angoscia, solitudine e desolazione; attraversata da
un silenzio strano, anormale, che non a caso ha il suo centro evocativo in Piazza C.L.N (Torino) dominata da architetture metafisiche che sembrano uscite da un quadro di Giorgio De Chirico, in cui agisce per la prima volta il Male nella confusione tra “realtà” (la piazza con le due fontane rappresentanti il Po’ e la Dora Riparia e “immagine” (la superfetazione del “Blue Bar” – scenografia ricostruita che riproduce il quadro “Nighthawks” di Edward Hopper).

Quando una città non ha più vita di notte vuol dire che qualcosa non funziona anche nella sua vita di giorno: e, infatti, nella città del film c’è solo più spazio per disagio, angoscia, solitudine e alienazione, sensazioni che fibrillano sotto la cute dei personaggi come degli spettatori. Non è una città pericolosa, non c’è nulla che lo mostri a prima vista; eppure, è una città che fa paura, che sprigiona rabbia e frustrazione, che sembra attraversata da un agente maligno e predatorio. Certo c’è un assassino in giro per le strade, per cui il pericolo è presente e vicino, ma non sai individuarlo: è presente ovunque, entra negli spazi senza né aprire le porte né compiere effrazioni, la sua presenza è pervasiva e persistente, stagnante dentro gli ambienti e atemporale, sospesa tra il passato (la villa del bambino urlante e il trauma), il presente (gli omicidi seriali) e il futuro: perché il futuro se il killer viene eliminato fisicamente? Lo spiegano bene i titoli di coda con la scritta anomala: Avete visto “Profondo rosso” di Dario Argento – come a dire avete assistito allo spettacolo del Male che una volta terminato l’incubo non si estingue perché – come ricorda Theodor Adorno il “lieto fine” non fa i conti con la Storia.

L’altra grande questione politica al centro del film è quella dell’identità. Addentrandosi nell’abitazione della sensitiva Helga Ullman (Macha Meril) – dopo la sua uccisione – il protagonista vede scorrere ai lati del corridoio che attraversa, una serie di lugubri quadri, abbacinati rappresentazioni di volti deformati (opera dell’artista Francesco Bartoli che “copia” quadri di Enrico Colombotto Rosso) e in seguito ricorderà (meglio, non ricorderà, il particolare rivelatore che pure ha percepito). Egli è dunque un’entità centripeta: non più individuo ma personaggio, spettatore e vittima (designata perché ha visto la verità ed è solo questione di tempo perché questa ritorni a galla). Egli incarna la crisi d’identità dello “straniero” in senso lato, del cittadino solo nella metropoli: è vero che – sin da subito trova il suo Virgilio nella giornalista Gianna Brezzi (Daria Nicolodi) – ma è altrettanto vero che di fronte alla verità ci arriverà da solo dopo aver attraversato l’esperienza del male di vivere, di cosa si prova a vivere in una realtà metafisica, deumanizzata.

Assurda come mostra la solitudine storica di un combinato urbano sviscerato dalla macchina da presa di Argento da tutte le angolazioni possibili (e improbabili) per mostrare un’umanità fatta di individui-manichino (quante sono le figure immobili nel film, a partire dalle maschere del teatro Carignano) in crisi di identità tra paura e iperconsumismo e alla deriva errabonda nel tentativo inesausto e destinato ad essere frustrato di “ricostruire il mondo”: in “Profondo rosso” nessuno si salva, neanche Marcus perché la sua immagine si riflette nel rosso sangue della vittima; egli ha perso l’innocenza per diventare un assassino.

L’ultimo grande tema è la famiglia. Il film di Argento presenta individui soli, tutti sistematicamente uccisi: la sensitiva Helga Ullman, la scrittrice Amanda Righetti (Giuliana Calandra), lo psichiatra Giordani (Glauco Mauri); famiglie disfunzionali come quelle dell’assassino e quella del portiere della villa (Villa Scott, opera dell’architetto Pietro Fenoglio nel 1902, vetta eccelsa dell’Art Nouveau sita a Torino in Corso Giovanni Lanza 57). Gli altri personaggi sono tutti – chi dichiaratamente, chi allusivamente, omosessuali – comparse più o meno pregnanti in una società che fatica ad accettarli, destinati a vivere nascosti e in spazi chiusi, sempre lontani da sguardi indiscreti.

Infine, c’è Gianna, donna emancipata, dai tratti sensuali e androgini. Un concentrato di contraddizioni che fa paura e che denuncia la misoginia di una società che vede nella donna forte un vero pericolo (in certi tratti del film non è difficile ipotizzare che il killer sia lei e Argento fa di tutto per rimarcarlo). E poi c’è la coppia di familiari legata indissolubilmente dal legame del sangue versato e che dimostra (ieri come oggi, come sempre) che è nel “segreto” domestico della famiglia che il Male si genera e alimenta e a nulla serva occultarlo dietro pareti, finestre, intonaci fittizi, perché è destinato a colpire nuovamente una volta che se ne rigenerino le condizioni. Anche per questo “Profondo rosso” è opera universale, più attuale che mai.

di Fabrizio Fogliato ©

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